Stefano Calzati

Speciale First Man – Guardare la luna e non il dito

La luna cinematografica più bella di sempre.

L’ultima opera di Damien Chazelle, enfant prodige del cinema mondiale e più giovane premio Oscar alla regia di sempre con La La Land, è un esercizio di magnetismo capace di simulare l’attrazione della luna sulla marea delle nostre emozioni, riuscendoci senza passarci sopra strati di miele e romanzo, ma asciugando il racconto e toccando solo i momenti cardine della carriera e della vita di Neil Armstrong (un eccellente Ryan Gosling) nella parentesi ’62-’69, dal primo piede messo nei laboratori NASA a quello poggiato sulla superficie lunare. Un’opera che nella sua apparente freddezza quasi documentaristica riesce a pizzicare corde che suonano di rado, grazie al filo conduttore che lega la straziante perdita della figlia alla meraviglia di guardare la Terra da una prospettiva impensabile, ai limiti dell’onirico. Ma soprattutto, la vera prova di forza di Chazelle sta nel raccontarci una delle storie più popolari dell’uomo dopo la parabola di Cristo riuscendo a tenerci sempre col fiato sospeso e la curiosità di chi è improvvisamente colto da amnesia storica.

 

Uscita italiana: 31 ottobre

First Man, senza voler essere cult come La La Land, dimostra la versatilità di Damien Chazelle e il suo straordinario gusto artistico

L’uomo Neil Armstrong
First Man ritrae il suo protagonista in maniera intima, lasciando i suoi pensieri sottintesi, privati, espressi solo tramite azioni e piccoli gesti. Un uomo che non parla mai più del dovuto, che interiorizza, decidendo di aderire al programma NASA volto alla conquista della luna, prima del nemico sovietico, dopo la morte della figlia, cambiando vita, ponendosi obiettivi enormi per colmare un vuoto insopportabile. Eppure mentre altri avrebbero indugiato su questo tragico evento, Chazelle e Josh Singer gli dedicano poche scene, quasi dei frammenti di pellicola, toccanti, commoventi, riportandoci subito alla logica, rigorosa e matematica. L’opera non si spreca in preamboli e spiegazioni, butta in faccia allo spettatore un vocabolario tecnico totalmente alieno a chi non abbia certe nozioni specifiche, gettandolo poi in un abitacolo oscuro e claustrofobico sparato attraverso la stratosfera, raccontandocelo attraverso un uso stordente della camera, rendendo le riprese vive, tesissime, realistiche. La sequenza dell’incidente durante la missione Gemini 8, fondamentale in vista del programma Apollo, che prevedeva l’aggancio in orbita della navicella al satellite Agena, è qualcosa capace di provocare malessere fisico pur coi piedi ben piantati a terra. Ad attracco completato iniziano a verificarsi dei seri problemi di stabilità che portano i due moduli a vorticare sempre più velocemente fino al limite strutturale di un giro al secondo, condizione capace in pochi minuti di portare l’equipaggio alla perdita dei sensi e il pubblico in sala a soffrire di violenti capogiri. Efficacia audio-visiva totale e scioccante, violenta, asservita ad un racconto prevalentemente per immagini, dirette o riflesse, come la superficie terrestre sulle visiere dei caschi degli astronauti, sovrapposta ai loro sguardi attoniti, e suoni, studiati e ricreati alla perfezione, mai artefatti.

Si torna poi agli uomini, ai protagonisti, tutti orbitanti attorno ad un Armstrong che è centro di gravità permanente, padrone della scena (e Gosling con certi personaggi ermetici ci sa fare alla grandissima), carismatico e rigoroso, malinconico e timido, davanti a colleghi e giornalisti come in ambito familiare, costellato dagli alti e bassi con la moglie Janet (una eccellente Claire Foy) e dal rapporto coi loro due bambini, trovando in lei sempre un punto di riferimento capace di trasmettere un legame fortissimo, anche quando inevitabilmente i nervi saltano all’alzarsi della posta in gioco per un’impresa quasi suicida. È oltretutto un film che non si crogiola nel facile – e anche giustificabile, a un certo punto – patriottismo, mostrando il volto rabbioso degli Stati Uniti, di chi contesta apertamente lo spreco di denaro e vite umane (innumerevoli gli incidenti durante i test, che segneranno anche la vita di Neil coinvolgendone amici e conoscenti) per un progetto ritenuto inutile, urlando le disparità sociali (“the white is on the moon”) e le follie dell’inferno vietnamita, contrapposte ai sogni di grandezza di John F. Kennedy.

Le inquadrature ricercate e immersive, a tratti scioccanti, delle missioni spaziali si fondono con quelle della vita di tutti i giorni, dove Armstrong mostra tutto il suo carisma più con le azioni che con le parole.

Come ben sappiamo però tutto questo fermento non fermò il programma e il climax che porterà l’intera pellicola e il suo equipaggio al volo finale è un crescendo di emozioni e suggestioni espresse con un gusto e un senso dell’arte cinematografica fantastici. Il decollo è sempre raccontato dall’angusta cabina, amplificando e simulando sensazioni che possiamo solo immaginare, concentrandosi sui passaggi fondamentali del volo e le comunicazioni con Houston, per poi tagliare il viaggio e abbandonarsi direttamente alla meraviglia del complicatissimo allunaggio. È lassù che il cerchio si chiude, una missione e una carriera, nella “magnifica desolazione” lunare, come la definì l’istrionico Buzz Aldrin (qui interpretato da Corey Stoll), soffusa e fuori dal tempo. Una sequenza da brividi in cui l’opera mostra tutta la sua sensibilità e introspezione, come a liberare finalmente i suoi interpreti, finora concentrati anima e corpo in una missione che era storia, scienza, politica, sociale, andando ad annullarne l’opprimente gravità per innalzare lo spirito. E si rimane a bocca aperta davanti a una scena tanto conosciuta eppure sensazionale per potenza e fotografia, senso di scala e prospettiva, e un utilizzo del sonoro (e dei silenzi) straordinario, avvolgente.

Chazelle firma così un altro grandissimo film, senza, direi naturalmente, la straripante vena cult di La La Land, ma con tantissima sostanza e gusto estetico, capace soprattutto di raccontare la vita di Armstrong e in generale lo svolgimento delle missioni NASA con grande realismo e sospensione d’incredulità, con un copione asciutto e una delicatezza rara nel trattare i suoi temi, senza forzare la mano e cercare la via più facile per colpire al cuore lo spettatore. “Houston. Tranquillity Base here. The Eagle has landed.

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