Detroit: Become Human conferma che David Cage è il Dan Brown del videogioco.
Detroit: Become Human ribadisce – forse per l’ennesima volta – una cosa: David Cage non è né un eroe né uno scalzacane. Inseguire il mito della recensione oggettiva, nel caso di un prodotto come Detroit: Become Human, è follia: è inevitabile che tutto dipenda dalla propria personale storia, dalle scelte fatte e dalle aspettative che ci è costruiti in corso d’opera. E anche dai precedenti ludici con David Cage e col suo effetto Dan Brown…
Si possono avere posizioni agli opposti sul suo operato e più in generale sugli Interactive Drama di Quantic Dream e di chi ha seguito lo studio francese, ritenerli non-videogiochi o invece spalleggiare il loro voler essere fortemente (a volte, anche forzatamente) story-driven, ma Cage non può essere elevato allo status di guru – lo abbiamo già visto, anche il suo lavoro più acclamato soffre qualche problema di sceneggiatura – e nemmeno ridotto a quello di pifferaio magico buono per ammaliare le folle e poco altro.
Detroit: Become Human è l’ennesima conferma che David Cage è un bravo sceneggiatore, vittima però dell’effetto Dan Brown
Chi ha familiarità con le opere dello scrittore americano, forse avrà già capito dove vogliamo andare a parare: Cage (come Brown) è abile nel costruire la suspance, nel tenere il giocatore incollato al controller quanto il suo collega riesce a tenerlo con il naso sopra le pagine, ma quando poi è il momento di svelare il mistero inciampa. Perché la soluzione non riesce mai ad essere pienamente soddisfacente, vuoi per qualche plot hole o perché si rimane volutamente nel vago; perché il mistero ad esperienza finita risulta sempre più interessante della sua conclusione, che lascia sempre un retrogusto di insoddisfazione.
Detroit: Become Human non fa eccezione, ed alla fine della partita – della nostra partita, quantomeno – Cage è stato trovato mancanteproprio nel mistero su cui chi vi scrive aveva scommesso.
Difficile adesso spiegare il tutto senza anticipare troppo, in un titolo poi che vive soprattutto di narrativa.
Tre personaggi: uno ben gestito, uno altalenante e l'altro un filler
Iniziamo dicendo che sì, le scelte cambiano effettivamente l’esito della partita, e per quanto in un paio di circostanze ci si appelli un po’ troppo alla sospensione di incredulità (o non si dia direttamente possibilità di scelta, facendo andare le cose per forza in una certa direzione) Detroit: Become Human ha dei finali abbastanza diversi tra di loro. In un mondo che si trova ad affrontare una serie di dilemmi etici e sociali legati alla figura degli androidi, che stanno sostituendo la manodopera umana anche nelle attività di tutti i giorni (sì, inclusa la sfera sessuale), il giocatore alla fine diventa l’ago della bilancia per decidere come si andrà a concludere il tutto su scala macroscopica, potendo influenzare l’opinione pubblica sulla tematica e anche cosa, alla fine, le due “fazioni” vogliono ottenere. Il tutto viene affrontato attraverso tre punti di vista diversi, quello del cacciatore di devianti Connor – un androide programmato per andare a caccia di tutti quei modelli che sembra si stiano “umanizzando”, in perfetto stile Blade Runner – quello di Markus (che nel corso della partita diventerà una sorta di leader per i devianti) e quello di Kara, l’androide che è stata la “scintilla” da cui poi Detroit: Become Human si è infiammato ma che alla fine, di fatto, rappresenta una sorta di riempitivo collegato solo tangenzialmente alle altre due storyline e a quanto sta succedendo a Detroit. È il segmento di Connor quello più interessante, e probabilmente anche quello scritto meglio: perché Connor alla fin fine è quello che si presta ad essere giocato in più modi diversi, quello che permette di influenzare la storia in modo più diretto e soprattutto quello più a contatto con il mistero cui si accennava sopra, legato alla fantomatica figura di ra9. E anche, bisogna dirlo, il più divertente da giocare dei tre personaggi, viste le fasi di indagine sulla scena del crimine da portare avanti nei suoi panni e quanto si può scoprire e dedurre sul campo.
Il problema? Se si decide di giocare in un certo modo per avere certe risposte, queste poi sono vaghe e deludenti.
È successo a chi vi scrive personalmente, perché voleva arrivare ad ogni costo alla verità dietro ra9. Ma in generale succede anche allargando il quadro, perché a certi aspetti non viene dedicata la giusta attenzione a video. È emblematico il fatto che una delle caratteristiche più indicative di Markus venga svelata solo dai bozzetti da sbloccare con i punti accumulati in-game o nel finale più particolare da raggiungere. Un peccato, perché per quanto Detroit: Become Human non si sia inventato nulla di inedito (se avete letto un certo tipo di letteratura, non vi sorprenderete praticamente mai) risulta comunque ben scritto, interessante e anche straordinariamente dettagliato se si guarda a quello che contorna il mondo di gioco. Il rischio di una Terza Guerra Mondiale (di nuovo USA contro Russia), i progressi della scienza e i vari dibattiti attorno alla figura dell’androide nella vita di tutti i giorni, ma anche qualche dettaglio agghiacciante sul fronte politico, visto che l’America è guidata da una presidentessa che viene dal mondo dello spettacolo e si trova a far fronte ad emergenze gravissime, dalla disoccupazione al clima. È un peccato che poi quando i nodi vengano al pettine rimangano troppe domande, resti troppo alla libera interpretazione, anche se questa volta non ci sono buchi di trama eclatanti come nella chiusa di Heavy Rain. Ed è un peccato che la storia di Markus si perda per una buona metà e quella di Kara, da un certo punto in poi, deragli quasi letteralmente.
Una narrativa ben scritta quindi, per quanto non originale e con qualche problema di ritmo… E per quanto rimangano un paio di spunti non sfruttati e un paio di forzature (non totalizzanti, questa volta).
Dal punto di vista tecnico non c’è davvero nulla da recriminare: Detroit: Become Human è un prodotto impressionante, capace di mostrare tutti i muscoli di PlayStation 4. È chiaro che, anche nelle sezioni dove sembra che l’esplorazione si faccia più coraggiosa e presente, si è davanti ad un prodotto essenzialmente su binari e molto guidato nella progressione. E di conseguenza avendo maggior controllo su quanto può succedere a schermo è facile andare ad alzare il dettaglio visivo. Ma il risultato finale è comunque davvero splendido a video, capace di emozionare davvero in virtù del fatto che la performance è convincente, dal punto di vista del realismo. Le espressioni facciali sono davvero convincenti, e se anche in qualche inquadratura si incappa in effetti nella famosa Uncanny Valley nel complesso Quantic Dream si fa valere alla grande. È probabilmente anche merito di questi aspetti se Detroit: Become Human è un serio candidato al trono di prodotto più convincente dello studio: magari non c’è il “genio” fatto di inediti ed originali di Heavy Rain, ma non c’è nemmeno la sua sregolatezza, i suoi problemi di sceneggiatura e i suoi difetti. C’è lo stesso effetto Dan Brown, ma non è appiccicato al finale e non permea tutta la produzione.
Che sia un bene o un male, sta a voi deciderlo…
Verdetto
8 / 10
Premio miglior scena Robo-LGBT
Commento
Il miglior David Cage? Dipende. Dipende da se preferite un prodotto meno originale, dal vago sapore di già visto e colmo di echi della narrativa (e del cinema) del genere, da Blade Runner a Io, Robot (sia la raccolta di Asimov che il film con Will Smith) ad un prodotto che osa, sbaglia (anche clamorosamente) ma si prende i suoi rischi pur di rivendicare una certa identità. Chi vi scrive sta nel mezzo, e quindi mette Heavy Rain e Detroit: Become Human su un piano molto simile: dimentichiamoci di Fahrenheit e sopratutto di Beyond: Due Anime e ricordiamoci di Quantic Dream per questi due prodotti, in attesa dei prossimi lavori.
Pro e Contro
✓ La storyline di Connor ✓ La sceneggiatura tiene ✓ Contesto dettagliatissimo
x La storyline di Kara x Poco originale per i fan dello Sci-Fi x A tratti inconcludente
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