Recensione In Sound Mind – Recensione

Essere sani di mente è un disturbo. Perlomeno, se si è il protagonista di un videogioco horror dal taglio psicologico. Il disturbo non inteso come malattia, sia chiaro, ma un disturbo per la sceneggiatura, per gli sviluppatori.

In realtà, In Sound Mind non è così tanto horror. Forse vorrebbe esserlo più di quello che è, non lo so, forse vorrebbe concentrarsi più sui risvolti della psiche e dei vicoli nel quale può bloccarsi. Forse vorrebbe solo essere una breve storia con qualche buona giustificazione per creare scenari disturbanti e incoerenti. E in parte funziona, anche se spesso il trucco è così evidente che non rompe solo lo quarta parete, ma fa crollare il palazzo.

L’inganno finisce, vedi la troupe dietro le porte dell’ascensore come uno spaurito Jim Carrey in The Truman Show. In quei momenti, al netto dei pregi, il gioco sembra dirti “sono solo un gioco” e perde mordente.

Non sei più coinvolto. Forse non lo sei mai stato.

In linea con l’assassino (o chi ne fa le veci)

Il problema di In Sound Mind, meglio specificarlo subito, risiede tutto nella sua incertezza. Detto semplicemente: è troppo blando. Questo non vuol dire che non funzioni né che non sia in grado di intrattenere. Sì, c’è qualche problema di polishing a livello tecnico e il design di menù e interfaccia sono il vero incubo che tiene svegli la notte. Ma in fin dei conti si può chiudere un occhio. A volte due. Ma è davvero troppo facile puntare il dito su difetti che sono ascrivibili al budget esiguo sul quale la produzione si è appoggiata – anche se un paio d’ore in più a cercare un font e due icone potevano essere spese – e pertanto, voglio esprimere al meglio i miei dubbi. Il titolo di We Create Stuff si merita almeno questo, credo.

Dunque, è il 1997 e il protagonista, Desmond Wales, si trova nel seminterrato del suo palazzo, nonsisabeneperché. Si recupera una torcia, si risolve qualche puzzle e si trovano fogli di carta con inquietanti frasi scritte a mano. Un bel pasticcio insomma. Squilla il telefono e una sprezzante voce dall’altro capo – tono cavernoso, font rosso per i sottotitoli – comunica a Desmond che è finito in, beh in un bel pasticcio, questo si era capito. Ma anche che la cosa è piuttosto personale. Ed ecco che il nodo della vicenda si scopre: Desmond è uno psicologo e alcuni dei suoi pazienti, dopo le sue cure hanno mandato le proprie vite in pezzi. E la voce rossa, lo sa.

Le audio-cassette, i gatti che parlano, le scritte sui muri e quelle nel cielo

In Sound Mind segnala l’inizio dell’avventura con una trovata così kitsch e anni ’90 che fa quasi tenerezza. In quel momento suona quasi come una dichiarazione di intenti. Mentre si guarda fuori dalla finestra, si può intuire il taglio dell’esperienza che si sta per vivere. E non ci si va troppo lontano. Muovendoci nel palazzo in cui ha sede l’ufficio di Desmond si può accedere ad altre realtà, il suo appartamento e quello dei suoi pazienti. Poco importa se si tratta di un appartamento in periferia o una capanna sperduta nel bosco.

Del resto, qualcosa non va in città, ma probabilmente qualcosa non va in noi se ogni piano del nostro condominio ci rigurgita addosso mostri filiformi e ci permette di teletrasportarci tramite un mangia-nastri. Lo scopo del gioco è infatti quello di riascoltare le sessioni dei differenti pazienti del protagonista e arrivare al bandolo della matassa. Questo senza troppo stupore da parte di Desmond. Forse crede sia un sogno, forse è in un sogno e dunque non si accorge delle storture della realtà intorno a lui. Forse è solo un gioco e quindi chiude il becco e manda avanti, che il prossimo livello è stato programmato ed è un peccato buttarlo via.

Il titolo inizia dando per scontato che lo seguiremo solo perché è così che vanno i giochi. Si installano, si preme start dopo aver smanettato con le opzioni e poi si va avanti, anche per inerzia ma si deve andare avanti. È la regola.

La curiosità ha ucciso il gatto. La pigrizia ha reclamato vendetta.

Ora, senza stare a citare Tim Schafer e Psychonauts – sebbene sia esattamente ciò che sto facendo – credo ci siano modi più efficaci per parlare della psiche umana e che cedere ai soliti schemi sia facile tanto quanto rimanerne succubi. I cliché sono un’arma a doppio taglio. Sto facendo un grande giro di parole per dire che In Sound Mind anche nella scrittura pecca di inconsistenza.

Il problema non risiede nei casi dei pazienti, ma nel modo in cui vengono proposti. Forse il gioco non vuole che ci si affezioni a loro ma dà comunque per scontato che la storia sia abbastanza interessante da tenere il giocatore incollato e chiedersi “Che cosa è successo?”. E la cosa strana è che in qualche modo il tutto tiene botta comunque. Nella sua semplicità riesce a fornire una struttura comunque in grado di intrattenere e una buona varietà di differenti “livelli” da affrontare.

Eppure, e forse lo dico perché comunque “dovevo” arrivarci ai titoli di coda, si prosegue sempre troppo per inerzia. La scrittura non convince quasi mai e quando sta per farlo, quando sembra dire “guarda che forse c’è qualcosa di più”, alla fine usa il colpo di scena più scorretto e quel qualcosa di più lo toglie all’ultimo momento. “Beh, avevo detto: forse.

Questo non mi permette di apprezzare a pieno In Sound Mind. Perché durante le ore spese – che comunque non rinnego – nei suoi meandri, sentivo il sapore di un game design troppo fine a sé stesso. Perché non mi basta sbandierare un puzzle davanti. Non voglio essere il cavallo con la carota di fronte al muso, voglio il contesto.

Voglio essere il gatto che viene ucciso dalla curiosità.

Nonostante questo, per quanto sia combattuto e incerto nello scriverlo, credo che In Sound Mind abbia comunque qualche freccia al suo arco. La struttura a livelli funziona, ognuno di questi ci fornisce un oggetto unico che si rivela essenziale per la maggior parte degli enigmi – ma anche degli scontri – che si annidano al proprio interno. L’atmosfera è altalenante ma con qualche guizzo lodevole e le shooting, per quanto impacciato, movimenta e spezza leggermente il ritmo.

Nel complesso è un titolo sufficiente e con del potenziale, che rimane però spesso inespresso, purtroppo.

Voto e Prezzo
6 / 10
10€ /30€
Commento
Il titolo di We Create Stuff è un "vorrei ma non poi così tanto". Al netto di un comparto tecnico stantio il titolo ha il potenziale per funzionare ma sembra vittima di una certa pigrizia artistica. Incarna, forse involontariamente, alcune idee sbagliate di game design. Al contempo, è sufficientemente vario, enigmi e livelli funzionano e in qualche caso riesce a creare un'atmosfera efficace, evocativa. Il poco mordente della scrittura e una serie di cliché un po' troppo prevedibile disturba la curiosità su cui dovrebbe far perno l'esperienza, ma anche avanzando per inerzia può regalare qualche ora di divertimento.
Pro e Contro
Buona struttura a livelli
Enigmi e level design funzionali
Qualche spunto interessante c'è

x Debole artisticamente
x Scrittura inconsistente
x Atmosfera troppo altalenante

#LiveTheRebellion