“Un insieme assai ampio di fenomeni, connessi con la crescita dell’integrazione economica, sociale e culturale tra le diverse aree del mondo”

L’enciclopedia Treccani definisce così la globalizzazione, un termine che, a partire dal 1990, si è diffuso fino a costituire una delle principale questioni di carattere mondiale, dove i dibattiti ruotano prevalentemente attorno alla sua stratificazione, oltre che sull’effettiva portata di tale fenomeno. A fronte di una globalizzazione economica e finanziaria via via più certa e affermata, essa risulta invece più indefinibile e ricca di contraddizioni sul piano sociale e culturale, a dispetto dell’opinione generalista: l’antropologo Stefano De Matteis ha coniato l’espressione “false libertà”  proprio per indicare l’insieme di convinzioni e di peculiarità generalmente attribuite al mondo presente, ritenuto (erroneamente) globalizzato in tutto e per tutto. Una delle principali, false certezze legate alla globalizzazione è quella relativa all’idea di una standardizzazione imperante, con norme e principi comuni che presumibilmente andrebbero a livellare il più possibile, col fine di cancellarle, le differenze e in generale gli ostacoli a una interconnessione globale.

in un mondo (globalizzato, e nello stesso tempo fatto a mano da ciascuno di noi) che offre spaesamenti e dispersioni, la sicurezza viene cercata nelle regole: e queste più sono ferree e più danno certezze; in genere in tali situazioni si cercano condivisioni, nel senso di appartenenze ideali, ideologiche e materiali. – Stefano De Matteis

Ciò che effettivamente si verifica vede le varie realtà (culturali, sociali ecc) “locali”  chiudersi a riccio, o comunque a lottare per la sopravvivenza all’interno di un fenomeno, la globalizzazione, che più o meno coscientemente promuove l’estinzione delle diversità, più che la loro integrazione. In uno dei libri del sopracitato antropologo, intitolato “Le false libertà: verso la postglobalizzazione (Meltemi, 2017)” vengono raccontate diverse storie, tra cui quella di un negoziante bengalese trasferitosi a New York, Amitav, che abitava all’interno di una comunità di connazionali, intenti a conservare il più possibile nella vita di tutti i giorni usi e costumi del loro paese d’origine, il Bangladesh. Parallelamente all’avvenuta integrazione nella società americana, Amitav coltivava infatti il legame con la sua terra d’origine e con i suoi figli e parenti, divisi in più parti del globo. Egli aveva, in casa, una parete con affissi tre orologi, dove ognuno segnava un’ora diversa.

Wall clocks

Dei tre orologi, il primo segnava l’ora della città d’origine, Chittagong. Il secondo quella di Francoforte, molto simile a quella di Milano. Il terzo quella della città di residenza, New York.

La maggior parte dei parenti si trovava infatti in Bangladesh, mentre alcuni figli vivevano e lavoravano a Milano e a Francoforte; Amitav teneva questi orologi per una ragione pratica, legata alla possibilità di telefonare nel momento della giornata più opportuno tenendo conto del fuso orario, ma non era da meno la funzione simbolica relativa alla “resistenza” portata avanti nei confronti della globalizzazione in sè. La stessa che, tuttavia, gli aveva permesso di trasferirsi altrove alla ricerca di un futuro migliore, e che oggi avanza nuove necessità: se ad esempio fino a qualche decennio fa la conoscenza dell’inglese (la lingua “franca” del nostro tempo ndr) costituiva un valore aggiunto, oggi rappresenta invece un obbligo o quasi, un’esigenza più o meno pressante spesso ed erroneamente data per scontata.

Come si collegano tali aspetti al videogioco? Quali effetti ha prodotto su di esso la globalizzazione?

La nuova realtà globalizzata ha di certo, nel bene e nel male, provocato uno stravolgimento di valori e di stili di vita, anche grazie all’elevatissimo livello di produzione di merci che, parafrasando il filosofo Gianni Vattimo, si traducono costantemente in un bombardamento di stimoli, che a loro volta innescano un sovraccarico sensoriale: basti pensare alla pratica del backlog, un fenomeno videoludico assolutamente paradigmatico all’interno di una società sempre più “usa e getta”, dove la sete di profitto, la concorrenza e altri fattori hanno contribuito a una saturazione del mercato. Saturazione che si esprime attraverso un’abbondanza di titoli impensabile fino a vent’anni fa, con (salvo eccezioni) prezzi via via più accessibili che hanno incentivato l’acquisto compulsivo da parte di molti giocatori, che tra un saldo e un bundle hanno finito con l’accumulare centinaia di titoli, soprattutto nelle librerie digitali.

La globalizzazione avviene infatti in parallelo con quella che si è venuta a definire come era del digitale, una fase della storia del mondo che ci riguarda in prima persona e che ha numerose implicazioni.

Steam

La piattaforma sinonimo di backlog è per antonomasia il PC, e nella fattispecie Steam. Il sottoscritto al momento è, tristemente, a quota 828 titoli.

Il processo di digitalizzazione in atto non risparmia infatti i videogiochi, con un numero crescente di titoli distribuiti unicamente nei vari store online, a discapito dell’esistenza delle copie fisiche, la cui estinzione pare essere annunciata. Esse in origine comprendevano (e in parte comprendono ancora) il disco o in generale il supporto contenente il videogioco, un libretto d’istruzioni e, a volte, mappe o altri prodotti che potevano riguardare la lore del videogioco, oggi quasi esclusivamente racchiusa entro il titolo stesso, complice anche lo sviluppo tecnologico e la possibilità di immagazzinare quantità di dati sempre maggiori. Ironica e paradossale diventa, negli odierni negozi, la possibilità di imbattersi in confezioni fisiche di titoli contenenti la sola key del gioco, da riscattare sulla piattaforma videoludica, al quale riscatto seguirà poi il download, talvolta coadiuvato dalla presenza di un CD fisico di installazione.

Questo processo incentrato sul passaggio dal supporto fisico a quello informatico ha contribuito ad abbattere il costo dei videogiochi, facilitandone inoltre la diffusione e l’accesso in tutto il mondo. E sempre nell’ambito di una proverbiale società consumistica “usa e getta”, ha altresì incentivato la creazione di un numero sempre maggiore di titoli, anche a discapito della “qualità” dei singoli, messa spesso a repentaglio dal bisogno più o meno accentuato di sviluppare e distribuire un videogioco nel minor margine di tempo possibile, nell’atto di assecondare, più che una platea di videogiocatori assetati di novità, il bisogno di fatturare.

L’apoteosi della contraddizione in ottica globalista videoludica: la localizzazione.

Uno degli aspetti più interessanti che occorre sottolineare all’interno di un’analisi del videogioco è la sua differenziazione, oltre che la sua portata. In maniera non dissimile al cinema e alla musica (i quali rapporti, con entrambi, sono tutt’altro che superficiali), esso presenta una copiosa moltitudine di generi e sottogeneri, alcuni dei quali possono perfino essere rappresentativi di una cultura o di un paese specifico. Un esempio d’obbligo è costituito dai JRPG, che rispetto agli RPG canonici presentano una modalità di gioco incentrata solitamente sul combattimento a turni piuttosto che in tempo reale, oltre che le classiche caratteristiche della cultura nipponica a livello visivo e concettuale: dalla grafica in cel-shading a tratti tipici della cultura relativa agli anime e ai manga, quali armi sproporzionatamente grandi rispetto agli utilizzatori o indumenti particolarmente scenografici. Nel corso degli anni la globalizzazione ha permesso a un numero progressivamente maggiore di videogiochi nati, sviluppati e distribuiti inizialmente in un’area geografica limitata di essere conosciuti e apprezzati in tutto il globo, abbattendo barriere e talvolta stereotipi culturali. Come nel cinema, anche un videogioco “esportato” all’estero può presentare livelli diversi di traduzione, se non una localizzazione vera e propria, in base alle prospettive di apprezzamento/vendite di un singolo prodotto. La traduzione può essere effettuata su più livelli, sia in termini di cura che di stratificazione: può essere applicata al solo menu di gioco, o anche alle eventuali sezioni di parlato con l’aggiunta di sottotitoli; la localizzazione viceversa è un procedimento ben più complesso, profondo e dispendioso, che spesso “testimonia” l’attaccamento di un paese a un determinato titolo o brand.

L’adattamento di un prodotto al fine di renderlo appropriato culturalmente e linguisticamente al target locale dove questo verrà utilizzato e distribuito. – Bert Esselink

L’olandese B.Esselink sintetizza così il processo di localizzazione, che implica un lavoro infinitamente maggiore rispetto alla traduzione, che invece si limita alla semplice resa grammaticale e sintattica nella lingua di destinazione a partire da quella originale. Nell’atto di localizzare un prodotto infatti non ci si limita soltanto a ciò, ma si presta particolare cura nel riportare e nel caso adattare espressioni, concetti ecc che possono non avere effettivi corrispettivi nei paesi diversi da quello di provenienza: un processo di cura e adattamento che non si limita solo alla lingua, ma soprattutto alla cultura del paese di destinazione. Da variazioni nell’interfaccia in grado di migliore l’esperienza dell’utente fino ad arrivare, dove necessario, a variazioni a livello di contenuti, se non a vere e proprie censure. Tutti ricorderanno il caso dei videogiochi appartenenti alla serie Wolfenstein dove, specie negli ultimi capitoli, le versioni tedesche del gioco si sono viste rimuovere tutta l’iconografia correlata al nazismo, senza escludere alcune variazioni nello stesso Adolf Hitler, reso vagamente irriconoscibile dalla rimozione dei baffi. Il caso che tuttavia ha destato più scalpore negli ultimi anni è stato quello di Call Of Duty: Modern Warfare 2.

No Russian Mission

Fotogramma dalla missione “No Russian”, dove è prevista la possibilità di aprire il fuoco sulla folla inerte all’interno dell’aeroporto di Mosca.

All’interno del suddetto livello è infatti possibile (non è necessario per proseguire), nei panni di un agente della CIA infiltrato in una banda di terroristi durante un attentato all’aeroporto di Mosca, sparare sui civili disarmati e in fuga. Inizialmente venne emanato, in Russia, un provvedimento governativo atto a ritirare dal mercato tutte le copie fisiche del gioco: ma dopo essersi resi conto dell’infattibilità della cosa, si decise di agire in maniera diversa. Successivamente venne infatti rilasciata una patch nelle versioni russe del gioco, che eliminava del tutto la missione oggetto di scandalo. Nelle altre versioni invece la missione venne resa opzionale, dando la possibilità di saltarla o meno nell’atto di giocare la campagna.

La globalizzazione si configura dunque come un processo che più o meno consapevolmente cerca di limare le differenze linguistiche, sociali, economiche ecc tra le varie aree interconnesse del mondo, dove ad essere progressivamente abbattuti non sono soltanto confini e barriere, ma talvolta anche tradizioni e identità. Paradossalmente ciò non ha fatto altro che accentuare varie forme di “protesta”, dalla pretesa di avere prodotti adattati al proprio mercato (pena lo “skaffalehh”) al riconoscimento e alla valorizzazione delle singole identità culturali, dal livello locale a quello globale. Il videogioco non risulta essere uscito indenne dall’avvento della globalizzazione, e difatti costituisce l’ennesimo “specchio” dove si affacciano contraddizioni, bonus e malus di un fenomeno che ha cambiato e continua a cambiare il pianeta, dove le distanze non si misurano più in chilometri, ma in minutiUn pianeta dove l’esistenza della rete (internet ndr) quale sovrastruttura immateriale e tecnologica alla base dell’interconnessione globale ha contemporaneamente incentivato e ostacolato la creazione di autentiche comunità, la cui autorevolezza non si basa più (soltanto) sull’eventuale “vicinanza” geografica, bensì dalla forza e dalla coesione di una passione o di un interesse comune: in questo caso, quello per il videogioco, frontiera dell’interazione tra persone, paesi e culture differenti

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