Cos’è un supereroe?
È un’impresa parlare di Glass obbligati a non spoilerare niente sul suo sconvolgente finale. L’ultima pellicola di
M. Night Shyamalan, terzo capitolo della trilogia iniziata con Unbreakable nel 2000 e continuata con Split nel 2016, è un crossover che inizia blando, continua disordinato, frammentato come un vetro rotto, per poi esplodere e ribaltare tutte le consuetudini del cinecomic, lasciando attoniti e frastornati. Non ha né la coerenza di Unbreakable né il ritmo e la compattezza di Split, è un film schizofrenico che sembra girato da una delle personalità di
Kevin Wendell Crumb (
sempre il folle e irresistibile James McAvoy), capace di passare da un’idea geniale a una realizzazione mediocre e prevedibile nel giro di 10 minuti. Sembra quasi di trovarsi davanti a un episodio pilota di una generica serie TV a medio budget di stampo supereroistico, eppure si ha sempre l’impressione che sotto ci sia qualcosa di più.
Sceneggiatura di vetro
Si inizia da dove ci aveva lasciati Split, con la caccia all’uomo nei confronti di Kevin e dell’affamata “bestia”, personalità dai tratti demoniaci, cannibale, incontrollabile e nuovamente carceriere di quattro adolescenti, inseguito da
David Dunn (
Bruce Willis), uomo indistruttibile guidato dal figlio
Joseph (
Spencer Treat Clark) nella sua missione di vigilante. Lo scontro è scritto, le forze in gioco si equivalgono, ma la polizia, guidata dalla psichiatra
Ellie Staple (
Sarah Paulson) si fa trovare sul posto, come se avesse previsto le loro mosse, attrezzata a neutralizzare i poteri dei due meta-umani. È da questo momento che il ritmo si fa sincopato, mostrando le conseguenze di un girato di 210 minuti strizzato in 128, quando i due che finiscono rinchiusi nell’ospedale psichiatrico dimora di un’altra vecchia conoscenza,
Elijah Price, l’uomo di vetro ossessionato dai fumetti e afflitto da osteogenesi (
Samuel L. Jackson), accusato di numerosi attentati perpetrati in nome della ricerca del superuomo. Tutto sembra artefatto, soprattutto le mire della dottoressa Staple, il cui obiettivo è psicanalizzarli e convincerli di non essere supereroi, di non avere niente di speciale se non forti disturbi della personalità. Una motivazione che mostra il fianco a un sano scetticismo, raccontata attraverso dialoghi per lo più surreali e fragili, soprattutto quando si sconfina nel campo para-scientifico – riuscendo d’altro canto almeno ad approfondire la psicologia dei protagonisti, sparando nel mucchio, vero punto forte delle precedenti produzioni di Shyamalan –
Non sarà pregiato come quelli soffiati a Murano, ma questo Glass nei suoi difetti riesce ad affascinare e diventare un particolare elemento d’arredo nella nostra memoria cinefila.
Il problema è anche che tutto si svolge tra le mura di una struttura sorvegliata in modo ridicolo, con pochissime guardie armate e un solo inserviente a turno che dovrebbe sia fare il giro delle stanze che controllare le telecamere di sorveglianza,
una roba che spezza la sospensione d’incredulità più volte. È tutto storto, incrinato, fragile come le ossa di Price, con scene d’azione abbastanza agghiaccianti nella messa in scena, finte come un incontro di wrestling, facendo venire in mente che, in effetti, nelle precedenti pellicole praticamente non ce n’erano. Anche l’estetica è abbastanza anonima, scialba, asettica. Niente a che vedere con i sotterranei adibiti ad abitazione di Kevin, con dettagli che raccontavano la sua storia sparsi in ogni scena, quasi subliminali, o con la Philadelphia quotidiana di un David Dunn inconsapevole del suo destino. A tenere in piedi tutto, anche
uno scazzatissimo Bruce Willis che dà il meglio di sé nelle sequenze inedite tagliate e incollate da Unbreakable, ci sono però McAvoy e Jackson, il primo ancora fenomenale nel dare carattere all’orda di personalità che si contendono un posto alla luce della coscienza; il secondo capace di inquietare e affascinare con una logica tanto brillante quanto bislacca, inseguendo a tutti i costi il suo ideale, risvegliare gli uomini straordinari del mondo. Ritorna anche
Casey Cooke (
Anya Taylor-Joy), superstite del primo assalto dell’Orda in Split e capace di gestire da sola sequenze ad alto tasso emotivo. Brava.
E scena dopo scena, un po’ sfiancati dall’altalena di emozioni e qualità generale, si arriva inesorabilmente verso qualcosa che non ho intenzione neanche di accennare o raccontare per sottintesi, ma ci si arriva consapevoli che
Shyamalan è il Cesarini dei registi e gli ultimi minuti sono la sua area di rigore. Quello che raccontano gli ultimi abbondanti minuti riesce a smussare anche qualche imperfezione, dando un senso ad alcune, facendone dimenticare altre perché “volemose bene, ce la siamo comunque goduta”, ma resta il fatto che se Split era la premessa a un altro grandissimo film, le attese sono state in parte disilluse. C’è da dire che comunque il caro Night è uno che gioca con le ambiguità delle sue opere,
strizzando l’occhio al B-movie e lasciando sempre il dubbio che le cose fatte male siano state messe su volutamente con sciatteria, ma insomma, la sensazione è che ad un certo punto neanche lui sapesse bene dove andare a parare, piazzando strategicamente una mina su cui sapeva che lo spettatore avrebbe messo piede. E alla fine va anche bene così, perché ci si diverte, si rimane invischiati nella vicenda, irretiti nei pensieri e nei deliri di tre personaggi fantastici e grotteschi, rendendo obbligatoria la visione dei prequel prima di entrare in sala, disponibili entrambi su
Netflix (
gloria a te), per godersi la loro nascita e sviluppo.
Un’analisi umana del supereroe che ha il coraggio di metterli in dubbio, in un’era cinematografica da essi dominata.
#LiveTheRebellion