Oasis è un gioco a cui non giocherei mai, ma che sono felicissimo di aver visto.

A me non piace il minestrone. Non mi piace particolarmente l’idea di mettere in acqua bollente decine di specie vegetali diverse, che di conseguenza tendono a diventare molli e creare quella sensazione di “se ne avessi messe meno e le avessi grigliate sarebbe stato meglio”. Ma soprattutto sono totalmente ignifugo a quelle opere che tendono ad omaggiare una cultura, per la precisione la “nostra”, quella geek declinata a vari livelli di nerdismo, buttando nel calderone tutta la pop culture dagli anni ’70 ai giorni nostri, ritrovandosi immersi in un’enorme mondo in realtà virtuale stile Neuromante versione teen, guidando una DeLorean DMC coi led di Supercar e ascoltando Blue Monday dei New Order nel mentre. Robe che prese singolarmente sono da libidine, ma cacciate giù con l’imbuto attraverso la macchina da presa rischiano di farmi prendere un Maalox. Ma è vero che la genialità dell’opera sta proprio nella sua duplice natura. Il Ready Player One di Spielberg non è solo magistrale a livello registico-narrativo-ritmico, ma si presenta sia come una virtuale “mensola” nella cameretta della nostra infanzia, piena di gadget, action figure, vecchie console e cassette musicali, che come pellicola clamorosamente riuscita, spettacolare ed esaltante quando si tratta di raccontare la sua storia. Evito di parlare del libro perché non l’ho letto e il buon Pietro l’ha già fatto (trovate qui sotto il suo speciale), e allora indossate il vostro PS VR, Oculus o Vive e scopriamo insieme che numero è riuscito a fare il grandissimo Steven.

Un manifesto di citazioni con un gran film intorno
La trama, in fondo, è tutta da scoprire. Ben più complessa e profonda di quanto potrebbe sembrare diventa nella seconda metà il vero traino della pellicola, oltre il continuo spettacolo pirotecnico-citazionistico che già di suo vale la pena di essere visto. Nel 2045 il mondo fa decisamente più schifo di oggi, inquinato, sovrappopolato, deturpato, pieno di Renault Twizzy, e la gente cerca di evadere nel virtuale ancora più di quanto non faccia oggi, avendo almeno la scusa di vivere definitivamente su di un pianeta-topaia. Oasis è la risposta a tutto, è felicità, divertimento, lavoro e sussistenza addirittura. Un gigantesco MMORPG in VR in cui viaggiare, guadagnare e poi perdere tutto quando si esaurisce la barra degli HP. Il sogno visionario di due sviluppatori, James Halliday (Mark Rylance, già straordinario ne “Il Ponte delle Spie” riesce a ripetersi) e Ogden Morrow (Il sempre fantastico Simon Pegg), persone diverse, portate a dividersi dai loro ideali, il sogno fanciullesco contro il business (quello buono però), il futuro dell’intrattenimento contro la voglia di tornare a tempi più arcade. E in questo paradiso cibernetico lui, Wade Watts (Tye Sheridan), orfano con il nome da supereroe che trova nella caccia all’Easter Egg di OASIS, lanciata da Halliday dopo la sua scomparsa e che permetterà al vincitore di diventare unico proprietario di questo mondo, la sua ragione di vita. Ovviamente dovendo fare i conti con IOI, la megacorporation che vuole il monopolio di questo mondo, guidata dall’ex-galoppino dei due geniali sviluppatori, Nolan Sorrento (Ben Mendelsohn). Da questo momento alla conquista delle tre chiavi per spalancare le porte al segreto di Anorak, alter ego di Halliday, si arriverà solo dopo un mare in tempesta di citazioni, simbolismi pop, una martellante, splendida colonna sonora anni ’80 e una CGI allo stato dell’arte, tutto orchestrato dal maestro Spielberg come se fosse nostro coetaneo, cresciuto con questo hobby, perché quello che stupisce di più è la facilità nel trattare un argomento, quello videoludico, esploso nelle mani di quanti prima di lui ci avevano provato.

Ready Player One è un buco nero di citazioni, neon, Atari, Duran Duran, che risucchia lo spettatore in un mondo che rimescola le concezioni (anche cinematografiche) di reale e virtuale, raccontando nel frattempo una splendida storia

E lo fa in modo pacchiano, chiassoso, colorato, macinando scene a un ritmo folle per 2 ore e 20, allungando zuccherini nerd ad ogni inquadratura ma urlando sempre che oltre al fan service c’è di più. È uno che studia prima di mettersi alla macchina da presa, e si vede ogni minuto. C’è l’avventura, l’amore, gli enigmi e fiumi d’azione ignorante, personaggi tridimensionali, tutti riuscitissimi, soprattutto i comprimari di Wade, sotto i nickname di Aech e Art3mis. È un film che rimane terra-terra, è un Freccia Rossa cinematografico che viaggia a 300km/h verso il suo obiettivo: il divertimento. Ci sono tantissime trovate clamorose poi, che sarebbe un delitto spoilerare e una tortura per me tenerle fuori da questo articolo (occhio alla seconda chiave, amanti di letteratura e cinema), sempre che i tremila trailer in circolazione non l’abbiano già fatto. È una continua sorpresa, un continuo level-up di situazioni che ruotano intorno alla soluzione di enigmi lasciati dallo stesso Halliday, di cui passo passo verranno rivelate psiche, paure, amori, elevandolo a vera e unica chiave della vicenda, fantastica incarnazione di tutta la nostra cultura, intrecciandosi con una delle storie più affascinanti e reali dell’industria videoludica. Un bello scherzo del destino che il film esca a pochi giorni dalle ennesime boutade di Donald Trump, arrampicatore di specchi per professione, presidente degli Stati Uniti d’America per hobby.

Maestro Spielberg, 71 anni, insegna a chi ancora li ignora cosa sono i videogiochi e la cultura geek, trattando l’argomento con sapienza ed esplosiva spensieratezza.

Soprattutto è bello vedere che il virtuale non venga mai demonizzato, nonostante sia chiaro, lo era prima e lo sarà sempre, che “l’unica realtà è il mondo reale”, che tutto quello che giochiamo è intrattenimento, arricchimento mentale, e che la vita va vissuta tanto nell’arte quanto nella natura. Anzi, è il mondo reale ad essere incolpato di farci diventare persone apatiche, costantemente in fuga nei nostri device, di cui OASIS è apoteosi in tutti i sensi. Un film che finalmente, nonostante all’inizio sembri più un circo che un manifesto culturale, farà aprire un po’ di più gli occhi alla massa che ancora fa finta che i videogiochi non esistano, e solo Speilberg poteva riuscire a incanalare attraverso la maestosità visiva il messaggio di Ernest Cline. E qui rispondo anche a Pietro (dopo il confronto post-anteprima) e a quelli che magari se lo aspettavano ancora più “manifesto” del movimento geek: semplicemente non sarebbe stato un bellissimo film, sarebbe stata una mostra o un’altra cosa che direbbe Fantozzi. C’è anche tutta una sottile denuncia a chi vuole rendere i videogiochi un mezzo per il profitto facile, con giovane Sorrento che suggerisce ad Halliday di creare diversi tipi di account divisi per fasce di prezzo e relativi bonus, finendo liquidato in mezzo secondo. Certo, l’atmosfera generale ammicca più gli adolescenti che ai nostalgici, fascia generazionale che il regista ha sempre coccolato con le sue digressioni fantasy, strizza l’occhio al gaming moderno e non universalmente accettato del multiplayer a tutti i costi, e tutto l’ambiente di gioco/vita è ancora un po’ asettico nel design, già visto, ma capisco che sono compromessi necessari per parlare a tutti nella stessa lingua e comunque mai invadenti, rendendolo godibile veramente a tutti, tutti, tutti. Non si può certo citare Okami e altre opere di nicchia per centrare l’obiettivo. Poi certe battute che facevano ridere mezza sala io non le ho capite, ma io sono un nerd atipico con parecchie lacune. E alla fine probabilmente andrò a rivederlo dal prossimo 28 marzo, perché non solo è un film che merita di essere considerato tra le migliori digressioni fantasy del quattro volte premio Oscar, ma che è importante per svariati motivi, bello e puro. Un vero giocattolo in pellicola.

#LiveTheRebellion