Quando sento odore di asfalto, penso a Maureen. Ed inevitabilmente, per tutti quei giocatori che nel lontano ’95 hanno intrapreso quel viaggio on the road che LucasArt rilasciò su CD-ROM col nome di Full Throttle, da quel momento in poi sarebbe valsa la stessa cosa: l’afrore della strada avrebbe in un modo o nell’altro riportato alla mente Ben e i Polecats. Ma tolti gli occhiali da biker della nostalgia, cosa rimane di questa remastered?
Ve lo diciamo subito:
non lo sappiamo, e francamente non lo reputiamo nemmeno interessante. Non perché davanti ad un progetto che, videoludicamente parlando, è una parte importante del nostro bagaglio culturale, non sappiamo mantenere un atteggiamento critico (
lo sapete, quando si tratta di lamentarsi qui su I Love Videogames siamo tutti fuoriclasse), ma perché molto semplicemente
non ha senso escludere la nostalgia dal pacchetto, ludico ma anche emozionale, che
Full Throttle Remastered porta su PS4, Vita e PC. Per quanto si possano ammantare operazioni di questo tipo con intenti nobili o alti come “far riscoprire un capolavoro” o “permettere anche alle nuove leve di mettere le mani sul gioco”, la verità è che il target di riferimento, quello che molto probabilmente oggi è già pronto all’acquisto a prescindere da queste righe, coincide con il pubblico che all’annuncio di questa remastered ha fatto la ola. E questo pubblico farebbe benissimo ad andare immediatamente sullo Steam o sul PlayStation Network di turno e aprire il portafogli, perché
Double Fine c’è l’ha fatta ancora. Poi che in parallelo abbia anche permesso alle nuove leve di avvicinarsi a Full Throttle è vero, e nelle prossime righe vi spiegheremo come e perché, impennando al confine tra recensione e retrocensione.
Versione testata: PlayStation 4
Asfalto e guai
Full Throttle è diverso dai precedenti lavori LucasArt, cosa che all’epoca ha causato un certo sconcerto
Full Throttle è un prodotto decisamente
diverso dalle avventure grafiche della compianta LucasArt che lo hanno preceduto, e a volver ben vedere anche da diversi progetti che lo seguiranno. Non solo perché, grazie all’
avvento dei CD-ROM (infinitamente più capienti dei Floppy Disk utilizzati per il gaming su PC fino a quel momento) gli sviluppatori all’epoca poterono infarcire il tutto di cutscene e dare un taglio decisamente più cinematografico al progetto, ma anche e soprattutto perché
diversa è la filosofia dietro Full Throttle. In un portfolio dove la software house aveva rilasciato avventure in grado di occupare mouse e tastiera anche per 40 ore, la cavalcata in compagnia dei Polecats ne dura all’incirca 6 o 8, che viaggiano coast to coast seguendo un percorso lineare (
cosa ben evidenziata anche dai trofei proposti in-game, tendenzialmente molto facili da ottenere, con quei 5-6 obiettivi mancabili).
Dimenticatevi gli enigmi surreali e intricatissimi alla Monkey Island: in Full Throttle i puzzle proposti si risolvono utilizzando al massimo un paio di oggetti, senza possibilità di combinarli tra di loro e, salvo un paio di eccezioni, la difficoltà maggiore sta nel capire come procurarsi quello che serve, più che nel come utilizzare le cianfrusaglie che finiscono nell’inventario di Ben. Semplificazione non sempre ben digerita all’epoca, che però ha indubbiamente dei risvolti interessanti a schermo: l’azione infatti, proprio per questo motivo, si svolge in massima parte tutta all’interno dello scenario, senza la necessità di “fermare tutto” o di muoversi attraverso interfacce complicate per impartire i comandi al protagonista: un click apre l’inventario ed un altro click fa comparire la ruota delle azioni che permette di interagire con lo scenario, andando a snellire di molto questo aspetto e in pratica
a fare la storia del genere, visto che da lì in poi anche gli altri titoli LucasArt vireranno in questa direzione (incluso il terzo capitolo di
Monkey Island).
La sfida non è assente, viene semplicemente formulata in modo diverso. Un esempio? Nella sezione della discarica si ha nell’inventario un lucchetto e a disposizione sullo scenario una saracinesca e la catena che permette di azionarla. La soluzione più logica sarebbe quella di tirare la catena, bloccarla col lucchetto e passare dall’ingresso: Tim Shafer e i suoi invece
chiedono al giocatore di fare una cosa contro-intuitiva, cioè bloccare la saracinesca con il lucchetto ed usare la catena come corda per arrampicarsi fin dentro la discarica. Full Throttle non gioca però solo su questo tipo di enigmi, ma nel corso dell’esperienza propone anche un paio (tre, se si conta anche il mini-gioco nascosto) di
sezioni arcade.
Guybrush Threepwood combatteva con gli altri pirati a colpi di insulti, Ben invece sulla strada della miniera non si fa problemi ad utilizzare le maniere forti.
Calci, pugni, spranghe e catene, raccogliendo le armi degli sconfitti una volta disarcionati dalle loro moto e chiamando il giocatore proprio a capire quale strumento utilizzare contro il centauro di turno per abbatterlo.
Un prodotto sui generis anche da questo punto di vista, caratterizzato anche da questi spezzoni più spiccatamente ludici e realizzati in tre dimensioni.
Ben è un taciturno che ha sempre la risposta pronta
Mi sono svegliato in posti peggiori
Una storia dai contenuti più crudi e maturi, quasi in anticipo sui tempi e proprio per questo attualissima nel mercato di oggi
L’altra grossa differenza, come accennavamo, è
il modo in cui il tutto viene raccontato: potendo sfruttare più massicciamente le cinematiche, queste erompono e permettono di raccontare in modo molto più incisivo la storia, specie perché da questo punto di vista Tim Shafer, come si dice in gergo,
non si è tenuto ed il budget complessivo dietro al progetto è arrivato a toccare la cifra record – per l’epoca – di un milione e mezzo di dollari, nonostante le diverse sezioni tagliate (sulle cause di queste spese pazze indagheremo a breve). Non solo il tutto va a strizzare più direttamente l’occhio al cinema, prendendo ispirazione tra le altre cose da
Interceptor – Il guerriero della strada (a.k.a
Mad Max 2), ma a fungere da vero e proprio punto di rottura con il passato è
il tono con cui le vicende vengono raccontate, crudo e dalle fosche tinte
hardboiled. La sequenza di apertura mostra i Polecats sorpassare in modo aggressivo la limousine di Malcom Corley, proprietario della Corley Motors (ultimo produttore di motociclette “su gomma”, in un mondo che ormai è passato in massa a veicoli sospesi da terra), passando sopra il tettuccio della vettura e danneggiando il veicolo. Più avanti, lo stesso Malcom Corley sarà vittima di un brutale assalto, ed il gioco non si farà nessun tipo di problema a mostrare l’aggressione e le sue conseguenze, con Malcom steso a terra e zuppo di sangue ad esalare il suo ultimo respiro (ed affidare a Ben il compito di vendicarlo). Anche in questo caso quindi dimenticatevi il tratto scanzonato delle precedenti avventure LucasArt: Full Throttle cerca (e riesce) a dipingere
un quadro più maturo senza diluirne i contorni.
Come ha retto tutto questo alla prova del tempo? Indubbiamente bene, visto che a distanza di 22 anni il mercato è cambiato molto.
6 ore di giocato nel ’95 erano troppo poche, nel 2017 invece sono non solo
socialmente accettabili,
ma anche funzionali alla fruizione del pacchetto ludico. E anche il tono più maturo e “serioso” (
le virgolette sono d’obbligo, visto che non mancano momenti in cui un ghigno si fa strada sul volto di chi sta giocando, per una linea di dialogo particolarmente brillante o per una citazione riconosciuta) ben si presta a quello che il medium è diventato e stava cercando di diventare proprio in quegli anni.
Essere un precursore, in questi casi, insomma paga.
Non sono uno speleologo
L’audio è di assoluto livello, sia per il doppiaggio (originale o italiano che sia) che per la colonna sonora
E veniamo finalmente al motivo dietro all’ingente somma stanziata all’epoca da LucasArt per portare a casa il risultato:
un cast d’eccezione, sia per quanto riguarda i doppiatori che dal punto di vista della colonna sonora. La versione originale del titolo, quella in lingua anglofona, sfrutta una serie di corde vocali decisamente conosciute per dare voci ai vari personaggi:
Mark Hamill (
si, Luke Skywalker, o se preferite la voce del Joker della versione animata di Batman) nei panni di Adrian Ripburger, il cattivo del titolo e
Kath Soucie (un’istituzione quando si parla di animazione) nelle vesti di Maurine sono solo un paio di esempi tra quelli che possiamo citare per giustificare le belle parole spese a proposito del doppiaggio. Ma Full Throttle, tra le altre cose, è anche
uno dei primi titoli ad essere localizzato a livello audio anche in italiano, e anche in questo caso con un risultato
indubbiamente di livello. Particolarmente azzeccata la scelta di adattare nella nostra lingua gli accenti di alcuni personaggi non sfruttando l’ormai abusatissima tecnica del tirare in ballo i dialetti regionali, ma più semplicemente di
portarne su schermo l’inflessione, lasciando il tutto comunque in italiano. Capita quindi di scorgere alcune note di romagnolo quando Horrace (il venditore di souvenir allo stadio) apre bocca, ma si tratta di un condimento che non sovrasta il gusto della portata principale,
limitandosi a caratterizzarlo. Il risultato finale è indubbiamente promosso, proprio grazie a questi saltuari tocchi di colore e ad alcune battute date in modo un po’ più grezzo, che ben si sposano con l’ambientazione e l’umore di Full Throttle. Come ben si sposa il contributo portato nelle casse dalla band
The Gone Jackals, che presta su licenza alcuni dei suoi brani andando a dare carattere alla colonna sonora, una piccola perla anche grazie al loro contributo.
L’extra più gradito? Il commento degli sviluppatori
Il tutto, in parallelo al lavoro di rimasterizzazione visiva (che ha portato il tutto dai 4:3 tipici dell’epoca ai 16:9 dei nostri giorni, ridisegnando a mano le varie scene e rendendo più omogenee tra di loro le sezioni bidimensionali e quelle 3D) è stato ovviamente rimaneggiato e messo su in
una versione ad alta fedeltà. Impossibile, anche per i meno audiofili, non accorgersi della differenza: basta premere sul touchpad per passare dal look rimasterizzato della produzione al look più vintage dell’originale e confrontare la resa audio tra le due versioni:
il lavoro di pulizia c’è ed è evidente, non dovendo più sottostare a limiti tecnologici di 22 anni fa. Infine, il tutto è impreziosito da qualche extra come il jukebox in cui riascoltare le tracce audio (anche qua, potendo scegliere tra l’Hi-Fi moderno ed il Low-Fi originale), una galleria di bozzetti che mostra una parte del dietro le quinte del progetto e soprattutto la possibilità di fruire dell’esperienza col
commento degli sviluppatori scena per scena. Aggiunta non da poco, ad uso e consumo del pubblico cui facevamo riferimento in apertura e perfetta scusa per
spararsi una run extra dopo aver completato l’avventura una prima volta: ne vale assolutamente la pena, visti gli aneddoti e le spiegazioni sciorinate da Tim Shafer e i suoi in questo backstage.
Verdetto
8.5 / 10
Non ci metto certo bocca là!
Commento
Pro e Contro
✓ Un pezzo di storia
✓ Ottima rimasterizzazione
✓ Avventura grafica sui generis...
x ... Che proprio per questo non potrebbe piacere a tutti
#LiveTheRebellion