In un mercato che premia la quantità rispetto alla qualità, proporre un’esperienza della durata di un film ad un prezzo che equivale a quello di tre o quattro biglietti del cinema è un azzardo: e Transference azzarda. L’esito?
Questa recensione di
Transference sarà estremamente soggettiva.
O meglio, premesso che praticamente qualunque recensione è soggettiva (proprio perché vissuta in prima persona), anche quando vi si dice il contrario, nel caso di Transference
non può essere altrimenti.
Perché parliamo di un prodotto – per quanto disponibile anche in una versione “normale” – che vive attraverso la
Realtà Virtuale, e di conseguenza il rapporto che si ha con la VR (scettici contro
evangelisti, vittime del
Mal di Doom o duri a morire) impatta sulla percezione del risultato finale. Ma anche perché VR a parte Transference punta tutto sulle sue atmosfere, facendo la spola tra thriller e horror per cercare di lasciare qualche segno sull’animo del giocatore, con il risultato che molto dipende anche
da come viene vissuta l’esperienza in sè e per sè.
E a voler essere più concreti, è anche una questione di
rapporto prezzo/contenuti.
Transference dura più o meno quanto un film e costa come tre biglietti del cinema. Ma trasmette angoscia e inquietudine al punto che ce ne si dimentica
Versione testata: PlayStation 4
Il
dramma è proprio questo.
Transference è un prodotto che si alimenta di sensazioni – tendenzialmente, di sensazioni negative – e che quindi parla
a tu per tu con l’animo di chi gioca, cercando di trasmettergli ansia e inquietudine. Ed in questo, per quanto il risultato finale non sia un horror propriamente detto, il paragone ludico più calzante è quello con lo sfortunatissimo
P.T. di Hideo Kojima; o meglio, il paragone che personalmente chi ha giocato
Transference e sta scrivendo queste parole può fare è quello. Specie nelle prime battute il feeling è molto simile (o se preferite, le sensazioni vissute mi hanno
riportato nel corridoio di
P.T.), ma man mano che si gioca ci si rende conto che di “sostanza ludica” ce ne sia fondamentalmente poca – ad eccezione di puzzle ed enigmi – e che tutta la produzione faccia
perno sull’atmosfera.
Inevitabile pensare a quello che sarebbe dovuto diventare
Silent Hills. Inizia tutto con una brevissima registrazione che da un minimo di contesto: uno scienziato ha trovato il modo di virtualizzare la mente umana, trasferendola in una realtà virtuale non molto diversa da quella in cui il giocatore viene catapultato. Il problema? Ha scelto come cavie non solo sè stesso, ma anche sua moglie e suo figlio.
Tranference è un Walking Simulator
Si vaga quindi per questa realtà fatta di memorie corrotte, alla ricerca del bandolo di una matassa sconclusionata e opprimente, quasi
completamente in balia di quello che succede dietro le lenti del visore. Perché le azioni che si possono far eseguire al proprio avatar virtuale sono
poche e abbastanza grezze, fondamentalmente solo muoversi ed utilizzare quello che negli anni ‘90 era il tasto azione per raccogliere oggetti o premere interruttori.
Transference è infatti qualcosa che negli ultimi anni abbiamo iniziato a chiamare – non senza un certo sprezzo – un
Walking Simulator, un’esperienza completamente story-driven dove il racconto però non è lineare ed il gameplay e comunque risicatissimo. Un filone che ha regalato perle come
The Witness ma anche diverse fregature, ma che applicato alla VR ha innegabilmente un certo fascino: sono prodotti che giocano su empatia ed immedesimazione, per cui il riuscire a convincersi di essere davvero nel gioco è un grosso aiuto per l’esperienza.
Ma Transference ci riesce?
Si, nel caso di chi sta scrivendo.
… Ma è anche un giocare bene
Partendo dal presupposto che state leggendo il parere di un sostenitore della Realtà Virtuale e che di solito non ha a che fare con prodotti così ansiogeni,
l’esperienza lascia dei segni. L’atmosfera non viene solo respirata, ma ce la si sente
addosso – anzi, a volte si ha la sensazione che questa stia inesorabilmente stringendosi
fino a soffocarci – e gli enigmi sono mediamente ben realizzati, anche senza bisogno di spiegazioni, interfacce o altri espedienti che prendono per mano il giocatore
Transference alla fine
riesce a farsi capire e a far funzionare il suo bluff.
Chiaro, con tutti i rovesci della medaglia del caso.
Giocare
Transference senza VR vorrebbe dire fondamentalmente
azzopparne il fascino. Non perché la versione tradizionale sia confezionata peggio, ma semplicemente perché con un visore addosso l’esperienza di SpectreVision è più parlante, più suggestiva, anche più pericolosa – non è un prodotto
facile da affrontare, visto quello che vuole trasmettere e
secondo me trasmette.
E VR a parte, come detto si parla di un Walking Simulator venduto attualmente a 24.99€ che si esaurisce in un paio di ore. In forte controtendenza con il mercato e con tutti quelli che – d’accordo o no – sono diventati criteri di valutazione per un prodotto, e a cui dobbiamo piegarci giocoforza anche in questa sede. Ma il consiglio al solito è sempre quello di
cercare di giocare bene, piuttosto che di giocare tanto: e Transference se siete dei fan di un certo tipo di produzioni
è giocare bene.
Verdetto
7.5 / 10
Soggettiva al massimo
Commento
Pro e Contro
✓ Da il suo meglio in VR
✓ Ansiogeno e opprimente
✓ Rapporto prezzo/contenuti folle
x Da il suo meglio in VR
x Ansiogeno e opprimente
x Rapporto prezzo/contenuti folle
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