Da una parte una terra (videoludicamente parlando) vergine come la Bolivia, palcoscenico meno utilizzato dalle varie compagnie open world che ormai si esibiscono sempre più di frequente sul mercato. Dall’altra una software house come Ubisoft, prolifica e con buona pace dei suoi detrattori sempre pronta a mettersi in gioco, anche in mesi non semplici come questo marzo. Nel mezzo? Un’esperienza ricca, con qualche sbavatura ma anche tanti contenuti. In due parole: Ghost Recon Wildlands.
Nelle mani di
Ubisoft, il nome dello scrittore
Tom Clancy è diventato una sorta di ombrello per serie anche molto diverse tra loro: dal più recente debuttante
The Division fino al franchise più “anziano” del gruppo,
Rainbow Six, la missione è stata quella di portare al ragionamento chi gioca, piuttosto che caricare a testa bassa senza soppesare tattiche e movimenti. E, nonostante questa volta la naturale tendenza ad ambientazioni meno claustrofobiche rispetto al citato Rainbox Six sia esplosa definitivamente,
Ghost Recon Wildlands non dimentica questo imperativo e riesce a mescolare pianificazione ed open world. Anche a costo di commettere qualche leggerezza, come avremo modo di vedere.
Versione testata: PlayStation 4
Tenere il cartello in riga
Il cartello Santa Blanca alla fine c’è l’ha fatta: anni di macchinazioni, intimidazione e tangenti hanno finalmente portato El Sueño, il capo dei capi in cima a questa organizzazione malavitosa, ad un soffio dal suo sogno: creare una terra dei sogni per poter coltivare e far prosperare il traffico di cocaina, per poi esportare la merce in Messico e Nord America. Un narco-stato in piena regola, dove politici e forze dell’ordine sono sul libro paga del cartello (o sulla loro personalissima lista nera) ed il Santa Blanca è libero di dettare legge, senza apparenti preoccupazioni ed opprimendo la popolazione con le loro manovre finalizzate al guadagno. Ma come nelle migliori tradizioni la tirannia semina il seme della sua stessa sconfitta, e all’ombra dell’influenza del cartello nasce una forza di ribellione, che assieme alla CIA e ai suoi affiliati sul posto darà via all’operazione Kingslayer, finalizzata a far uscire allo scoperto e a mettere definitivamente fuori gioco El Sueño ed il Santa Blanca. Come? Affidandosi al lavoro sul campo dei quattro elementi più validi dell’Intelligence statunitense, l’unità Ghost.
La Bolivia made in Ubisoft è davvero una nazione selvaggia.
Il nome Wildlands
non è stato stampato sulla copertina del titolo in modo casuale: non solo si riallaccia a quella che, come vedremo, è una filosofia open world che porta al suo massimo la predilezione della serie Ghost Recon per le ambientazioni più aperte e meno soffocanti, ma riassume in una parola l’approccio con cui il giocatore è chiamato a mettere in piedi l’operazione Kingslayer. In buona sostanza, per arrivare allo scontro con El Sueño e rovesciare il Santa Blanca
vanno messi fuori causa i suoi quattro luogotenenti, a loro volta contornati dai loro buchones.
Con assoluta libertà quindi si sceglie da che pezzo iniziare ad attaccare il cartello, con la possibilità (volendo) di ignorare la difficoltà della zona prescelta in cui operare alla ricerca di una sfida più sostanziosa. Di missione in missione, di dossier in dossier, si arriva a metter fuori gioco la gerarchia del cartello a ritroso, fino ad arrivare infine in cima. Dal punto di vista ludico
la scelta aiuta sicuramente la natura di Wildlands, specie se si guarda al quadro multigiocatore. Non essendoci un vero e proprio filo conduttore (se non l’obiettivo di arrivare a far fuori El Sueño) e avendo costruito il tutto soprattutto attraverso documenti ed intel da recuperare sul campo, l’ultima iterazione di Ghost Recon permette al giocatore di passare agilmente dal singolo alla cooperativa online, di giocare con il proprio gruppo di amici o tentare la sorte con il matchmaking,
senza ripercussioni sul fascino del prodotto: per approfondire, eventualmente, c’è tempo a posteriori dopo aver freddato il buchon di turno, e non c’è pericolo di anticipazioni di sorta se si passa da una zona all’altra cambiando completamente obiettivo a seconda delle decisioni di squadra, visto che in pratica ognuna di queste è fondamentalmente indipendente dalle altre. Il rovescio della medaglia registra una narrazione forse poco coesa e
personaggi che, per essere apprezzati appieno, richiedono di andare oltre i filmati che Wildlands propone a mo’ di introduzione per il bersaglio di turno, andando a recuperare informazioni extra sul campo dai dossier e poi esaminandone il contenuto. Non un grosso problema, visto che il focus è decisamente spostato sull’azione (più o meno ragionata) pad alla mano e che comunque, anche grazie a collaborazioni di alto profilo (ci torneremo nel paragrafo apposito) i membri di spicco del Santa Blanca riescono a capitalizzare quasi tutti i minuti a schermo che gli sono dedicati, togliendosi anche la soddisfazione di qualche approfondimento più diretto se si presta orecchio alla radio in-game (dato che capita di imbattersi in interviste e dichiarazioni rilasciate dai “big” della zona che si sta esplorando e dal boss in persona).
Sterminatori di Re
Visto quale è l’iter che, arrivati in una nuova zona della mappa, porta a liberarla dall’influenza del Santa Blanca, è il momento di entrare più nel dettaglio e andare a scalfire gli aspetti ludici propriamente detti di Wildlands. E, fin dalle prime ore di gioco, su questo fronte ci si rende conto di come l’ultimo capitolo di Ghost Recon possegga
una doppia anima, facendo emergere poi una o l’altra a seconda di come si decide di giocarlo. Iniziamo dall’esperienza in singolo: durante le partite locali tre dei quattro membri della squadra (ovviamente) sono controllati dalla CPU, ma in ossequio alla natura tattica della serie il giocatore si trova di fatto a doverne gestire alcuni aspetti del comportamento. Si familiarizza fin da subito con gli ordini di squadra, che permettono per esempio di richiamare i membri qualora siano sparpagliati, ordinare di aspettare fermi in posizione mentre si fa una ricognizione del perimetro o (quando si è alla guida) di aprire o chiudere il fuoco per ingaggiare o disimpegnarsi dai nemici. Ma l’aspetto probabilmente più d’impatto sulle meccaniche di gioco (
alla fin fine, se ci si allontana troppo, i tre alleati mossi dalla CPU vengono trasportati nelle immediate vicinanze) è il
Colpo Sincronizzato. In buona sostanza è possibile agganciare un nemico (potendo aumentare il numero di bersagli potenziando la relativa skill nell’albero delle abilità) marcandolo con un segnalatore, per poi dare ordine agli alleati di abbatterlo ad un comando. Una pratica utile per eliminare più bersagli contemporaneamente, in modo da non causare allerte e riuscire a raggiungere il proprio obiettivo in modo furtivo. Ed è a questo punto che
l’abilità appena descritta va a combinarsi alla perfezione con il Drone, che permette di effettuare le operazioni di ricognizione da remoto e in tempi sensibilmente ridotti. Chiaramente, appena si inizia a giocare le possibilità del quadricottero sono limitate, sia per batteria del dispositivo che per distanza raggiungibile prima di perdere il segnale video con l’apparecchio, ma anche in questo caso investendo nelle giuste abilità più tempo si dedica a Wildlands e più è facile far emergere le potenzialità del Drone, se si decide di investire su questa risorsa. Facile quasi al punto, superata una certa soglia di confidenza, da rendere l’esperienza tendenzialmente più abbordabile, specie se in parallelo al drone come accennato si spendono punti abilità anche sul Colpo Sincronizzato. Specie perché poi capita che utilizzando quest’ultimo i personaggi controllati dalla CPU riescano ed eseguire tiri ai limiti dell’impossibile,
abbattendo bersagli che il giocatore non riuscirebbe a centrare (o comunque non con la stessa facilità ed efficacia nell’eliminazione).
Una volta online, ad ogni modo, le semplificazioni vengono meno e i quattro Ghost possono contare solo su loro stessi.
Quando i compagni di squadra sono umani non si può più fare affidamento su questi tiri miracolosi, né tantomeno sulla possibilità di veder comparire istantaneamente gli alleati se ci si allontana troppo dal gruppo o sulla garanzia di essere rianimati (in singolo
il primo giro è gratis, e i Ghost riescono a rimettere in piedi il giocatore senza troppi sforzi solitamente).
La componente tattica va quindi ad assumere una dimensione tutta nuova, che in solitaria, per rendere l’esperienza il meno frustrante ed il più arcade possibile, si riesce solamente ad intravedere. Ed è proprio qui che, come detto,
la scelta di strutturare la campagna in assoluta libertà paga e ricompensa, incassando decisamente più di quanto si è sacrificato narrativamente parlando. Wildlands, pur rimanendo un prodotto assolutamente godibile anche da soli, da indubbiamente il suo meglio giocato online, magari con altri tre amici, comunicando tramite la chat vocale e scambiandosi battute di dubbio gusto e freddure proprio come fanno i quattro Ghosts tra di loro nella finzione in-game. Specie perché poi comunque
nella Bolivia di Wildlands le cose da fare non mancano, e anche se alla lunga il rischio ripetitività c’è (innegabilmente) l’impianto ludico, specie se sfruttato al massimo online, riesce a compensare il difetto. Come riesce a compensare alcuni elementi più grezzi sul fronte tecnico.
Guidi peggio di Aiden Pearce
Si parlava poche righe fa di arcade. E dovendo affibbiare al modello di guida di Wildlands un’aggettivo,
arcade sarebbe probabilmente la scelta più indicata: guidando su strada la fisica sembra funzionare a dovere, restituendo dei feedback abbastanza verosimili, ma una volta che ci si avventura su qualche sterrato le cose cambiano. Rimbalzi poco credibili, cappottamenti che sembrano risolversi sempre con il veicolo, alla fine, capace di tornare sulle ruote ed in generale una realizzazione che si appella un po’ troppo spesso alla sospensione di incredulità, il tutto però parzialmente mitigato dalla buona “caratterizzazione” dei veicoli, con Wildlands che è in grado di chiarire fin da subito che un SUV 4×4 ha delle prestazioni quando si esce di strada diverse da quelle di una Station Wagon. Lato prestazioni le cose vanno meglio, visto che (c’è da dirlo, l’hardware di PS4 non è certo stato spremuto dagli sviluppatori in diversi ambienti) l’esperienza riesce ad assestarsi su una fluidità media, online e offline, anche in situazioni più concitate. Il risultato finale quindi è
all’altezza della situazione, forse un po’ grezzo se si guarda a collisioni e compenetrazioni, ma adatto a quello che era l’obiettivo degli sviluppatori. Acusticamente parlando El Sueño infatti beneficia delle corde vocali di Luca Ward, ed in generale il lavoro di adattamento fatto è convincente e riesce a conferire ai personaggi (quantomeno, a quelli principali) la giusta profondità vocale. Si fa apprezzare da questo punto di vista, come detto, la presenza di interviste e approfondimenti audio nelle radio delle diverse zone, che danno qualche minuto extra (e qualche linea di dialogo in più) ai doppiatori, che viene indubbiamente capitalizzata a dovere. Adatta all’ambientazione anche la colonna sonora, che arriva al giocatore sempre grazie alle radio, ricca di sonorità latine e decisamente capace di calare il giocatore nell’ambientazione boliviana.
Verdetto
8 / 10
Pablo Escobar era un dilettante
Commento
Pro e Contro
✓ Tantissimi contenuti
✓ Mappa originale e varia
✓ Gameplay solido...
x ... Che da il suo meglio online
x Un po' grezzo
x A rischio ripetitività
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