Pensavo fosse amore, invece era solo un pugile con la testa d’anatra.
È impossibile non innamorarsi a prima vista dell’opera Bromio, piccolo e talentuoso team messicano, se si ha un minimo di senso estetico. L’atavico contrasto tra bianco e nero tratteggiato da contorni spessi, che ben delimitano luci e ombre come un invalicabile muro, cromia perfetta per un racconto noir-fumettistico di chiara ispirazione
milleriana, quasi che sia uno spin-off fan-made di
Sin City, yin e yang che descrive anche i contrasti sensoriali tra vista e tatto, dove il secondo non viene mai davvero appagato se non per inerzia, quando dopo l’ennesimo tentativo finalmente un boss finisce al tappeto, senza però far vibrare di piacere il sistema nervoso durante il percorso verso il risultato.
Pato Box è uno di quegli atleti non troppo talentuosi ma per loro fortuna bellissimi, che presto finiscono per fare i modelli o le webstar, dimenticando senza troppi rimpianti i loro poco esaltanti trascorsi sportivi. Tipo Ignazio Moser. Un apprezzabilissimo “
avrei voluto ma non ci sono riuscito” che omaggia la carriera del campionissimo Little Mac, mettendoci tanto del suo per distinguersi, ma senza mai ambire alla cintura di campione. Analizziamone i perché, ma soprattutto i “perché no”.
Versione testata: Nintendo Switch
Gli ultimi saranno Primo
Il nostro Primo è un eroe taciturno,
un esperimento dai contorni sfocati tra uomo e animali, con cui si instaurerà subito una forte empatia, essere così fuori luogo, assurdo, eppure carismatico e letale. Umano dalla testa d’anatra, campione di boxe sponsorizzato dalla potentissima multinazionale
Deathflock, un nome che non ispira fiducia, le mani in pasta in molteplici settori industriali e tanti pettegolezzi sul loro losco modo di fare affari. Un’organizzazione occulta, sporca, il cui tanfo criminale si percepisce anche a distanza di sicurezza, decisa a voltare le spalle al suo pupillo, proprio durante l’incontro più importante, prima drogandolo e poi gettato in un vicolo, accoltellato a morte, come un sacco della spazzatura, scarto organico dei loro scopi da buttare nel nero. In questo momento fatale un angelo dalla bellezza anni ’50, da sempre segretamente amata, interferisce col suo destino infame, dando inizio ad una nuova vita, che si nutre di violenza, vendetta e risposte.
Tra Frank Miller e Nicholas Widing Refn, con un leggero aroma del Suda51 di No More Heroes, Pato Box fa dell’atmosfera il suo polo positivo…
L’atmosfera eccezionale di Pato Box, oltre ad attingere dal pozzo di Sin City (
che a sua volta fa venire in mente il MadWorld di Platinum), rimanda anche al cinema tutto estetica audio-visiva di
Nicholas Winding Refn (
Drive, Solo Dio Perdona, The Neon Demon), dove lo scopo dei suoi personaggi viene raggiunto solo tramite le brutalità di cui si scoprono capaci, e Primo, così inespressivo, muto, vacuo, grottesco, diventa una caricatura ridicola ma dalla psiche deviata, pronto a tutto pur di appagare le sue domande e la sua rabbia, lasciando nel giocatore un forte senso di disagio, mistero e curiosità.
Melodie electro-minimal pungenti, cariche di tensione e aspettative accompagneranno l’esplorazione dei vari piani della Deathflock Inc., popolati da dipendenti, avventori, visitatori e delinquenti, un complesso polifunzionale che comprende casinò, ristoranti, mattatoi, laboratori, ognuno diretto e protetto da un comandante. Scenografie ricche di particolari, tocchi di classe e carattere, che fanno da sfondo a sezioni noiose, legnose, “
cheap”, talvolta pure tedianti (
il level design del casinò è da denuncia penale), ricordando certi azzardi tridimensionali dell’era 16-bit. Un purgatorio in cui accompagnare il cartonato di Primo, senza spessore in tutti i sensi ludici, dove, per citarne un “girone”, superare l’ennesimo livello agghindato di seghe circolari, presse e ghigliottine, fino a giungere, finalmente, alle ispiratissime boss fight.
Qui il team messicano ha dato il meglio di sé nel teorizzare scontri originalissimi, tesi, dove le basi atletiche di Punch Out sono state poste come fondamenta di un battle system tutto puzzle solving e senso del ritmo, in cui la velocità di reazione è la colonna portante dell’intera struttura. Ho usato la parola “teorizzare” perché, nella pratica, tutto poteva essere gestito esponenzialmente meglio. L’idea di staccarsi totalmente dall’anima sportiva del titolo Nintendo va benedetta, perché dona all’opera un’identità netta, unica, ma nello scolpire questi grandi momenti ludici, si è lasciata indietro anche tutta l’agilità che contraddistingue ancora, nonostante gli anni nei guantoni, Little Mac. Gli scontri sono rigidissimi e la memoria è decisamente più fondamentale dell’abilità, privando il giocatore della fantasia, laddove in Super Punch Out c’era una certa libertà strategica e un match, se condotto in maniera aggressiva, poteva anche finire prima del fatidico terzo round, grazie alle sue hitbox clamorose e tutta una mimica nascosta nei frame di animazione dei contendenti che strizzavano l’occhio ai più attenti.
…attraendo la negatività che il giocatore accumula quando l’opera prova a concretizzare la sua verve ludica.
E se questa differenza è parte della volontà di Bromio di percorrere la propria strada, non si può certo soprassedere sulle imprecisioni del sistema di controllo, che dovrebbe essere svizzero e infallibile. Seppur non clamorosamente sballati e rotti,
i tempi dei comandi vanno oltre la fine dell’animazione corrispondente. Input
oversize che vestono decisamente larghi sui frame motori di Primo, portandomi spesso durante la mia prova a rimanere inerme, impossibilitato a schivare o colpire nei tempi che avrei voluto, ed è un problema che vizia in modo decisivo le già poco accessibili boss fight, dove tutto gravita attorno ad un nucleo di difficoltà denso, poco incline al perdono, indottrinato al trial & error. Certo, le run perfette che si trovano su YouTube non rendono l’idea e la memoria muscolare, al centesimo tentativo, mitiga ogni difetto, ma insomma, qui più che giocare si impara una coreografia. Tutto è poi tristemente floscio nonostante la pura genialità delle situazioni. I colpi non danno alcun feedback psico-fisico, lenti come sono nella loro animazione, quasi mimetizzati nella bellezza dello stile grafico; non c’è pathos, mordente, gusto, se non quello di aver finalmente sfogato la frustrazione su un nemico, con la sensazione amara in fondo alla gola di non essersi divertiti nel farlo. L’anatra è passata di cottura, e neanche l’arancia riesce ad addolcirne il sapore di bruciato.
Pensando ad altri titoli che fanno della boss rush la loro filosofia di game design viene in mente
Furi, perfetto nella sua essenzialità, capace di fornire al giocatore le armi giuste per gestire la sua spietata difficoltà, una scienza esatta, geometrica, dove il giocatore, nella sconfitta, può biasimare solo sé stesso. Ed è un vero peccato che qui non si sia riuscito a trasportare in toto lo spirito immediato e la precisione chirurgica dell’opera The Game Baker o del caposaldo boxistico per SNES, perché Pato Box senza queste sbavature e al netto di sezioni di raccordo tendenti al dimenticabile,
sarebbe potuto essere un gioiello.
Verdetto
6.5 / 10
Questo è il pugno del quà-quà!
Commento
Pro e Contro
✓ Smoking audio-visivo d'alta sartoria
✓ Idee di base brillanti...
x ...Minate da un combat system molle e spesso impreciso
x Raccordi adventure da dimenticare
#LiveTheRebellion