Stefano Calzati

ILoveRetro Retrocensione: ICO e il senso della vita videoludica

Ludo-Ipnosi regressiva.

Ormai tutti vi hanno parlato del design per sottrazione di Fumito Ueda, quel cosciente e studiato processo che ha portato alla progressiva dissezione del superfluo sul progetto iniziale di ICO, destinato alla prima scatoletta grigia Sony, fino a scolpirne le perfette ed essenziali forme che abbiamo sperimentato su PlayStation 2, dando silenziosamente inizio all’evoluzione degli action adventure come li giochiamo oggi e alla fama di uno dei personaggi più autorali dell’industria tout court. Oggi però in questa retrocensione voglio liberarmi e liberarvi da ogni pretesa tecnica, raccontandovi un ICO che riesce a far regredire il giocatore alla fanciullezza:

quando immaginavamo avventure incredibili, dandole forma con il potere sconfinato della mente, brandendo un legno e immaginando nemici dai contorni sfocati, ombre, cadere storditi dai nostri fendenti.

Tutto per conquistare e proteggere la nostra principessa.

 

Il design dell’infanzia
Amore a più strati e dimensioni
La totale manualità delle azioni è il fulcro di ICO inteso come esperienza di vita, passaggio fondamentale nella carriera di un videogiocatore. Un’opera che trascende il tempo, francamente se ne infischia e scava nella nostra memoria tattile, quella che ci ricorda cosa si prova a mulinare una spada fai-da-te in casa, immaginando un mondo che veniva creato proceduralmente dalle nostre sinapsi. Per poi ripresentarsi in età adulta, come quando l’eterno Peter Pan Shigeru Miyamoto, ricordando le avventure nel giardino di casa vissute da bimbo, accese la scintilla della prima leggenda di Zelda, dando inizio ad un continuum leggendario senza fine. È l’importanza di dare sempre corda al “fanciullino” di pascoliana memoria, regressione dell’anima verso una purezza quasi dimenticata. ICO è amore a più strati e dimensioni, l’essenzialità di un gameplay che lascia tutto nelle mani del giocatore, senza script, salti guidati, fendenti automatici e inutili facilitazioni, con tutte le sacre imprecisioni del caso. Sottrazioni di design, non di divertimento e sentimenti, che portano il giocatore a diventare un tutt’uno emotivo col nostro eroe cornuto, creando un vero legame affettivo con Yorda, senza distinguere reale e virtuale, scacciando le minacce senza stile ma con foga, terrore, spirito di sopravvivenza e di protezione. Un po’ come scoprirsi bersaglio in una “rissa” tra bambini, le prime scariche di adrenalina della vita, poi tutto passa e si torna dal proprio migliore amico o amica, si riacquista sicurezza e calma, come impersonando ICO diamo la mano a Yorda, non solo per guidarla, ma anche per tenere a vicinanza di sicurezza la nostra ancora di salvezza spirituale. È anche però una sensazione di calore fisica, il feedback psicosomatico della pressione di un tasto, piccolo pezzo di plastica che fa le veci delle nostre mani, da tenere saldamente premuto per legarci all’eterea ragazza, lasciandoci interdetti nei momenti in cui dovremo lasciarlo (e lasciarla) andare, mai pronti, vivendo il gameplay in solitaria con affanno e fretta. Timorosi della sua incolumità fino al concretizzarsi dell’incubo, un’ombra che la trascina via da noi, verso l’oscurità, momenti di panico ludico e decisamente poco lucido, dove il button mashing esprime sentimenti veri che vanno oltre un semplice input elettronico.

 

 

ICO È
Il senso della vita secondo Ueda
C’è tutta una sottile complicità che viene a crearsi tra le forze in gioco, che non è estraniazione dalla realtà ma assoluta consapevolezza di quello che sta accadendo e di sé stessi, sensazioni genuinamente, rigorosamente no OGM. Oltre l’occulto, la leggenda, le interpretazioni su cui si è speculato fin dalla sua uscita, ICO è, più di ogni altra cosa, capace di virtualizzare l’emotività di chi ci si trova davanti col Dualshock in mano. Il videogioco che trascende sé stesso e diventa realtà virtuale prima che i visori fossero mainstream (o quasi). ICO è un momento ludico che tutti, 0-99, possono sperimentare restandone estasiati, semplicemente perché ICO siamo noi, specchio della nostra anima. È questo il senso uediano della vita, celato in bella mostra, ovattato da un level e puzzle design superbi, un’arte visiva tracimante, un combat system acerbo e un tutto talmente pionieristico da diventare fondamenta per il futuro del genere e soprattutto capace di consacrare il videogioco come forma di comunicazione travolgente, senza neanche passare dalle prime posizioni nelle chart settimanali, che oggi pare blasfemia. Semplicemente, però, l’analisi oggettiva è un torto che i capolavori non meritano, perché il capolavoro è quell’entità che fa vibrare l’encefalogramma, illuminando aree del cervello sopite per la maggior parte dell’esistenza, dandogli le forme di una tempesta, un cumulo di nubi al cui interno pulsano lampi neuronali. Il nostro lato infantile, sempre pronto a stupirsi e giocare, che fa crescere il lato più adulto rendendolo sempre più consapevole, grazie a un’esperienza che trova spazio eterno nei nostri ricordi in un mare di robaccia usa-e-getta, buona solo per far sprecare preziosissimo tempo, prendendo posto nella nostra libreria mentale tra gli amori, i viaggi, Mulholland Drive, Unfinished Sympathy e Siddharta. “Words are meaningless and forgettable” canta Dave Gahan nella canzone più bella di sempre, Enjoy The Silence, un significato che vela le percezioni e avvolge, trasportato dal vento, le mura di un castello ormai decadente, marcio, dove il silenzio è sacro.

 

La sacralità di passare qualche ora in compagnia di sé stessi, senza intrusioni, sfogliando il Pantone delle emozioni e interiorizzandole, con o senza una motivazione, semplicemente perché ICO è una macchina della verità capace di dirci veramente come stanno le nostre emozioni. ICO è, semplicemente, una delle migliori risposte alla domanda…

…“Perché giochi?”

#LiveTheRebellion