Genetica, genetica canaglia.

Adoro i dinosauri, fin da bambino, fin dal primo Jurassic Park, uno dei miei film di formazione, che mica siamo nati tutti negli anni 50’ del cinema d’autore puro e ognuno, durante l’infanzia, si deve accontentare della roba più pop. Ed è comunque tantissima roba ancora oggi, vuoi perché Spielberg è probabilmente il più grande regista vivente, vuoi perché era un prodotto innovativo e pionieristico, la vera rinascita dei dinosauri, strappati all’estinzione mediatica via computer grafica, dando vita ad un franchise che ha resistito alla prova del tempo, nonostante 14 anni di silenzio dal tiepidissimo terzo capitolo, prima di ritornare sul tappeto rosso nel 2015 col primo Jurassic World. Un film che ha riportato in auge un concetto incredibilmente vincente, quello del B-colossal, ovvero budget stratosferici ed effetti speciali ai confini del fotorealismo utilizzati per raccontare una storia assurda, scanzonata, priva di qualsiasi fondamento scientifico. Un Tremors che non ha mai smesso di crederci insomma. Sinceramente però non mi aveva fatto impazzire, tutt’altro, e Il Regno Perduto è, a mio parere, un paio di dita sopra (una spanna è troppo). Adesso vi spiego anche perché, và.

“È come circhiolo
Questa battuta del sempreverde “Vi dichiaro marito e… Marito” è perfetta per descrivere la saga e le sue due trilogie (oggi siamo a 5/6 dell’opera) incredibilmente circolari. Parco divertimenti su Isla Nublar, incidente, dinosauri che giungono pericolosamente sul continente. Dopo che il progetto World è naufragato come il Park, con annessa strage di turisti e una furiosa battaglia fra dinosauri geneticamente modificati, ecco che i nostri Owen Grady (Chris Pratt) e Claire Dearing (Bryce Dallas Howard) si ritrovano nel mezzo di un dilemma politico e morale: il vulcano che sovrasta Isla Nublar sta per vomitare la sua furia lavica sugli ultimi dinosauri viventi. Come agire? Lasciarli perire e ristabilire il corso naturale della storia, interrotto e modificato dal geniale John Hammond, come sostiene anche Ian Malcolm (un Jeff Goldblum che a sto giro dice due battute di numero, ma le dice comunque bene), o salvarli, preservandone la selvaggia bellezza e con essa la testimonianza di un mondo che ormai non esiste più? Inutile dire come andranno le cose. Eli Mills (Rafe Spall), colui che gestisce il patrimonio di Benjamin Lockwood (James Cromwell) e tutta la tenuta, teatro dell’esperimento “zero” sulla famosissima zanzara intrappolata nell’ambra, deciderà di finanziare la missione di Claire, la quale, a catena, tornerà in contatto con un Owen più (apparentemente) menefreghista che mai, con quello sguardo un po’ tondo incastonato nella faccia da schiaffi di Pratt, ormai schiavo del suo ruolo di “cazzaro spaziale”.

Tra new entry e volti noti, capitanati da un Chris Pratt che ha mai smesso di essere un Guardiano della Galassia, il cast è in linea con tutte le assurdità che succedono a schermo, spesso fuori luogo eppure spassoso.

Sempre in tema con il tenore della pellicola, per carità, ma non certo una prestazione notevole. Un eroe che non gli si darebbero due lire, e invece anche questa volta tira la carretta e la porta a casa, sull’isola e ritorno, tra dinosauri e i mercenari capitanati da Ken Wheatley (Ted Levine). Tutto ciò al servizio della cinepresa di Juan Antonio Bayona, salito agli onori della critica cinematografica per il bel “Sette Minuti Dopo la Mezzanotte”, opera che si rifà allo stile di Del Toro (il che, personalmente, mi piace), uscito esattamente un anno fa. Il più grande merito della saga è sempre stato quello di averci fatto immaginare, vedere, quasi toccare con mano creature che non potremo mai incontrare, o almeno non con gli improbabili espedienti (ed esperimenti) genetici visti nei film. Bayona continua su questa falsariga, con la tradizionale CGI allo stato dell’arte e una spettacolarizzazione estrema, che trascina un canovaccio fatto di azione, fantascienza (nel senso che è proprio fantasiosa la scienza che ci propone, da sempre, Jurassic Park) e puro intrattenimento, portatore sano di messaggi ambientalisti, meravigliosi dinosauri (tra cui l’adorabile Blue) e di un involontario parallelismo con la realtà.

Una delle scene più belle della proiezione, la fuga da Isla Nublar nel bel mezzo della scontata eruzione vulcanica, tra nubi di cenere, piroclasti e colate roventi, avviene in contemporanea a quanto sta accadendo in Guatemala e Hawaii, in balia della devastante potenza del Volcán de Fuego e del Kīlauea. Impossibile non pensarci, eppure, scindendo finzione e realtà, questa sequenza è decisamente il picco della produzione. C’è tutto, la potenza della natura, dinosauri in fuga che trovano comunque il tempo di combattersi, i nostri eroi intenti a salvarsi la pelle nel modo più rocambolesco e impossibile, trovando una delle sfere mobili (non saprei come chiamarle) con cui si poteva visitare il Jurassic World e rotolando poi giù dalla scogliera più vertiginosa nei paraggi, finendo ingabbiati tra acqua e fuoco come neanche Houdini ha mai osato. Claire e Franklin (Justice Smith, il comprimario più simpatico del lotto) all’interno della “trappola di cristallo”, Owen in acqua ad armeggiare con pistola e coltello per tirarli fuori, nonostante sia saltato alla sperindio da un dirupo che avrebbe sfracellato chiunque, eppure fresco come una rosa e pronto all’apnea. Neanche un po’ di mal di schiena o dolore inter-costale.

Fughe da vulcani in eruzione, aste di dinosauri, esperimenti genetici senza il minimo fondamento scientifico, tutto imbevuto e conservato nella formaldeide della computer grafica, capace di rendere reale il surreale.

Questo è il manifesto della pellicola in tutti i suoi pregi e difetti, che dalla citata sequenza vivrà su un ritmo da elettrocardiogramma, tra momenti surreali, altri un po’ molli e altri ancora ben più riusciti fino alla scena finale, che è solo il preludio al capitolo che verrà. Bayona non si fa mancare niente, neanche un’asta di dinosauri sopravvissuti alla catastrofe, che vedrà confrontarsi a colpi di milioni di dollari dei villain che non sfigurerebbero in 007, nel teatro di villa Lockwood, che farà sfondo a sequenze che fanno tanto Resident Evil/Dino Crisis, minacciati da un nuovo esperimento che prende il posto dell’Indominus Rex, questa volta rimpicciolito in un Indoraptor, ennesimo pasticcio genetico e nemesi implacabile, ma decisamente meno minacciosa di quanto possa sembrare, nonché poco protagonista. Un’ultima parte certamente ben eseguita, con qualche guizzo di classe, seppur derivativo, come i giochi di silhouette per annunciare l’arrivo dei rettili e altre robe sicuramente già viste qua e là ma comunque funzionali. È un film pieno di difetti, assurdità, contraddizioni (la fuga da Isla Nublar su una nave cargo è ai confini della realtà), ma che secondo me fa il suo dovere e dichiara i suoi intenti fin dai primi trailer. Jurassic World: Il Regno Distrutto non sarà mai considerato il punto più alto della saga e non ha mai creduto di essere un capolavoro, ma guardato a cuor leggero non può far altro che isolare lo spettatore per due ore abbondanti, allontanandolo da tutto per fargli vivere una realtà parallela sempre affascinante, stimolando il desiderio primordiale che abbiamo fin quando vediamo per la prima volta i dinosauri sui libri di scuola. Come sarebbe la vita se non si fossero mai estinti?

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