Recensione Il periodo Edo di Rise of the Ronin

Team Ninja, io e voi abbiamo già un problema chiamato Ninja Gaiden Sigma. Da giocatore sempre stato casual quel tuo abominio per me è stato un incubo, che mi ha dato più difficoltà di quanto mi piaccia ammettere – e certo, anche più soddisfazioni nel superarle di quanto sarebbe sensato ammettere per salvare la faccia. E ci sta che nella piena ignoranza non mi fossi informato, e che non sapessi che c’eravate voi dietro a Rise of the Ronin.

Ricordo ancora quel senso di sconfitta e di impotenza totale che Ninja Gaiden mi lasciava a ogni batosta. Oggi è peggiorato perché ho già perso metà delle mie facoltà cerebrali dopo una giornata di lavoro full time (e più), e mi basta molto meno a restare inebetito sul divano con un controller in mano. Ma non è di questo che voglio parlare adesso.

Con la giusta curiosità mi fiondo nel Giappone feudale, un momento storico cruciale di un Paese a cui – vuoi o no – sono indissolubilmente legato.

Il periodo Edo con gli occhi di una Lama velata

Storicamente siamo attorno alla metà del XIX secolo, durante un periodo della storia del Giappone chiamato Bakumatsu. Un periodo di enorme cambiamento per i cugini del Sol levante, giacché pone fine all’isolamento del Paese dal resto del mondo nonché al regno degli shogun, che cederanno il posto all’Imperatore attualmente ancora seduto nella sua celestiale residenza in quel di Tokyo.

Il Paese è in fermento (negativamente) anche per via dell’arrivo sull’isola degli “stranieri”, in particolare della flotta del commodoro Perry in cui ci si imbatte proprio all’inizio di Rise of the Ronin. Nel contesto di un gruppo noto come Lame velate, ogni samurai viene da giovane affiancato a un/una partner – la sua Lama gemella. Sebbene la partita si apra con la personalizzazione di entrambe le Lame gemelle al centro della storia che vivremo, ben presto la trama ci porta con un particolare pretesto a scegliere con quale proseguire.

La meccanica in realtà è di preparazione a come giocheremo un po’ tutto il gioco. Anche senza partner, si incontrano personaggi con cui la Lama stringerà dei rapporti e potrà combattere. Personaggi completamente controllabili da chi gioca, ognuno con la sua arma e stile di combattimento. Stili che poi interagiscono tra loro in un sistema di debolezze e vantaggi da imparare a sfruttare per crearsi aperture durante lotte che possono essere anche piuttosto difficili.

Affermazione che chiaramente si applica in maniera molto limitata al livello di difficoltà più basso – per qualche motivo mi sento di specificarlo.

In questo contesto è triste paragonare una lotta a un pestaggio all’americana con le spade?

Se del sistema di gioco dovessi elogiare qualcosa, molto probabilmente lo farei per il combat system. È molto interessante scoprire le combinazioni tra i personaggi, ed è anche molto impegnativo padroneggiare una meccanica che ti richiede di passare continuamente da uno all’altro per ottenere il meglio in lotta. Non solo da un personaggio all’altro, ma anche da un modo di lottare a uno quasi completamente diverso, combinando nel frattempo anche gli stili di lotta di ogni tipo di arma.

È interessante, ed è anche un po’ un casino. Bisogna prendersi il tempo di padroneggiare la meccanica prima di lanciarsi a capofitto nella lotta boss successiva, ma purtroppo non sempre si ha la possibilità di farlo. Spesso infatti per motivi di trama si controlla solo la propria Lama velata. Se questo è un bene per imparare a padroneggiare gli stili, chiaramente lo è un po’ meno dovendo anche imparare il cambio personaggi.

A coronare questa situazione già non semplice c’è l’accoppiamento di tasti alle azioni di gioco. Sarà che stavo giocando altro prima che arrivasse Rise, sarà che non tocco un controller da un po’, ma in parecchi momenti del gameplay ho avuto l’impressione che l’assegnazione dei tasti alle varie azioni non sia delle più intuitive di sempre. Azioni essenziali – come, appunto, il cambio personaggio – restano secondo me assegnate a combinazioni di tasti troppo lontane fisicamente da quelli necessari a continuare a combattere, curarsi eccetera.

Sarò viziato, ma vorrei aggiungere anche qualche commento sul mondo di gioco, una mappa che a tratti ha un po’ un aspetto “sciapo”. Ha i suoi bei scorci, ma nel dettaglio non appare eccessivamente curata. Ci sono attività da svolgere, ma per lo più è statica e silenziosa.

Ci credereste che non sono ancora nemmeno arrivato alla parte che mi è piaciuta meno? Quella è, indiscutibilmente, il doppiaggio inglese. “Perché giocare un gioco ambientato il Giappone con il doppiaggio inglese?”, vi state chiedendo. Beh innanzitutto perché era lì di default a inizio partita, e poi perché provo sempre almeno l’audio in italiano oltre che nella lingua originale.

Il doppiaggio è importante Basti pensare a Sensualità a Corte con o senza il commento della Gialappa: sempre oro, ma un po’ meno.
Io ci tengo a essere molto equilibrato quando parlo, racconto e soprattutto scrivo di videogiochi – ma qui mi è veramente difficile. Il doppiaggio inglese sembra letteralmente chiesto a ChatGPT: è macchinosissimo, poco emotivo, davvero metallico. È giusto dare a Cesare quel che è di Cesare, e se qui avessero affidato il doppiaggio a lui in persona forse sarebbe venuto meglio.

Questa parentesi la voglio chiudere qui. Ma con un appunto: ritengo che il doppiaggio al pari della colonna sonora sia uno di quegli elementi che spesso non si attenzionano abbastanza, ma che invece sono importantissimi per far sì che un prodotto multimediale abbia un particolare effetto su chi ne fruisce.

Serve uno spunto per spingere chi gioca a sapere di più.

Mi trovo in una di quelle situazioni in cui la recensione che scrivo è un po’ fuori dal mio tono. Di solito accade perché ho giocato qualcosa di simile a un gestionale, oppure perché non mi sento particolarmente coinvolto nel gioco che ho di fronte.

Per Rise of the Ronin, ovviamente, il caso è il secondo. Il che è la prova lampante che se mi sono sforzato una vita intera a lottare contro il cliché del “se fai questo, allora ti piace quest’altro” evidentemente avevo ragione – perché io ho studiato giapponese e il Giappone, e se i cliché fossero veri questa roba avrebbe dovuto mandarmi fuori di testa dalla gioia. Ma non lo fa: non perché sia roba brutta o fatta male, semplicemente perché al netto di alcuni punti di forza non mi entusiasma granché.

Rise è l’ennesima prova del fatto che i videogiochi possono non essere fini a sé stessi anche senza una trama mozzafiato, o un sacco di effetti particellari. Come accadeva molto tempo fa con gli Assassin’s Creed, a un certo punto ho sentito il bisogno di rinfrescare la memoria riguardo cosa avevo davanti. Al di là della rielaborazione per fini di trama e delle battute stupide sul comandante Perry e gli ornitorinchi, ho sentito il bisogno di confermare le informazioni che ricordavo dagli studi di ormai un decennio fa.

E in maniera non troppo dissimile agli Assassin’s Creed, la nuova creatura di Team Ninja fa un buon lavoro storico. Si esplorano le aree del mondo, si raggiungono posizioni indicate sulla mappa che corrispondono a reali punti d’interesse del Giappone, si consultano le informazioni a riguardo. Magari non saranno complete o iper dettagliate, ma sono un’ottima scintilla per quello spunto di cui chi gioca ha bisogno per dirsi “figata, fammi leggere di più”.

Rise of the Ronin è stata la conferma che se c’è bisogno di qualcosa in alcuni videogiochi, è proprio quella scintilla in più che li colleghi – nella nostra mente – al mondo reale. Una spinta iniziale a informarsi, studiare, saperne di più, che spero un giorno aiuti a concludere passi più grandi.

Voto e Prezzo
7 / 10
40€ /80€
Commento
Non definirei Rise of the Ronin uno dei giochi che mi hanno più colpito nella mia vita, ma sicuramente è uno di quelli che volutamente o meno accendono la scintilla di una riflessione. E sì, se ve lo state chiedendo: come gioco è tutto sommato godibile.
Pro e Contro
Background storico
Combat system

x Per i tasti serve il gobbo
x Il doppiaggio inglese.

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