Se siete dei genitori, quello di cui stiamo per parlare potrebbe non piacervi neanche un po’. Se siete dei ragazzi giovani che hanno a che fare con i propri genitori, al contrario, è molto probabile che possiate amare quanto scriveremo nel corso di questo articolo. In entrambi i casi, il consiglio è che smettiate di leggere immediatamente, tornando alla vostra vita di tutti i giorni e ignorando del tutto quel che leggerete qui.
Se, però, siete dei genitori un po’ ragazzi o dei ragazzi un po’ genitori (o avete anche soltanto un’indole scientifica e indagatrice), c’è la possibilità che possiate prendere tutto quanto sotto una luce critica e genuina, senza essere influenzati da quel che avete vissuto o state vivendo. In quel caso, speriamo che quanto segue possa portarvi delle risposte soddisfacenti.
Una relazione complessa
Noi di I Love Videogames non siamo medici, neurologi o psicologi, né tanto meno degli educatori in erba con discutibili manie di grandezza (e per fortuna: il nostro placido webmaster nasconde una segreta passione per le cinghiate). Non pretendiamo di dare un giudizio definitivo sulla vicenda, ma, dopo aver sentito per l’ennesima volta un genitore che si lamentava delle ore passate dal figlio di fronte ai videogiochi, è inevitabile che qualcuno si ponga più di una domanda in merito. La relazione tra bambini e videogiochi, in fondo, è complessa e pericolosamente ambigua, abbastanza da dividere l’opinione pubblica in due fazioni ben distinte sulla base di un semplice quesito: quali effetti hanno i videogiochi su un cervello in sviluppo?
È facile formulare opinioni e supposizioni in merito, ma è altrettanto facile cadere in semplici speculazioni quando si tenta di affrontare l’argomento senza un’adeguata cognizione di causa. Gran parte dei genitori che conosciamo (la generazione passata, s’intende) mantiene tendenzialmente un atteggiamento scettico nei confronti dei videogiochi e della tecnologia in generale, ed è quasi la norma, ormai, sentire qualcuno che si lamenta durante una semplice attesa dal medico o alle poste.
Una frase particolarmente comune, ad esempio, potrebbe essere: «Io non comprerei mai un tablet a mio figlio, non voglio che diventi alienato!». La domanda, a questo punto, sorge spontanea: ma i caze se vi sbagliaste?
“I bambini! Perché nessuno pensa ai bambini?!“
Il problema di fondo è che c’è davvero poco da scherzare, quando si parla del cervello umano e del suo rapporto con il mondo esterno. I nostri genitori lo sapevano, lo sanno e continueranno a saperlo, e non hanno necessariamente tutti i torti; le complicazioni, però, sorgono spesso quando si tenta di criticare un’esperienza che non si conosce fino in fondo. E il motivo di ciò è semplicissimo: chi potrebbe conoscere il medium videoludico meglio di chi lo segue dall’interno da anni?
Abbiamo già analizzato gli effetti del nostro medium preferito sul cervello diversi mesi fa, dopo aver scoperto (non senza una certa sorpresa) che i videogiochi possono aiutare a combattere la depressione. Anche in questo caso, fortunatamente, l’aiuto giunge direttamente dal campo della ricerca.
Le risposte della Spagna
Un recentissimo studio dalla remota regione della Spagna, infatti, si è concentrato sul tempo speso dai bambini in età scolastica di fronte ai videogiochi: il titolo dello studio (Video gaming in school children: How much is enough?1) denota già un tentativo di comprendere quale sia il tempo “giusto” che i nostri bambini dovrebbero spendere di fronte a un dispositivo elettronico interattivo, e i risultati – com’è prevedibile – sono stati diversi e particolarmente variegati.
Su un fronte, ad esempio, si è registrato che i bambini che spendono più di un’ora al giorno di fronte ai videogiochi possono mostrare alcuni “problemi comportamentali”; al contrario, chi limitava le proprie sessioni di gioco a una o due ore alla settimana dimostrava un incremento delle capacità cognitive, come una risposta più veloce agli stimoli visivi e persino una maggiore concentrazione.
Lo studio ha osservato 2.442 bambini in un’età dai 7 agli 11 anni, con un’ulteriore analisi (tramite risonanza magnetica) dei mutamenti avvenuti nel cervello di un campione di 260 piccoli soggetti. A livello neurale, infatti, si sono registrati alcuni cambiamenti nei Nuclei della Base, un gruppo di nuclei cerebrali legati alle attività motorie; cambiamenti non avvenuti in alcun modo nei bambini che non erano stati esposti ai videogiochi.
Lo studio svolto in quel di Barcelona, tuttavia, è descritto dagli stessi ricercatori come uno studio “osservativo”, limitato semplicemente a mettere in relazione cervello e bambini su un livello molto superficiale. Non è stata trovata alcuna connessione diretta tra i videogiochi e il comportamento dei bambini, se non una tendenza generale a preferire i primi ad altre attività (sportive o sociali che fossero) e una seria predisposizione, da parte dei genitori, ad allarmarsi sempre più man mano che il tempo di gioco aumentava.
Questa “mancanza” involontaria dei ricercatori spagnoli è stata compensata da uno studio dell’Università di Yale2, che è riuscito a dimostrare un fatto puro e semplice: i videogiochi possono rendere più intelligenti i bambini, se sfruttati nelle giuste quantità e nel giusto modo.
Gli effetti dei videogiochi sulle varie zone del cervello. Tradotta e tratta dall’originale Inglese | OnlineUniversities.com, CC BY
Bambini più intelligenti grazie ai videogiochi?
Il caso dell’Università di Yale è emblematico e sicuramente molto più vasto e interessante (non me ne vogliano) rispetto allo studio svolto dai ricercatori spagnoli. Sotto la guida del professor Bruce Wexler, lo studio ha coinvolto 583 studenti di seconda elementare e li ha sottoposti a un gioco di Brain Training chiamato “Activate“. I risultati sono stati sorprendenti: i bambini hanno giocato tre volte a settimana per 20 minuti in un periodo di quattro mesi, e si sono dimostrati molto più capaci nella lettura e nei test di matematica rispetto ai compagni che non avevano toccato il gioco.
Non solo: i bambini immersi nel gioco hanno dimostrato di accogliere molto più volentieri gli stimoli di Activate rispetto agli stimoli di un tutor o un insegnante. Il risultato: i bambini che avevano giocato apprendevano molto più in fretta rispetto a quelli che erano stati seguiti (anche singolarmente) da un tutor, dimostrandosi anche più capaci nelle loro performance se facevano una partita di riscaldamento (cinque minuti) prima che il test iniziasse. Questo perché Activate spingeva parecchio sul migliorare la concentrazione, l’auto-controllo e la memoria, attività che sono strettamente connesse alla zona del cervello legata all’apprendimento.
Sì, d’accordo. E quindi?
I due studi citati sono entrambi indubbiamente affascinanti a modo proprio, ma non rispondono ancora alla domanda più importante di tutte: qual è la relazione che intercorre tra bambini e videogiochi? In che modo gli uni influenzano gli altri?
Per rispondere a questa domanda è necessario tirare in ballo un’altra analisi, decisamente più completa e meno “unilaterale”, riportata dal Guardian ed esposta dalla Dottoressa Tanya Byron, una psicologa particolarmente nota nel Regno Unito3. Spostandoci per un attimo in UK, il suo studio ha dimostrato che il 7% degli adolescenti britannici gioca al computer per più di 30 ore alla settimana. Per quanto sia universalmente riconosciuto che “più di quattro ore senza pause” sono – in genere – indice di un problema, però, ci sono fin troppi fattori da considerare.
Grafico che mostra il tempo speso di fronte ai videogiochi in relazione con l’anno di studi (Fig. 2)
Anzitutto è necessario appellarsi al concetto di “dipendenza“, tanto caro ai genitori quanto a tutti quei parenti che amano criticare i bambini per le ore spese di fronte ai videogiochi. Tratta direttamente dal vocabolario online della Treccani:
Nella medicina e nelle scienze sociali, condizione, in cui un individuo si trova, di incoercibile bisogno di un prodotto o di una sostanza, soprattutto farmaci, alcol, stupefacenti, a cui si sia assuefatto, e la cui astinenza può provocare in lui uno stato depressivo, di malessere e di angoscia (d. psichica), e talora turbe fisiche più o meno violente, cioè nausea, dolori diffusi, contrazioni, ecc. (d. fisica)
Che, se integrata con la definizione data da Wikipedia:
Per dipendenza si intende una alterazione del comportamento che da semplice o comune abitudine diventa una ricerca esagerata e patologica del piacere, attraverso mezzi o sostanze o comportamenti che sfociano nella condizione patologica. L’individuo dipendente tende a perdere la capacità di un controllo sull’abitudine.
La dedizione ai videogiochi non è una vera e propria dipendenza
Porta a una semplice conclusione: i videogiochi non possono essere considerati una vera e propria dipendenza. Per quanto la linea viola nel grafico (Fig. 2, poco sopra) possa essere indice di un comportamento ossessivo, dedicare tempo ai videogiochi è ben lontano dall’essere diagnosticabile in senso medico: il bambino (e, a questo punto, il videogiocatore in generale) riesce generalmente a costruirsi un equilibrio interiore per integrare i videogiochi con altre attività; il motivo per cui non rinuncia ai piaceri ludici è semplicemente perché i videogiochi sono “rilassanti”. A tal proposito (anche se approfondiremo l’argomento a breve), Douglas Gentile pensa che i continui mutamenti del sonoro e dello schermo riescano ad alimentare una risposta del cervello del tutto primitiva, che permette ai nostri sensi di trovare rilassante tutto quel che vediamo. Dice Gentile:
Uno dei motivi per cui penso che troviamo la TV e i videogiochi così rilassanti risiede nel fatto che sono loro a creare attenzione al posto nostro. Ci spingono [indirettamente] a orientarci verso il media. Non bisogna impegnarsi per mantenere alta l’attenzione, a differenza di quanto succede in una lezione in classe.
È quindi erroneo parlare della dedizione per i videogiochi come di una dipendenza in senso stretto, sebbene i genitori possano sfruttare un tale espediente linguistico per arginare il “problema” e farsi comprendere con più naturalezza. “I videogiochi dovrebbero essere giocati come parte di uno stile di vita salutare e bilanciato“, dice il Dr Jo Twist, CEO di UKIE, ente commerciale per l’industria videoludica nel Regno Unito. Le proverbiali pause di cinque minuti ogni 45-60 minuti di gioco sono valide ancora oggi, ed è ormai comprovato da molti ricercatori che i videogiochi possono far male tanto quanto possono aiutare; e non è un effetto strettamente connesso al genere videoludico: i videogiochi educativi possono dare un boost significativo all’apprendimento, certo, ma i videogiochi di azione possono migliorare allo stesso modo la vista e le capacità di percezione dello spazio. Senza contare l’incredibile contributo apportato sul fronte della creatività e dell’immaginazione, specie per quelle menti già predisposte ad apprendere in tal senso.
Insomma, è fuorviante tentare di combattere il problema della “dipendenza dai videogiochi” come se fosse un vero e proprio caso clinico, specie se gli eccessi non sono poi così significativi. Ma non è tutto oro quel che luccica.
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