Recensione Outcast: Second Contact

Correva l’anno 1999…

Per chi di voi non c’era ancora, o era magari troppo piccolo per ricordarselo, la fine del millennio era un periodo in cui la narrativa videoludica stava iniziando a prendere piede sul gameplay, e le transizioni da 2D a 3D non erano ancora del tutto completate, lasciando ampio spazio alle sperimentazioni. In un periodo del genere, fece capolino uno dei titoli più atipici degli albori del 3D, che non aveva paura di provare nuove direzioni, e che, nonostante il mancato successo commerciale, aprì la strada a molti degli standard ancora in uso nel game design.

Stiamo parlando di Outcast, partorito dalle menti del team Appeal, che non a caso ottenne all’epoca il titolo di adventure game dell’anno, e la cui solidità narrativa e libertà di esplorazione regge bene anche a distanza di diciotto anni.

Sfortunatamente, questa volontà di sperimentare fu un’arma a doppio taglio, che non trasformò il titolo nel successo commerciale che meritava. Dopo quasi due decadi e una reunion dello studio originale, Appeal ci riprova con una riedizione visivamente impressionante dal titolo Outcast: Second Contact. Ma non lasciatevi ingannare dall’abito: sotto la veste ripulita dal motore voxel c’è sempre lo stesso sarcastico ulukai di fine millennio: nel bene e nel male.

Versione provata: PC

 

 

Noi siamo pacifisti, tu no
Outcast prende il via da una delle premesse più classiche degli anni ‘90: un esperimento scientifico riesce ad aprire un portale per un universo parallelo, ma la sonda inviata inizia a malfunzionare e scatena un’anomalia spaziotemporale che rischia di distruggere il mondo. Un team composto da tre scienziati e un marine a scortarli viene inviato oltre il portale per tentare di rimediare prima che sia troppo tardi.

Se qualcuno ha pensato a Stargate, non siete troppo lontani. Outcast ha effettivamente molto in comune con il film del ‘94, tuttavia l’atmosfera varia molto presto il tono quando il nostro alter ego, il navy seal Cutter Slade, riprende i sensi circondato da un gruppo di talan, la razza antropomorfa che popola il mondo parallelo di Adelpha. I suoi salvatori lo rivestono subito del ruolo dell’ “ulukai”, il messia umano il cui avvento era stato profetizzato dal saggio Kazaar e che, secondo l’antica leggenda, avrebbe recuperato i cinque oggetti sacri chiamati Mon e posto fine alla tirannia del malvagio Fae Rhan. Peccato che di tutto questo, né Cutter né il giocatore abbiano la più pallida idea, e da quell’iniziale senso smarrimento saremo chiamati a dipanare la matassa che lega le due anime di una storia degna di un film.

Da qui in poi, avremo a che fare con un mondo alieno ma al contempo familiare, da esplorare nella nostra missione per salvare i due mondi. Dalla regione agricola di Shamazaar alle sabbie di Orkiana, passando per le isole di Okasankaar, le miniere di Motazaar e i boschi sacri di Okaar, le atmosfere narrate in Outcast si distaccano rapidamente dai cliché iniziali, e pur mantenendo un piede saldamente piantato nella fantascienza, con l’altro si sposta verso il fantastico, il mistico e l’epico, generando una unicità narrativa che anche dopo diciotto anni appare salda e ben costruita.

 

 

Quando il messia è un ca**one
Nella nostra ricerca dei cinque Mon, impareremo a prendere confidenza con le meccaniche di un titolo che ha quasi vent’anni sul groppone, che tuttavia all’epoca erano considerate quasi rivoluzionarie. Adelpha è un open world, nel senso che a parte un paio di muri perfettamente giustificati a livello di trama, sarà solo la nostra volontà di esplorare e capacità di resistere agli scontri con i soldati di Fae Rhan a limitarci. Certo, oggi questo non sembra granché, ma l’originale Outcast precedeva di ben due anni GTA III e la sua massiccia città open world, e lo faceva in un modo che ancora oggi regge bene il confronto.

In questo, la parola d’ordine è “immersività”. Non aspettatevi grandi frecce lampeggianti o obiettivi in rosso sulla minimappa: in Outcast (e di conseguenza Second Contact), il giocatore è affidato alla propria capacità di interagire con i talan per ottenere missioni, indizi, indicazioni e rifornimenti, e persino il salvataggio è giustificato in-game! Per trovare gli individui con cui parlare, potremo o vagare alla cieca e affidarci alle indicazioni che compaiono sulle loro teste avvicinandoci, o chiedere ad altri talan di indicarci la strada, ricevendo perlopiù indicazioni generiche come avverrebbe nella realtà. Chiedere ad uno dei ricreatori sparsi per le regioni di prepararci delle munizioni richiederà del tempo che potremo dedicare ad altre missioni secondarie, a differenza dei titoli odierni in cui ci aspetteremmo di ricevere immediatamente quanto richiesto.

Per coloro che storcono il naso a queste scelte di gameplay, Appeal ha implementato una sorta di “zuccherino”, sotto forma di mira automatica e rigenerazione automatica della salute. La prima in realtà molto è ben accetta, vista la difficoltà a centrare i bersagli che imponeva l’originale (complice un’IA decisamente avanzata dei nemici che, anziché caricare a testa bassa, cercavano ripari, provavano ad accerchiarci o ripiegavano se in svantaggio). Sulla seconda, invece, il parere è più negativo, in quanto toglie sicuramente molto all’immersione nel gioco e al fascino di calarsi nei panni di uno dei protagonisti più ironici e sarcastici di sempre!

 

 

Le vesti nuove dell’ulukai
Parte del fascino di Outcast, oltre alle vicende narrate, è dato dalle atmosfere degli ambienti che saremo chiamati ad esplorare. Ciascuna regione di Adelpha riflette una tematica: ad esempio, le terre agricole e religiose di Shamazaar sono verdi e lussureggianti, accompagnate da un tema musicale orchestrale che invita a fermarsi e godersi l’attimo; per contro, l’intera città di Okriana nella regione desertica di Talanzaar, è rigidamente organizzata in mercati, bar, case e atmosfere arabeggianti, costantemente all’ombra dell’imponente e minaccioso palazzo di Fae Rhan.

Nell’originale del 1999, Appeal decise di affidare questa resa grafica ad un motore voxel con accelerazione software, nell’esatto periodo in cui stava iniziando a prendere piede l’accelerazione 3D hardware con schede grafiche dedicate. Il risultato fu uno stile visivo unico, che però richiedeva una potenza di calcolo particolarmente elevata per i PC dell’epoca, e che decretò l’insuccesso commerciale di Outcast. In Second Contact, tuttavia, i voxel hanno ceduto il passo a texture in alta definizione, che a loro modo mantengono una certa impronta visiva unica, anche se lo stile grafico deciso per i volti dei talan, così come per le cutscene, non sembra convincere particolarmente. Anzi, in molti casi sembra indeciso se voler essere una sorta di base per il cel shading o una grafica realistica, e il risultato è un ibrido a cui si fa rapidamente l’occhio, ma che continua ad avere un certo senso di “sbagliato”.

Cosa ben diversa, invece, è per i paesaggi, dove il nuovo motore mostra i muscoli e riempie di dettagli mondi che in passato erano si identificabili ma che ad un giocatore di oggi risulterebbero spogli. Salvo poi andare nella direzione opposta ed esagerare con i dettagli, rendendo estremamente complesso trovare molti dei materiali, componenti, munizioni e sacchetti di denaro che l’IA dello zaino di Cutter continua a segnalare. Bene, ma non benissimo.

 

 

Anomalie temporali
Il vero problema in questo remake ad alta definizione, però, è che di remake ha in realtà molto poco. Ultimamente sentiamo spesso parlare di classici riproposti in chiave moderna, e del tentativo di svecchiarli per renderli più adatti ad un pubblico ormai abituato a certe meccaniche di gameplay. Non sempre questo si traduce con un risultato positivo, ma in ogni caso entra in gioco un effetto nostalgia, che tende a nascondere i difetti delle esperienze passate e ad evidenziare solo i lati positivi. Per questo, un titolo che cerca di ricatturare quelle stesse sensazioni modernizzando però le meccaniche, non sempre viene accolto positivamente.

Con Outcast: Second Contact, invece, è la situazione diametralmente opposta. Anziché creare un titolo sostanzialmente nuovo e imbellettarlo come se fosse un gioco del passato, Appeal ha letteralmente trascinato un gioco del 1999 nel 2017, lo ha rivestito in una nuova veste grafica con qualche orpello di gameplay opzionale in più, e lo ha dato in pasto ai giocatori. Certo, agli occhi è sicuramente una vista familiare per il pubblico attuale, ma sotto l’alta definizione vi sono ancora quei movimenti poco fluidi dei personaggi, quei salti irrealistici, i problemi di collisione delle hitbox e via discorrendo. Vent’anni fa, magari alle prime armi con un titolo 3D, potevamo anche passarci sopra (n.d.r. in realtà si trattava di aspetti frustranti anche all’epoca). In un remake in pompa magna come questo, che potrebbe o meno rilanciare il brand verso quel sequel tanto atteso e poi cancellato, suscita solo una domanda: “perché”?

L’amore per la fedeltà al classico è sicuramente un aspetto positivo, che i fan di vecchia data del titolo di Appeal non mancheranno di apprezzare, ma per il resto dei giocatori a cui con ogni probabilità era mirato questo remake? Perché volere a tutti i costi importare anche i lati che dopo diciotto anni potevano essere migliorati? Perché ad esempio non cercare di inserire dei controlli più responsivi, o magari di rivedere il sistema di salto o le animazioni? Tanti piccoli dettagli, che però uniti danno l’impressione di un’occasione sprecata. In particolar modo visti due aspetti chiave di questo remake: l’uscita su console e il costo di un titolo la cui più grande variazione è la grafica.

Il supporto controller è decisamente scomodo, e, perlomeno su PC, non mappabile. Alcune scelte di tasti sono controintuitive, e, nonostante siano poche, esistono alcune situazioni in cui è richiesta una certa precisione nei controlli, pena morte istantanea. Tentare di scattare solo per vedere Cutter accucciarsi ed essere schiacciato da un masso rotolante nelle miniere di Motazaar… non è tra le migliori esperienze di questo remake.

Sul lato del prezzo, infine, nonostante sia un titolo che merita di finire nel radar di qualsiasi appassionato di titoli d’avventura, le innovazioni proposte non sono così elevate come ci si aspettava, e vista anche la presenza di una versione “di compatibilità” con i pc moderni uscita nel 2014, seppur ancora in grafica voxel, il rischio è che molti giocatori, seppur invogliati, attendano un calo di prezzo prima di gettarsi in un’Adelpha ad alta definizione.

Verdetto
6.5 / 10
Il messia viene sempre due volte
Commento
Nello scrivere questa recensione, è stato necessario scindere due nature: quella del fan del 1999, folgorato dall’originale e che ha disperatamente atteso per quasi vent’anni che ci fosse una possibilità anche minima di sdoganare Outcast al grande pubblico, nella speranza di vedere finalmente il sequel di una delle storie videoludiche meglio scritte e narrate di fine millennio. L’altra è quella del giocatore del 2017, ormai abituato a certi standard di gioco (che Outcast stesso aveva contribuito a stabilire), e che vive l’esperienza di Second Contact con un occhio più critico: il fascino e l’immersività sono ancora presenti, e sicuramente il potenziamento grafico è stato quantomai necessario per poter apprezzare al meglio un mondo fantascientifico e maestoso come Adelpha. Ma le note stonate ci sono, e non si tratta di meccaniche diverse dai canoni moderni (sul dover sacrificare l’immediatezza all’altare dell’immersione nell’atmosfera ci si può anche passare sopra, d’altronde le reazioni di Cutter a queste situazioni sono sempre delle vere perle di sarcasmo). Il guaio è che i problemi sono creati da controlli invecchiati male o animazioni obsolete, e che potevano essere risolti senza dover completamente variare il gameplay né snaturare alcunché. In Outcast: Second Contact questo non è stato fatto, e il risultato è una sorta di strana macchina del tempo che permette ai giocatori di vedere in tutto e per tutto com’era il 1999 videoludico con una veste grafica più vicina agli standard attuali. Consigliatissima come esperienza, ma senza gridare al miracolo.
Pro e Contro
Grafica rinnovata
Storia solida e intrigante anche a distanza di anni
Colonne sonore riarrangiate
Adattissimo ai fan di vecchia data…

x …ma i nuovi faticheranno un po’ ad abituarcisi
x Controlli poco responsivi
x Alcune meccaniche invecchiate male

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