Stefano Calzati

Speciale Ghost in the Shell – L’arte della trasposizione

Dare nuova vita ad un classico dell’animazione portandolo in live action è uno dei compiti più ardui per un regista, lo sappiamo. Questa pratica negli anni ha mietuto parecchie vittime, ma in questo inizio di 2017 qualcosa pare cambiato. Oggi, dopo il fantastico adattamento de La Bella e La Bestia, andiamo a tessere le lodi della versione moderna del cult che ispirò Matrix, ora più che mai vicino al capolavoro dei fratelli Wachowski: Ghost in the Shell.

Mentre le giornate si allungano, il mercurio segna valori sempre più alti e gli avventori affollano i locali del centro, combattendo lo stress della giornata lavorativa con un rigenerante happy hour, noi eravamo al cinema Anteo di Milano, su gentile invito di Paramount Pictures, per prendere parte all’anteprima di uno dei film più attesi di questo inizio d’anno, Ghost in the Shell. Perché uno dei film più attesi? Perché prometteva di unire uno dei mondi sci-fi più carismatici e amati di sempre (quello dell’omonimo manga ideato da Masamune Shirow) con una delle pellicole d’animazione giapponese più famose e celebrate (l’adattamento del manga a cura di Mamoru Oshii, anno 1995), portando il tutto in live action grazie a un ottimo cast, capitanato dalla splendida e sempre tendente alla perfezione recitativa Scarlett Johansson, lubrificando poi gli ingranaggi con un budget da kolossal, il che non guasta mai. Se poi a questo cocktail si aggiungono citazioni, più o meno velate, al capolavoro letterario “Neuromante” di William Gibson, pioniere del cyberpunk, noi appassionati di fantascienza avevamo tutto il diritto di avere alte aspettative. Ora bando alle introduzioni e vediamo quindi se varrà la pena andare al cinema stasera. Buona cyber-lettura.

Un’anima racchiusa nel suo guscio
Il corpo di Mira Killian (Scarlett Johansson) è ormai freddo, morto, vittima di un attacco terroristico mentre la giovane viaggiava su una nave di rifugiati diretta verso il Giappone; proprio alla fine del viaggio, in vista della salvezza, l’esplosione. La discesa verso gli abissi della baia del porto, il disperato salvataggio delle vittime, tra cui Mira, il cui cervello non ha però mai smesso di lottare, a differenza del suo involucro. Hanka Robotics, azienda leader nel settore della robotica e degli impianti cibernetici negli umani, nonché impegnata nell’attività di polizia per conto del Ministero della Difesa, non può farsi sfuggire l’occasione. La possibilità di creare un individuo che non è ne uomo ne macchina, ma che trae il meglio di due forme di esistenza così in antitesi. Il cervello, dimora dell’anima (il Ghost), viene trapiantato in un guscio meccanico, artificiale, privo di vita. Questo miracolo medico e tecnologico ha ovviamente un prezzo, soprattutto se di mezzo c’è la multinazionale dell’ambiguo magnate Cutter (Peter Ferdinando), intenzionato a rendere la nuova Mira, il Maggiore Killian, un’arma, affidandola alla task force Section 9 agli ordini di Daisuke Aramaki (interpretato dall’intramontabile Takeshi Kitano). L’individualità e l’identità di una persona sono ancora intatte se portate via dal proprio corpo originario? Questa è una delle domande portanti dell’opera, che busserà costantemente alle porte della coscienza del Maggiore, tormentandola in un turbine di violenza, tradimenti e rivelazioni che si paleseranno come un treno in corsa direttamente dal suo passato.

Psichedelia cyberpunk
Ghost in the shell è prima di tutto un eclatante trionfo visivo…
Soffermarsi più di così sulla trama sarebbe un crimine imperdonabile, ricca com’è di colpi di scena e verità inaspettate, così ben congegnata, sincopata, ritmata da sembrare una versione visiva di Idioteque dei Radiohead. Ma lo script non basta quasi mai se non viene supportato dall’imperante componente visiva (e viceversa, ma ci arriveremo), ed è qui che Ghost in the Shell colpisce più forte di un attacco hacker, grazie alle doti registiche di un Rupert Sanders dal futuro radioso (tornato dietro la macchina da presa ben 5 anni dopo aver diretto “Biancaneve e il Cacciatore”). La pellicola si presenta fin da subito come un’orgia visiva in continuo mutamento, sia ambientale che stilistico, come una grande e psichedelica festa hippie anni ’60. L’occhio non sta fermo un attimo per non lasciarsi sfuggire nessun dettaglio; inquadrature dalla geometria perfetta diventano in un attimo il campo di battaglia per sparatorie adrenaliniche, spettacolari e costruite al millimetro come un’opera ingegneristica, in uno omaggio a ciò che ha reso grande Matrix, chiudendo così il cerchio delle ispirazioni. Se un attimo prima una geisha robot, che stordisce lo spettatore col suo design al tempo stesso elegante e nauseante, percorre un corridoio dal pavimento finemente illuminato, l’attimo dopo una squadra di sicari potenziati fa irruzione in un’asettica sala da pranzo, distruggendone l’armonia zen e rivelando la fondatezza dei dubbi sull’inquietante servitrice. Lezioni di stile lungo l’arco di tutti i 106′, per quello che è si un film fortemente action oriented, ma sempre elegante come impone l’opera originale.

…impreziosito dalle citazioni registiche all’anime cult di mamoru oshii
Interessanti anche le fasi di hacking di cui è protagonista il Maggiore, che si rivelano esattamente come chi scrive si immaginava le scene mirabilmente descritte in Neuromante, con ambienti totalmente virtuali che prendono vita fino a diventare veri e propri incubi nel mare in burrasca del cyberspazio. Da ricondurre alla pionieristica opera letteraria anche il design degli umani potenziati (e degli usi e costumi di questo mondo, più in generale) a cui si è ormai sottoposta una grande fetta della popolazione della fittizia città giapponese di New Port City. Dagli occhi bionici del fido compagno di squadra Batou (un ossigenatissimo Pilou Asbæk) fino alle modifiche neuronali e quelle esteticamente più bizzarre, rendendo il meltin’ pot della città ancora meno umano di quanto non fosse della pellicola di Oshii. Un altro plauso, a proposito, va alla fedeltà di alcune scene riprodotte in scala 1:1 rispetto alla controparte animata. L’esempio perfetto è una di quelle più pubblicizzate nei trailer, quella del combattimento nell’acqua bassa e stagnante dei quartieri popolari della città, con il centro di New Port City a fare da sfondo, puntellato dai suoi grattacieli adornati di pubblicità stereoscopiche. In questo spezzone, Mira è impegnata nell’inseguimento e conseguente neutralizzazione di un netturbino la cui mente è stata hackerata dal misterioso Kuze, villain del film (la sceneggiatura si distacca in parte dall’opera del 1995, rimanendone comunque fortemente ispirata). La lotta che segue, vede a schermo solo l’ignaro criminale, colpito ripetutamente da un Maggiore in tenuta mimetica termo-ottica e quindi invisibile a lui come agli spettatori, la cui posizione è rivelata solo dagli schizzi d’acqua. Vero e proprio cibo per appassionati dell’anime.

Cast in the Shell
scarlett johansson riuscirebbe ad essere espressiva anche interpretando un computer: eccezionale!
Quando ci si rende conto che un film sarebbe bello anche muto, vuol dire che che regista e scenografi hanno fatto un lavoro incredibile, di rara bellezza. Fortunatamente però, anche gli sceneggiatori hanno maneggiato con sapienza il materiale originale. La trama è stata plasmata con sapienza attorno alle necessità registiche, non sfigurando affatto rispetto alle versioni animate e cartacee (prendendosi alcune libertà ma rispettandone sempre lo scheletro), aggiungendo anzi ancora più spessore a questo universo, grazie e situazioni e personaggi inediti, oltre a questioni filosofiche e morali estremamente profonde e a tratti toccanti. Merito di dialoghi sempre sul pezzo, ben scritti e ottimamente interpretati da un cast variegato e azzeccato, in cui brilla un’eccezionale (e sempre più regina del genere action, dopo l’originalissimo Lucy di Luc Besson) Scarlett Johansson, a cui il caschetto moro fa risaltare gli occhi azzurro cielo, sempre pronti a trasmettere un’umanità e un’espressività mai soffocate dal sintetico Shell (laddove nell’opera di Oshii gli occhi del Maggiore erano invece sempre spalancati, vitrei, privi di ogni pretesa umana). Fantastica anche la figura dell’hacker Kuze interpretato da un ottimo Michael Pitt, nemico pubblico numero uno e seconda colonna portante dell’intera trama, dal suo odio per la Hanka fino ad alcune rivelazioni fatte alla protagonista, che rivolteranno il plot come un calzino, fino a scoprire il velo sulla natura dei frequenti “glitch” visivi da cui è tormentata. Illuminante è anche la figura della Dottoressa Ouélet (interpretata dalla francese Juliette Binoche), direttrice del progetto che porterà alla creazione del Maggiore, quasi una figura materna, pronta al sacrificio pur di proteggere questo nuovo tipo di essere.

Hacking terminato… Trasposizione riuscita
A completare questa irrefrenabile valanga sci-fi ci pensa ovviamente una colonna sonora battente come un diluvio di sonorità elettroniche, acide, coi bassi che fanno sobbalzare le casse all’unisono con le centinaia di proiettili sparati nelle letali sequenze action. Inno della pellicola è il main theme che faceva da sfondo al capolavoro di Mamoru Oshii, i cui canti e percussioni della cultura folkloristica giapponese, suggestivi ed emotivamente trascinanti, oggi remixato dal DJ miamense di origini nipponiche Steve Aoki, che omaggia questo fantastico tema alla sua maniera, aggiungendo un alto tasso di BPM e “casse ignoranti

Rupert Sanders è quindi riuscito nella non facile impresa di omaggiare un classico del cinema fantascientifico donandogli nuova vita e nuova visibilità, incuriosendo il neofita e appagando l’appassionato, con una pellicola rispettosa del materiale originale ma reinterpretata alla perfezione, come si vede raramente in prodotti del genere. Estetica, ritmo, sceneggiatura, dialoghi, colonna sonora. Tutto si fonde come in un perfetto prodotto virtuale programmato a tavolino, e il risultato è bellissimo. Una cosa è certa: il giorno dopo aver assistito alla proiezione, ne vorrete ancora.

#LiveTheRebellion