Defiant Development riapre le porte della sua bisca clandestina con un sequel che raffina, più che sconvolgere. Ma vista la base di partenza la mano è decisamente buona lo stesso.
Il primo Hand of Fate, un paio di anni fa, aveva convinto praticamente tutti: al di là dei limiti strutturali e tecnici del prodotto, le meccaniche facevano egregiamente il loro lavoro e sfruttavano al massimo il concept alla base del gioco, andando a confezionare un’esperienza in stile Dungeon & Dragons dove il master era impersonato da
un tizio di nome Caso che lanciava dei dadi. Impossibile pensare di stravolgere una formula vincente e collaudata quindi, inutile aspettarsi rivoluzioni esagerate da questo sequel. Tanti raffinamenti, più o meno pesanti, invece sì.
Versione testata: PlayStation 4
Lettura della mano
Hand of Fate 2 non rivoluziona, ma raffina alla grande
La prima cosa che balzerà all’occhio di chi ha già sfidato il mazziere la scorsa volta, è che questa seconda mano distribuita da Defiant Development
punta decisamente più sull’aspetto narrativo. La struttura di base è la stessa del primo capitolo, con delle carte estratte a caso e posizionate coperte sul terreno di gioco che vanno a formare quella che – di fatto – è la mappa della partita, ma i collegamenti tra questi diventano più verbosi e descrittivi, andando a marcare maggiormente le differenze tra una carta e l’altra. Hand of Fate 2 ha più da raccontare e non ha paura di farlo, e per quanto alla fine dei giochi il tutto rappresenti ancora un’esperienza procedurale che sul lungo periodo tende a diventare una conoscenza familiare,
nasconde meglio la sua natura proprio grazie ai suoi stratagemmi narrativi. Insomma,
le carte questa volta rimangono coperte più a lungo, prima di poter pensare – è il tramonto che precede la lunga notte della ripetitività – di conoscere davvero il gioco.
Man forte
Più alternative, più bivi e più esplorazione
Ma ovviamente la novità – o presunta tale – non si ferma sulla carta (o meglio, sulle carte), ma va a colpire direttamente anche il resto delle meccaniche che formano il pacchetto ludico. Il primo capitolo si affidava alla sorte, e Hand of Fate 2 in buona sostanza continua a farlo, per pilotare l’esito degli eventi che vengono proposti:
la differenza è pero che lo fa in modi diversi, più vari. Hand of Fate si limitava a giocare ad una versione più arcana e meno “fregatura da turisti alla stazione” del gioco delle tre carte, per stabilire se un evento si sarebbe concluso con il fallimento o il successo del giocatore (arrivando anche agli estremi con “Grosso Fallimento” e “Grosso successo”). Il capitolo due riprende la meccanica, ma la affianca ad altri sistemi.
Compaiono sul tavolo da gioco anche dei dadi, da lanciare per ottenere un certo punteggio per riuscire a superare alcune carte in modo positivo – e con la possibilità di rilanciare poi tutti e tre i dadi o solo una parte di questi, in caso le cose vadano male. E su queste novità poi si innestano Maledizioni e Benedizioni, carte che conferiscono bonus e malus come due anni fa ma adesso lo fanno passando anche attraverso queste sezioni inedite. Nulla di rivoluzionario, come sopra, ma
l’effetto finale è più quadrato e complessivamente regge meglio partita dopo partita. Esattamente quello che volevamo da un sequel di questo tipo.
Mano armata
Anche le fasi di battaglia sono più ricche – IA a parte
Migliora la narrazione, migliora la gestione delle probabilità, migliora anche l’esplorazione (aumentano il numero di carte e i “dungeon” si fanno meno lineari, variando dal punto di vista dei piani e vantando eventi opzionali ed eventi “ripetibili” durante la stessa partita). Ma il sistema di combattimento poteva essere da meno? Anche su questo fronte gli sviluppatori
hanno eseguito un deciso svecchiamento, che si affranca dalle soluzioni “alla Batman Arkham” del primo Hand of Fate e propone qualcosa di più vicino alla logica del sasso-carta-forbice. È essenziale capire quando attaccare, quando schivare e quando invece pararsi (e tentare il contrattacco sul nemico), oltre che decidere con attenzione quando caricare per fare danno e quando invece farlo per disarmare e sbilanciare il nemico di turno. Ma più in generale
aumentano le possibilità di attacco, visto che entrano in gioco mosse finali e mosse speciali per le armi in utilizzo, e soprattutto aumenta la variabilità quando si tratta di equipaggiamento e nemici. Già, perché adesso ogni creatura ha un suo stile di combattimento, e ci sono armi più o meno efficaci contro ciascuna di loro. Spesso e volentieri poi ci si ritrova a combattere unità diverse che si alleano tra di loro,
mischiando ulteriormente le carte in tavola. Il mazzo poi salta definitivamente quando si arriva a gestire anche degli alleati tra le proprie fila, con un personaggio di supporto “pilotabile” per utilizzare alcune sue abilità secondarie – per il resto, viene lasciato nelle mani di un’
IA non particolarmente smaliziata – e altri “minion” che ci affiancano nelle varie sessioni, a seconda di come si sono svolti gli eventi in precedenza.
Carta canta
Dal punto di vista tecnico – anche qui – non si può non notare un deciso miglioramento, visto che la produzione diventa molto più “coreografica” e curata anche durante i tempi morti, mascherando più furbescamente i caricamenti e abbondando con alcuni effetti grafici di transizione. Peccato che sia proprio durante questi spezzoni – dove fortunatamente si attende, non andando quindi a impattare sull’esperienza pad alla mano – che
vengono a galla alcune incertezze tecniche, con dei piccoli scatti e alcune pescate a vuoto del frame rate. Elementi di contorno, ma che comunque è difficile non notare a schermo.
Verdetto
8.5 / 10
Ammazza che mazzo
Commento
Pro e Contro
✓ Migliorato sotto tutti gli aspetti
✓ Ottima sfida e ben calibrata
x Rifinisce, non stravolge
x Qualche pecca tecnica
#LiveTheRebellion