Recensione Amnesia: A Machine for Pigs

Echi lontani raggiungono le mie orecchie in una notte di sonno agitato…

Il distante scricchioli del legno tenta di strapparmi dal mio riposo, mentre i miei muscoli sembrano quasi non rispondermi più, ma sono così stanco… quanto tempo sarò stato incessantemente sveglio ? e perché l’ho fatto ? Domande a cui non riesco a dare risposta con la mia mente annebbiata, mentre le coperte sopra di me sembrano così pesanti da sembrare il coperchio di una bara.

Eppure sono fatte del miglior tessuto di Londra, non vorrei altro per me e la mia famiglia…

“La mia famiglia ?” pronuncio come un sussurro, cercando di radunare i miei confusi pensieri, ma prima di poter formulare un concetto in lontananza si sentono le risate di due bambini…

“Edwin ! Enoch !” pronuncio con un tono tra il sorpreso e il disperato, “Tornate a letto!” ripeto, cercando di essere autoritario, ma come risposta solo altre fanciullesche risate, prima che Enoch aggiunga “Papà, papà, vieni a prenderci!”, lasciandosi dietro solo loro piccoli passi sul legno del corridoio.

A quel punto, cercando dentro di me la forza di volontà necessaria, scosto le coperte dal suo corpo e mi alzo dal letto, compiendo i primi pesanti passi verso la porta… “Devo trovarli, devo farlo per loro, io devo…”

L’oblio della mente

Come è facile aspettarsi dal termine “Amnesia” nel nome del gioco, il tema della perdita di memoria del protagonista è stato mantenuto integralmente in Amnesia: A Machine for Pigs , ma invece del volontario abbandono all’oblio della mente presentatoci nel precedente capitolo, lo smarrimento di Oswald Mandus è accompagnato da terribili incubi ed è a prima vista inspiegabile, così come la scomparsa dei suoi due figli dai loro letti nel cuore della notte, mentre sembrano chiamare il padre dagli oscuri corridoi dell’imponente mansione dove vivono.

Motivato dall’idea di raggiungerli, Oswald prende la sua lanterna elettrica, il suo taccuino ed inizia a seguire le voci dei suoi due figli che lo chiamano verso i meandri della villa, verso la sconosciuta oscurità che avvolge il luogo ed i suoi segreti.

Il nuovo volto dell’orrore

Procedendo nell’avventura diventano chiare una serie di modifiche al gameplay che in parte snaturano quella che era l’esperienza di gioco del precedente capitolo, in primis la mancanza dell’insanità, che ci permette di stare al buio quanto ci pare senza conseguenze e di osservare senza timore le varie aberranti creature delle profondità. Conseguentemente anche la lanterna perde di valore, e passa da essere il barlume della nostra sanità mentale ad un semplice attrezzo che serve solo ad illuminare l’area circostante, senza doverci neanche preoccupare dell’olio rimasto, dato che funzionerà illimitatamente. L’inventario è sparito, così come gli affascinanti indicatori di salute ed umanità del precedente capitolo, in un intervento che pare quasi essere un tentativo di rendere il gioco alla portata di tutti, impressione che viene sottolineata inoltre dalla scomparsa del sistema di interazione ambientale che permetteva di spostare e muovere un gran numero di elementi delle varie stanze, lasciando solamente la possibilità di interagire con gli elementi utili al fine del gameplay, come le porte ed i fusibili. Anche gli enigmi hanno preso una svolta più diretta, ed il più delle volte saranno sbrigativamente risolvibili sul posto, dato che l’oggetto che permetterà di risolverli sarà sempre a poca distanza dall’enigma, togliendo anche il piacere di spremerci le meningi nel tentativo di procedere nell’avventura.

L’importanza dell’ambiente

I ragazzi di “The Chinese Room”, ispirandosi al loro videogame “Dear Esther”, hanno cercato di far sviluppare il fattore paura più all’ambiente che ai nemici, a cui sembra quasi che spetti un ruolo di contorno vista la sporadicità con cui li incontreremo, e che peraltro, invece di ucciderci ci ficcheranno semplicemente in delle gabbie da cui sarà oltremodo semplice uscire.

Questa maggiore valorizzazione dell’ambiente, inoltre sottolineata dalla cura nella scelta delle ambientazioni, delle musiche di accompagnamento e dei rumori ambientali, è davvero azzeccata ed è in grado di provocare una certo reverenziale timore verso i luoghi che ci ritroveremo ad esplorare, luoghi che manifestano quello che può fare un uomo fortemente motivato con le giuste risorse ed un deviato senso della realtà. Corridoi segreti, immensi macchinari in grado di far tremare la terra, strani congegni di passaggio e sostanze che sembrano più opera della magia che della scienza rendono l’ambiente di gioco il vero antagonista del giocatore, e la sua costante presenza sembrerà vegliare su ogni nostra mossa ad ogni battito del nostro cuore…

Verdetto
7 / 10
Amnesia senza il mordente della novità
Commento
Concludendo, potrei dire che “A Machine for Pigs” non sia un degno successore di “Amnesia”, ma che rispettandone l’ambientazione si sia proposto di cercare di innovare la serie con dei nuovi elementi d’interesse, perdendo tuttavia di vista i fondamentali concetti di gioco che sarebbe stato giusto aspettarsi. La limitatissima interazione ambientale e la mancanza del concetto d’insanità sono due lacune quasi inaccettabili, e quindi chiunque si fosse aspettato un degno seguito probabilmente rimarrà deluso dalla perdita di quelli che erano degli elementi fondanti del peculiare gameplay di Amnesia. Chi riuscirà tuttavia ad aprirsi a questo nuovo approccio della serie, troverà un horror psicologico dalla trama affascinate, che per essere compresa deve però essere scoperta tramite il solito sistema di appunti disposti lungo il corso del gioco. Peccato solo che in fondo, in A Machine for Pigs, ci sia molto più da leggere che da giocare.
Pro e Contro
Ambienti ottimamente realizzati
Atmosfera e sonoro (doppiaggio incluso) d’effetto

x Perdita di gameplay
x Scarsa longevità

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