In un periodo dove l’argomento è particolarmente sentito, Activision – nelle vesti di Signora del Male – registra un brevetto per un algoritmo che potenzialmente potrebbe cambiare la faccia delle microtransazioni. Ma siamo sicuri che sia necessariamente sbagliato?

Breve riassunto della vicenda: Activision nel 2015 commissiona ad un suo team di Ricerca e Sviluppo la realizzazione di un algoritmo. Scopo della ricerca: spingere l’utente a spendere più soldi in microtransazioni, cercando di stilarne un profilo a seconda delle abitudini (e degli acquisti effettivamente effettuati, logico) e di “aggiustare” il matchmaking sulla base di questi dati. Potremmo lanciarci in una spiegazione dettagliata dietro al sistemone, ma chi vi scrive (lo sapete) odia fare informazione quando potrebbe far critica. Per cui, per chi si fosse perso la vicenda, tutti i dettagli del caso sono riportati nel box qui sotto: il consiglio è fare click destro, apri in un’altra scheda e poi tornare qui tra un paio di minuti – a lettura completata.

Ad essere del tutto onesti, la prima reazione che abbiamo avuto nel leggere tutti i dettagli riportati è stata abbastanza negativa. Ancora adesso – a mente più fredda – l’idea di istigare all’acquisto accoppiando utenti più esperti a giocatori esordienti potenzialmente rischia di ottenere l’effetto contrario, allontanando le nuove leve dal gioco e andando complessivamente a peggiorare l’esperienza finale.

L’idea della profilazione d’altra parte è interessante, e potrebbe portare benefici sia per chi gioca che per chi produce. Quindi è giusto così (almeno, potenzialmente).

Amazon fa la stessa cosa da tempi non sospetti
In prima battuta, potrebbe riuscire ad arginare alcune problematiche a livello di visibilità dei contenuti – la famosa discoverability, argomento molto sensibile quando si tratta di store e videogiochi ma che su scala più ridotta si può applicare anche ai negozi presenti in-game. Più elementi non inclusi su disco (ma a ben vedere, si può fare lo stesso ragionamento anche per quelli già “coperti” dall’acquisto della copia del gioco) sono presenti, più diventa difficile orientarsi tra questi. Un aiuto, in questo senso, anche limitandosi a suggerire nell’interfaccia in-game acquisti e potenziamenti sulla base dello stile di gioco, dei risultati ottenuti e (ci torneremo tra poco) sugli eventuali acquisti già effettuati potrebbe davvero impattare positivamente sull’esperienza finale: è alla fine lo stesso ragionamento che, per esempio, fa un gigante come Amazon quando si visualizzano a bordo schermo i suoi consigli per gli acquisti. Alzi la mano chi – nel caso del colosso americano – ha provato fastidio nel ricevere questi suggerimenti. Si potrà obiettare che si sta giocando al limite della soglia psicologica del bisogno indotto, del fatto che senza i suggerimenti di cui sopra probabilmente il portafoglio sarebbe rimasto chiuso e quant’altro, ma è anche vero che nessuno punta la pistola al cliente e se preme sul tasto “aggiungi al carrello” è una sua responsabilità. E se un acquisto, indotto o meno, regala qualche momento di soddisfazione o di felicità, fanno così male i grandi nomi dell’industria a ricavarne un ritorno? Alla fine se di crimine si tratta, è un crimine senza vittime.

microtransazioni loot box

A questo punto, legittimamente, si potrebbe obiettare che il pensiero “i soldi sono i miei e ci faccio quello che mi pare” sia applicabile anche nell’altro senso. Activision o chi per lei non ha il diritto di sfruttare le informazioni sulle microtransazioni dell’utente per stilare un mio profilo. E chi vi scrive capisce – pur non condividendo – questo integralismo, e quindi auspica che in caso poi questo algoritmo su carta diventi effettivamente una meccanica di gioco sia possibile disabilitare le funzioni più “invasive” lato privacy. Detto questo però, personalmente se questa condivisione di informazioni porta a dei benefici sul fronte esperienza, perché dire di no? Le microtransazioni sono probabilmente uno dei migliori indicatori per capire i gusti e le attitudini del giocatore – difficilmente acquistereste un fucile da cecchino in uno sparatutto se avete intenzione di giocare con un fucile a pompa. Capite bene che tutti i presupposti dietro queste meccaniche nascono dall’avere a disposizione un profilo attendibile degli utenti, per cui è di fondamentale importanza riuscire a discriminare le informazioni attendibili da quelle che non lo sono. Soprattutto se poi questi dati vengono utilizzati – e arriviamo finalmente al punto centrale della faccenda – per migliorare il sistema di Matchmaking, inserendo i giocatori in partite dove effettivamente i loro acquisti hanno una ragion d’essere.

Vi sarà capitato diverse volte di giocare partite in cui eravate pesci fuor d’acqua: l’algoritmo di Activision potrebbe ridimensionare il problema.

Un approccio che ridimensiona il peso dell’abilità? Semmai è il contrario
Inserire l’utente in una partita dove può effettivamente fare la differenza, raggiungere un buon punteggio e di conseguenza divertirsi è un’ottima trovata. I più integralisti potrebbero lamentare che non è giusto, che così facendo le abilità del giocatore contano meno e che si rischia di influenzare l’andamento delle partite con interferenze esterne e sgradite. Ma in realtà sono cose che già succedono: ogni volta che un cecchino (per tornare all’esempio di prima) viene inserito in una partita dove la sua presenza non ha semplicemente senso – vuoi per la mappa poco adatta al suo stile di gioco, vuoi per la presenza di avversari particolarmente abili nello stanarli o difficile da colpire – tutta la fazione a cui il sorteggio ha assegnato un giocatore così viene penalizzata. E magari arriva anche a perdere soprattutto per questo motivo, non perché il giocatore sia incapace o scarso ma perché la (s)fortuna lo ha sparato in un ambiente a lui ostile. Limare questi casi non vuol dire limitare l’importanza delle abilità del singolo, ma al contrario farle pesare di più sulla bilancia. Perché la fortuna andrà a giocare un ruolo minore (non nullo, perché si tratta comunque di fluttuazioni minime che incidono relativamente sui risultati nel complesso), e di conseguenza a parlare più forte sarà il campo di battaglia. Tutto questo, mentre i giocatori semplicemente si divertono di più – perché ammettiamolo, perdere non piace a nessuno e al contrario il senso di appagamento che si prova quando si ha la consapevolezza di essere importanti (o ancor meglio decisivi) per la propria squadra rende l’esperienza di gioco migliore. Ben vengano quindi modifiche allo status quo, se sono fatte nell’ottica di favorire l’utente finale – anche se nel processo poi la Software House di turno riesce comunque a rimpinguare meglio le sue casse grazie alle microtransazioni. E se ancora non siete convinti, vi invitiamo a riflettere su una questione fondamentale:

L’industria dell’intrattenimento, sul lungo periodo, tutela sé stessa.

Le case non hanno avuto da poco la tentazione di monetizzare i loro prodotti oltre il prezzo che si trova sullo scaffale, anzi. E negli scorsi anni da questo punto di vista abbiamo visto il proliferare di modelli alternativi indirizzati in questo senso: gli online pass per cercare di guadagnare più direttamente dal mercato dell’usato, DLC prettamente estetici (e non) infilati di forza sugli scaffali degli store in-game, pezzi di gioco tagliati dall’esperienza finale per essere venduti a parte e nei casi peggiori interi capitoli – se non proprio il finale del prodotto – commercializzati fuori dal pacchetto base. Tutte cose che hanno funestato la settima generazione, ma che nella ottava non hanno più trovato posto. Perché nel complesso hanno dimostrato sul campo di introdurre più problemi che benefici per l’utenza, rivelandosi delle brutte idee e facendo calare gli introiti. Perché si, un utente non soddisfatto è un potenziale mancato guadagno, sul lungo termine. Ed è grazie a tutti gli utenti insoddisfatti che hanno deciso di non piegarsi in massa davanti a certe trovate se poi alla fine queste sono sparite. Lo diciamo sempre, quando siete davanti allo scaffale siete praticamente anche in una cabina elettorale: non acquistare un prodotto è lanciare un segnale chiaro di disappunto al suo produttore. E finché le cose saranno così, l’utenza ha in mano il suo destino e può decidere cosa funziona e cosa no, tutelando – appunto – sé stessa.

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