Stefano Calzati

Speciale Stronger e l’America ingorda di eroismo

Simboli di un paese, contro la propria volontà.

Io sono più forte. Non è solo il sottotitolo che accompagna la pellicola di David Gordon Green, è un modo per convincersi che tutto andrà bene, anche se in fondo non ci crediamo neanche noi. Noi siamo più forti. Quante volte avrete sentito questa frase durante l’ondata di stragi perpetrate in nome dell’ISIS dal 2015 al 2017, ancora fresche nella memoria, ripetuta come un mantra, quasi che potesse esorcizzare quel male che sembrava (e tutt’ora sembra) vivere in agguato, un cancro del quotidiano che ci faceva aprire i portali dei quotidiani nazionali con timore, durante gli interminabili istanti che ci separavano dall’apertura della home page. L’obiettivo ultimo del terrorismo, agire sulla psiche, minare le sicurezze della popolazione, scosse che si propagano dall’epicentro del terremoto, dell’attentato, al cui centro crollano le vite di chi ne viene investito direttamente, cambiandone radicalmente altre, quando si ha perlomeno la fortuna di non lasciarsela portare via. Come Jeff Bauman, morto e risorto a nuova e mai voluta vita, dietro le transenne che delimitavano il percorso della maratona di Boston, 15 aprile 2013.

Non arrendersi, al di la delle frasi fatte

Tra cronaca nera e vita privata (privata, in tutti i sensi), pellicola e autobiografia, il Jeff di Jake Gyllenhaal, straordinario, gigante, ci racconta uno spaccato di umanità rappresentando uno spettro di emozioni difficilmente digeribile, potentissimo, che accompagna il percorso circolare di un ragazzo comune che diventerà suo malgrado simbolo di un’intera città, di un’intera nazione. Impiegato in un supermercato, tifosissimo dei Red Sox e impegnato in un’altalena sentimentale con Erin Hurley (Tatiana Maslany, bravissima anche lei), rimane coinvolto nell’attentato alla maratona di Boston, perpetrato da due fratelli ceceni, perdendo entrambe le gambe. L’inizio di un calvario fisico ma soprattutto psicologico, che ci mostra un’america affamata di eroismo, mai appagata, vorace. “Tu sei un eroe” è la battuta più presente nel copione, capace nel corso dei minuti di diventare un’affermazione via via sempre più stucchevole, nauseante, l’ennesima condanna per Jeff, circondato da familiari che lo accudiscono, quasi lo venerano, una madre invadente che gli procura interviste e comparsate senza curarsi del suo imbarazzo, del desiderio di tornare nell’ombra, inseguendo una normalità dai contorni sfocati, quelli dell’illusione. Tutto diventa una barriera, un ostacolo, a livello fisico e umano, dove ogni relazione sembra sorretta dalla sua disabilità. Bauman è dipinto come un ragazzo nelle sabbie mobili, intento a dimenarsi e per questo trascinato sempre più a fondo, aggrappato con tutte le forze alle uniche mani che ne rallentano la caduta, quelle di Erin. Anch’essa preda di conflitti interiori, da una parte strattonata dai sensi di colpa per la presenza di Jeff alla maratona, li solo per riconquistarla, facendo il tifo per lei, mostrandole che sarebbe stato più presente, dall’altra ancora sentimentalmente indecisa, reduce da un tira e molla dove lui continuava a mostrarsi passivo, ancora in casa con la madre, sempre al pub con gli amici. Eppure l’amore fa breccia, perché mai svanito, proprio nel momento della difficoltà che riesce ad unire le persone per condividere il peso del dolore, perché amare è anche sacrificio. Una situazione sempre al limite, che esplode in scene moralmente drammatiche, travolgenti per intensità emotiva e qualità recitativa. Jeff viene invitato al match di Stanley Cup, culmine del campionato NHL, Boston Bruins contro Chicago Blackhawks, per presenziare all’inno nazionale.

Stronger gioca sul filo dell’emozione facile, ma lo fa bene, raccontando l’intimità di una vittima, eroe per caso che mai avrebbe voluto esserlo, e del suo percorso verso la normalità.

La folla è in delirio, tra patriottismo “estremista” ed estasi sportiva, sempre più incombente su Bauman, claustrofobica, asfissiante. È il punto di rottura, un crollo emotivo devastante, Atlante che non riesce più a sostenere il peso del suo mondo, fagocitato e digerito dalla fame di eroismo della sua stessa patria, reso suo malgrado impersonificazione degli ideali della bandiera. Non sarà l’unico brakedown, verso il percorso della riabilitazione per poter utilizzare le protesi, per riconquistare una parvenza di vita completa, seppur artificiale. Un percorso in cui si scoprirà anche futuro e terrorizzato padre, vedendosi proiettato in un domani incerto, pieno di domande. Come si può crescere un figlio in queste condizioni? Quello che sorprende e ammalia è l’umanità con cui Gyllenhaal (che ha passato moltissimo tempo in compagnia di Bauman) riesce a dare forma fisica a queste emozioni, da ingobbito e inerme sulla sedia a rotelle a fiero seppur ancora claudicante sorretto dalle protesi, dall’ironia dei momenti di buon umore alle urla, la disperazione, la voglia di mollare, di essere morto, dei lunghi periodi bui. Ed è vero che Jeff Bauman, nonostante tutto, nonostante la sua umiltà, non ha mai mollato. Non arrendersi però non è un’incantesimo da pronunciare per far girare le cose al meglio, non arrendersi è una scelta di sofferenza con pochissimi spiragli di luce. Questo è il vero messaggio di una pellicola che mette alla gogna quanti ne fanno una questione superficiale, come i parenti di Jeff, nutrendosi delle emozioni degli spettatori e restituendone altrettante. Un film che poi, prevedibilmente casca su eccessi di patriottismo e frasi ad effetto già sentite mille volte che fino a poco prima cercava di condannare, semplicemente perché lo spirito statunitense è questo, ed esce sempre fuori. Green, anche noto come regista de “Lo Spaventapassere” (il titolo italiano che fa sempre riderissimo), decide di optare per una regia scolastica, ricca di primi piani, molto espressiva, peccando però nel ritmo, abbastanza sedativo durante la seconda metà. Era un film perfetto per Clint Eastwood se lo chiedete a me. Sta di fatto che Gyllenhaal pare assolutamente lanciato verso un’altra nomination agli Oscar dopo I Segreti di Brokeback Mountain, e pagare il prezzo del biglietto vale la pena anche solo per essere testimoni della sua performance. Un bel film nei contenuti, meno nell’estetica e nel ritmo, ma emotivamente intenso come poche pellicole uscite quest’anno, riuscendo a parlare di terrorismo senza renderlo protagonista, quasi togliendolo dall’equazione, mettendo al centro del discorso la vita di chi gli sopravvive, la cultura, il patriottismo e le sue sfaccettature.

#LiveTheRebellion