“Un grazie davvero speciale a Shinji Mikami, Hideki Kamiya, Keiji Inafune, Hideo Kojima, Hidetaka Miyazaki, Genyo Takeda, PlatinumGames, Grasshopper e Treasure Co. Grazie per i bei giochi e i bei ricordi!”.
Questa recensione di Furi potrebbe finire qui, così come si conclude l’evasione del nostro alter ego dopo aver ucciso senza rimorso i suoi carcerieri, spietati come una virtuale Beatrix Kiddo, affamati di vendetta. Nell’opera dei francesi
The Game Bakers c’è tutto quel mondo li, lo
stylish action giapponese al suo massimo splendore, quell’intensità unica, i colori saturi, la trama ermetica, cadenzata come una poesia nel suo incedere assurdo e oscuro, per alcuni superfluo. Un team con ispirazioni altissime, cresciuto giocando, coltivando un amore per il meglio dell’hack ‘n’ slash e del bullet hell.
Furi è il defibrillatore capace di rianimare i cuori di chi vive d’azione ludica, un integratore di adrenalina da assumere prima di accendere Switch, capace di farci dimenticare la scarsità di titoli del genere che, maledizione, non vendono più come una volta, rendendo sopportabile l’attesa che ci porterà al terzo avvento di Cereza e Travis Touchdown. Ma è soprattutto un’opera capace di evitare l’effetto placebo, ritagliandosi un caldo spazio nel nostro cuore, regalandoci un’esperienza “inspired by” ma dotata di tratti somatici unici. Adesso fatevi un favore,
se avete intenzione di continuare nella lettura fate partire questa traccia e abbandonatevi alla synthwave, tra luci al neon e reminiscenze.
Art. 1, Comma 1. Il pattern nemico non ammette ignoranza
Gli action più indimenticabili trovano il loro picco adrenalinico nella sfida ai boss, spesso imprevedibili, esteticamente invincibili, capaci di portare al limite la nostra abilità manuale. Qui il picco diventa però fiume in piena e noi nel mezzo lottiamo contro le rapide, anzi, i rapidi, fulminei attacchi dei nostri carcerieri, gli unici, fortissimi nemici che incontreremo. Una prigione sospesa nello spazio, appena sopra la Terra, isole impossibili, più ultraterrene che extraterrestri; un’immagine quasi
grasshopperiana,
cocktail che inebria col gusto estetico di Suda51 e colpisce col profumo di El Shaddai, lasciando al giocatore libertà di pensiero e interpretazione.
Una fuga sincopata che alterna la battaglia alla camminata, meditativa, accompagnata dai criptici monologhi del nostro compagno di viaggio, un uomo travestito da coniglio che ci riporta un po’ a Donnie Darko e a una serie di messaggi subliminali lanciati allo spettatore ai fini del mistero. Una manciata di secondi utili a caricare nuovamente la nostra concentrazione verso la prossima danza con un nuovo sparring partner, ora una psicopatica, ora un santone, una cecchina
kojimiana, un guerriero rimasto al medioevo.
I pattern nemici sono i passi di una coreografia da imparare a memoria, una catena di azione-reazione in cui alternare sapientemente armi e riflessi: katana, pistola laser, ma soprattutto schivate e “parry” al millesimo di secondo.
Furi è caffeina pura capace di risvegliare dal torpore il videogiocatore moderno, dai riflessi ormai atrofizzati in un mondo di esperienze user friendly...
Lo schermo diventerà la pista di una discoteca, accecante e ipnotica tra le luci stroboscopiche delle onde di energia, le fluorescenze dei proiettili vaganti, i lampi che precedono un assalto fisico.
La musica incalzante,
potentissima,
sonorità di base anni ’80 che tuonano in un tunnel cyberpunk, uscendone sconvolte e portandoci all’esaltazione, spingendoci a cercare un senso al suo ritmo nel combat system, quasi a voler scambiare Furi per un rhythm game, mani piantate sul pad, piedi che tengono il tempo.
Un nirvana inverso che non ci libera mai dal desiderio ma ci rende insaziabili davanti a sconti al cardiopalma, programmati per diventare
endurance e mantenere la tensione altissima, mentre i polpastrelli cominciano a sudare e perdere presa sugli analogici.
Tre “vite” per il samurai,
da tre a sei per i boss, una barra della salute svuotata fino all’ultima goccia al nemico vuol dire recuperarne una, un privilegio che saggiamente il carceriere non ha. Se sarà lui a privarcene, l’attuale barra di energia verrà ricaricata e con essa il suo pattern, che tornerà indietro nel tempo pronto a punirci di nuovo, nello stesso identico modo.
Semplice e geniale,
quasi zen. Non si sfugge alla regola che svetta su questo paragrafo.
L’intelligenza artificiale non si basa sul pensiero quanto sull’istinto, le sequenze d’attacco potrebbero variare leggermente ma il modo di vanificarle sarà sempre quello. Si parte tendenzialmente con uno scontro a distanza stile twin stick shooter, poi, una volta indebolito la
querelle diventa intima, ravvicinata, un’attesa carica di elettricità aspettando la prima mossa dell’avversario, sfruttando la preveggenza del samurai capace di mostrarci il raggio d’azione degli attacchi d’area.
C’è anche tutto un level design delle arene a tratti liberamente ispirato a Metal Gear, talvolta volutamente spoglio, asettico, tra nascondigli e grandi spazi aperti, piattaforme in movimento e strettissime passerelle.
Tutto gioca con le sensazioni del giocatore, aspettare l’attimo fuggente per colpire, schivare, effettuare la parata perfetta dal feedback metallico, quella che farà partire una breve e letale cutscene, simbolo della momentanea sottomissione del nemico. Attaccare furiosamente sentendo ogni colpo sotto le dita, mentre gli occhi saettano verso le barre agli angoli dello schermo per capire quanto margine ancora abbiamo, quanto possiamo osare. C’è poi tutta una serie di sotto-meccaniche, come la possibilità di tenere il colpo caricato mentre si schiva, utile a contrattaccare di prepotenza, stordendo l’avversario e lasciandolo alla nostra mercé.
…Non di meno è danza moderna, un club ultraterreno in cui sfogare il nostro senso del ritmo, accompagnati dai colpi di cassa e di katana.
Tecniche avanzate che si renderanno indispensabili una volta finita la prima run e alzato il livello di difficoltà, già stimolante a livello normale, ovvero “Furi”, con altri due che gli gravitano intorno: “Tranquilla”, che ci permetterà di godere al meglio di ambientazioni e trama e “Furiosa”, che non ha bisogno di presentazioni, sbloccabile dopo i titoli di coda.
Diffidate di chi vi ha convinto che la difficoltà del gioco sia realmente infame. È questione di memoria, esattamente come ballare, se non si conoscono i passi si è goffi, rigidi, impietriti. Il cuore del gioco rinnega l’istinto per premiare lo studio, la difesa invece che l’attacco,
portando il game design a diventare vera e propria disciplina, spingendo il gameplay fino al limite delle sue possibilità. La fine del gioco (
da me raggiunta in 4 ore qualche minuto, premiato con una misera “B”) è solo il bivio verso una serie di altri percorsi di perfezionamento, per corpo e mente. Dalla modalità “S
peedrun”, dove affrontare tutti i boss in un’unica sessione aerobica e tenere il cuore costantemente ancorato tra 90 e 120 battiti al minuto, senza possibilità di interruzione. Affrontare
Fiamma, carceriere letale parte di un DLC uscito all’epoca e oggi compreso nel pacchetto, oppure tornare a combattere i singoli boss per perfezionare i nostri record e sbloccare tutti gli artwork,
arcade finché ce n’è,
finché fa male.
Furi è il figlio di due Heroes, “
Gunstar” e “
No More”,
uniti in un amplesso scatenato da un colpo di fulmine, capace di generare una progenie che lotta contro il budget per riportarci ad anni più puri, ludicamente spietati.
Disciplina e arte
Furi è un dojo surrealista che fa dei contrasti la sua forza,
dove una conta poligonale da sesta generazione viene nascosta e surclassata dall’arte di Takashi Okazaki, padre di Afro Samurai, ideatore di un design splendido in cui vive e vibra l’estetica arcade, gli anni ’80 e il futuro, architetture naturali impossibili ed ecosistemi sintetici, elementi eterogenei tutti declinati nello stile giapponese, col suo gusto per l’eccesso, più che mai riconoscibile nella meravigliosa caratterizzazione dei personaggi.
Artwork viventi dove l’abito fai il monaco. Un protagonista muto e senza nome le cui fattezze sono subito stampate a fuoco nelle retine, un’escalation di nemici capaci di tratteggiare la loro personalità in pochi secondi, presentandosi tanto feroci quanto preda delle emozioni e pulsioni più umane, ira, paura, speranza, pietà, follia. Un’estetica irresistibile che merita di essere cult, perché
l’opera The Game Baker fa parte di quella contro-cultura indie nata per farsi idolatrare da pochi, equilibristi che vogliono novità pur provando un po’ di nostalgia, capaci di identificare le proprie esigenze ludiche in prodotti del genere. Un gioco cui si può sottrarre anche la componente ludica e visiva per goderne solo con l’udito,
accedendo a Spotify e lasciandosi esaltare ad una colonna sonora di valore assoluto, capace di far godere anche chi non è interessato al gioco; elettronica violenta, “illegale”, ora psicoterapeutica e meditativa, riassunta in 22 tracce che sono passione, incontro di culture e sonorità filtrate attraverso il cyberspazio, firmata
Carpenter Brut,
The Toxic Avenger,
Waveshaper e tanti altri maghi della console.
Verdetto
9 / 10
Cyber-zen
Commento
Pro e Contro
✓ Ininterrotta ed esaltante danza stylish action
✓ Colonna sonora illegale
✓ Game design estremo
✓ Tanto materiale in cui perdersi e migliorarsi
x Comparto audovisivo a parte, gli altri suoi elementi non starebbero in piedi da soli
#LiveTheRebellion