Nei giorni scorsi, la redazione di
I Love Videogames ha avuto modo di scambiare due chiacchiere con
Alessandro Taini, figura italiana di spicco nell’industria videoludica internazionale. Nel ruolo prima di Concept Artist e poi di vero e proprio
Art Director di
Ninja Theory, l’artista è ormai noto per aver lavorato a titoli del calibro di
Heavenly Sword,
Enslaved: Odissey To The West e il recente
DmC: Devil May Cry, arrivando anche a lasciare una leggera traccia in
Hellblade: Senua’s Sacrifice (
in arrivo su PlayStation 4) prima di lasciare l’azienda per dedicarsi a una serie di progetti futuri.
L’artista, ormai stabilito da parecchi anni in
Inghilterra, ci ha fornito la sua personale visione sul mondo dei videogiochi, in una chiacchierata che riportiamo direttamente di seguito.
D:
Hai lavorato ad Heavenly Sword (che è stato uno dei titoli di lancio di PS3), ad un progetto come Enslaved (che aveva un’identità decisamente forte) e a DmC, che ha davvero diviso gli appassionati. Qual è stata la sfida che ricordi con più piacere tra queste?
R:
Secondo la mia esperienza, Enslaved è il più bello da ricordare. È stato il mio primo lavoro da Art Director, quindi si può dire che avessi più responsabilità che in passato. All’epoca l’Unreal Engine era usato da pochissimi, e tutti quelli che lo usavano avevano il timore che il loro gioco si avvicinasse troppo alla serie Unreal. Anche il publisher era un po’ “preoccupato”, e chi stava dietro il progetto aveva una scommessa interna: usare Unreal Engine, ma al tempo stesso rendere Enslaved “diverso” dagli altri giochi sviluppati con lo stesso motore grafico. (…) È stato un gran lavoro, anche dal punto di vista artistico: siamo stati i primi a creare quest’idea di post-apocalittico “allegro”, con colori vivaci e la natura che riprendeva possesso del mondo. Era un’idea molto originale, ai tempi, e sono contento che diversi giochi abbiano “colto la palla al balzo” poco dopo.
D:
Spostiamoci per un attimo su DmC: cosa risponderesti a quelli che lo definiscono un “falso” Devil May Cry?
R:
Più che un falso è una nostra interpretazione, ed è esattamente quello che ci ha chiesto il publisher. C’è da dire che chi impugna il pad e gioca al prodotto finale, in effetti, ignora molte delle cose che succedono in questo lavoro: se il cliente ti chiede una determinata cosa e ti paga per realizzarla, tu [sviluppatore] non puoi fare l’opposto – devi fare esattamente quello che ti dice. In più, l’idea era in linea con il nostro modo di pensare: avevamo la possibilità di creare una cosa nuova e agire più sulle nostre corde, piuttosto che ricreare quel che era già stato fatto da altri. È logico che, se l’Art Director è italiano o comunque europeo, è facile prendere determinate decisioni piuttosto che altre; in Oriente hanno un altro modo di vedere i videogiochi rispetto a noi occidentali, e così noi abbiamo pensato di inserire un mondo alternativo (un limbo, appunto) che fosse effettivamente vuoto per una ragione, dando un senso tutto nostro a quel che avevamo visto negli altri giochi. […] Anche solo per quanto riguarda i capelli di Dante, ci siamo effettivamente chiesti: “perché sono bianchi”? In quel caso, noi abbiamo pensato che Dante avesse subito un qualche shock, o che il suo potere li avesse cambiati di colore col tempo. Fosse stato per me glieli avrei fatti diventare bianchi a metà gioco, ma alla fine si è deciso di farlo “trasformare” sul finale.
E, ripeto, è quello che il publisher ci aveva chiesto: avevamo effettivamente iniziato ricreando un po’ a modo nostro la serie (all’epoca stavamo ancora finendo Enslaved), magari prendendo Dante e cambiandogli semplicemente la giacca; però poi Capcom ha preferito che lavorassimo su qualcosa di diverso, e così è stato. Abbiamo iniziato a pensare non tanto ai giochi della serie passata, quanto piuttosto ai personaggi e alle loro motivazioni; da lì in poi, il passo è stato breve.
D:
Una domanda rapida e in corsa per gli appassionati: considerato che sei un amante di Cinema, è possibile che “Essi Vivono” di John Carpenter (1988) sia stato una fonte di ispirazione per DmC?
R:
Sì, assolutamente, una delle tante. Anche Tameem Antoniades, il Direttore Creativo di Ninja Theory, è un grande appassionato di Cinema, ed Essi Vivono era proprio uno dei film che ci ha inviato per trarre delle idee da utilizzare nel gioco.
D:
A questo punto mi allaccio a un’altra domanda: quali sono le tue principali fonti di ispirazione, videoludiche e non?
R:
Personalmente, io sono appassionato di fumetto francese. Mœbius, ad esempio; e penso che si veda molto in Enslaved. Ma, per spostarsi sul cinema, sono molto affezionato anche ai film di quel periodo, che per me erano molto più pieni di significato rispetto a oggi. Non so se lo avete notato, ma ormai propongono molto spesso le stesse cose all’infinito. Inventare una cosa nuova è raro e difficile, e Ninja Theory basava (e basa) molti dei suoi progetti proprio su questo principio.
D:
A proposito di Ninja Theory, parlaci un po’ di come sei giunto nel team: in che modo sei riuscito a crearti un’identità artistica nel settore videoludico?
R:
Inizialmente abitavo in Italia, a Genova. Il mio sogno era fare l’illustratore e lavorare nell’industria dei film; come ho detto, mi piacevano molto i fumetti, ma li creavo con molta fatica perché ci vuole davvero tanta passione per il fumetto e tutte le sue componenti. Mi appassionavano parecchio le copertine, piuttosto: volevo fare l’illustratore fantasy, e avevo iniziato a lavorare a qualche progetto in Italia (anche se non vedevo molti risultati). La prima copertina che feci fu per la Sperling & Kupfer, ormai parte del Gruppo Mondadori; e anche la Mondadori stessa mi contattò per qualche lavoro, ma non riuscimmo mai a far nulla. […] Qui in Inghilterra è proprio un altro mondo: non è importante da dove vieni o che età hai, ma quello che sai fare. Londra e le grandi città sono mondi a sé, e collaborano parecchio con i talenti stranieri; dunque sono arrivato a Londra, ho provato, e dopo tre anni di fatica (passati soprattutto a lavorare in vari Hotel) ho imparato da me a lavorare con la grafica digitale, portandomi sempre dietro il mio portfolio. Ho fatto anche concept e storyboard per un film indipendente, ma erano lavori molto piccoli da inserire semplicemente nel curriculum; poi, quando ho avuto un po’ più di esperienza, i Ninja Theory (all’epoca Just Add Monsters) furono gli unici a chiamarmi.
Non avevano mai avuto un concept artist, e hanno probabilmente visto in me qualcuno che poteva crescere con loro; e così è stato, è proprio con loro che ho imparato a usare il digitale. Il Lead Artist dell’epoca mi ha seguito molto nel mio percorso, e piano piano da Concept Artist sono diventato Senior e poi Art Director nel giro di tre anni.
Ho avuto fortuna perché Ninja Theory era ancora uno studio piccolo. Consiglio a chiunque voglia iniziare a lavorare nel settore di partire dagli studi di dimensioni ridotte, giusto per fare un po’ di esperienza prima di puntare a software house un po’ più grandi.
D:
Sappiamo che hai lasciato Ninja Theory per dedicarti ad altri progetti; nonostante ciò, c’è qualche titolo (magari un seguito di un tuo vecchio gioco o anche un’IP consolidata) su cui ti piacerebbe lavorare in futuro?
R:
Mi piacerebbe molto lavorare su un seguito dei miei vecchi lavori, anche se non credo che succederà. Secondo me, è un peccato che non abbiamo mai realizzato i sequel dei nostri giochi; e credo sia il motivo per cui non hanno riscosso così tanto successo: se si analizza anche Naughty Dog, non è che il primo Uncharted abbia fatto chissà quale successo; è stato il secondo a consolidare, e credo che un Enslaved 2 sarebbe stato “da paura”. Avevamo delle idee spaziali in mente, ma purtroppo non si è fatto; così come non si è fatto un secondo Heavenly Sword, o – al momento – un secondo DmC.
Personalmente, però, adoro tantissimo i giochi come Journey e That Game Company in generale. Fanno cose “piccole”, è vero, ma il loro approccio artistico ai giochi mi attira tantissimo.
D:
La prossima domanda è quasi spontanea: sei anche un giocatore?
R:
Sì, non tantissimo ma lo sono. Gioco solo a quei giochi che mi ispirano particolarmente, in cui vedo una storia interessante o un’esperienza (artistica o meno) che mi scuote nel profondo. Come la serie di Uncharted e, appunto, Journey, per esempio.
D:
Se dovessi dire un titolo che potrebbe essere il tuo “Gioco dell’Anno” per il 2016?
R:
Se dovessi sceglierne uno, anche se deve ancora uscire (e non vedo l’ora), sarebbe The Last Guardian. Per me è il gioco perfetto: anzitutto, è un titolo senza grandissimi effetti speciali e basato interamente su due personaggi, e mi attira un sacco nella sua semplicità e nel suo realismo. Ho visto alcuni video, ed è incredibile come Trico reagisca proprio come un animale vero: non puoi prevedere esattamente quello che farà, perché si distrae anche se vede semplicemente qualcosa che si muove. È difficile trovare aspetti del genere in un videogioco.
E poi, come già detto, sono anche un grande appassionato di Uncharted.
D:
E proprio a proposito di The Last Guardian e della sua “artisticità”: la crescita del mercato indie negli ultimi anni ha portato alla luce un dibattito, tra l’utenza, sui videogiochi come “forma d’arte”. Qual è la tua opinione in merito? Da Art Director, pensi che un videogioco possa essere considerato “Arte”?
R:
Io dico che è semplicemente “Arte e basta”. [ride] Personalmente sono stato a molte conferenze (alla GDC o in altri posti), e mi sono trovato d’accordo con l’Art Director di Monument Valley, un gioco mobile che ha avuto molto successo praticamente senza marketing. Per un semplice motivo: perché è bello visivamente, perché attira visivamente. Loro postavano uno screenshot su Facebook, e quello era il loro marketing. Hanno basato il gameplay sull’arte, cercando di creare un incastro perfetto tra Arte e formula di gioco.
Se, come succede spesso, crei semplicemente un greybox con la formula di gioco e chiedi a un artista di riempirlo con l’arte, allora il lato artistico “abbellisce” il gameplay. Se, invece, si cerca di far incastrare per bene le due cose tra loro (come in Journey), allora si ottiene un ottimo risultato. È chiaro che devono funzionare entrambi: non può andare bene un lavoro solo artistico, né un gioco interamente basato sul gameplay.
[…] Secondo me, questo procedimento deve iniziare nel Brainstorming. In DmC il tutto ha funzionato perché sapevamo dall’inizio che sarebbe stato un gioco di quel tipo, ed è diventato così bello che, anche se per alcuni era “esageratamente surrealista”, è riuscito a costruirsi da solo una sua identità particolare. Tra l’altro, inizialmente non era stato pensato dai game designer che le piattaforme sospese potessero essere parte del gameplay, e io stesso non ne avevo idea; quando ho creato quelle immagini surreali, loro hanno suggerito di utilizzare le piattaforme delle mie immagini come parte del gioco stesso. In quel modo, l’Arte si è unita perfettamente al gameplay.
D:
Visto che abbiamo parlato di indie: voi di Ninja Theory avevate definito Hellblade un “indie tripla A”. Cosa intendevate?
R:
[Ride] Questa è tosta.
In realtà volevamo dimostrare che un gioco di alta qualità potesse essere realizzato anche con pochissime persone, sfruttando gli elementi giusti. Ci siamo chiesti: “perché non creare un gioco che costi meno, con meno lavoro e meno persone ma mantenendo alta la qualità?”; quindi, in sostanza, mantenere il livello qualitativo dei Tripla A senza dover per forza puntare su un gioco lunghissimo che costi 40 sterline / 50 euro.
D:
Immagino tu non possa sbilanciarti sul periodo di uscita di Hellblade, giusto?
R:
No, no, non mi sembra il caso. [ride] Quando lavoravo ancora con [Ninja Theory] c’erano già delle belle idee in cantiere, poi chiaramente sono cambiate alcune cose col tempo. Contemporaneamente lavoravo anche ad una serie di altri progetti, e quindi ho pensato che, dopo 12 anni, fosse arrivato il momento giusto per dedicarmi ad altre cose.
D:
A tal proposito, hai qualche progetto per il futuro?
R:
Sì. Ho lavorato con Riot Games per 7 mesi: era una cosa nuova per me, ho lavorato a distanza andando alla sede soltanto due volte. Adesso sono impegnato su altri progetti, ma è possibile che fra un mese possa già iniziare una nuova avventura.
D:
Abbiamo quasi finito. Da addetto ai lavori, cosa pensi della “Generazione di mezzo” di PlayStation 4 Pro e Project Scorpio?
R:
Penso che vogliano puntare tutto sul VR. È probabile che tra pochissimo tutti i giochi supportino PS VR, Oculus o quei visori lì. Sicuramente si punta a una maggiore potenza hardware. […] Le generazioni di mezzo sono già iniziate da un pezzo, prima con Apple e ora anche nel mercato console. È il mercato ad essere cambiato, è diventato più veloce: prima ci volevano anni e anni prima di un’evoluzione, adesso è solo questione di pochissimi mesi. Non ci si può più confrontare con il periodo di PlayStation 1 e Nintendo 64; la gente spende volentieri i soldi sulle novità tecnologiche, e in più l’avvento dell’hardware VR deve aver spinto le case produttrici a pensare a un hardware più performante già a metà della generazione attuale.
D:
E per quanto riguarda Nintendo Switch? Ti piacerebbe sviluppare qualcosa per quella console, prima o poi?
R:
Indubbiamente il concetto alla base è interessante. Moralmente, il fatto che avrò in mano un altro oggetto per giocare che mi distrarrà dal quotidiano mi fa un po’ paura. C’è già il telefonino che mi distrae ogni due secondi, le app sull’orologio… Lasciateci un attimo di respiro! [ride]
Però sì, il concetto è molto interessante e molto bello, perché portarsi dietro i giochi da salotto è effettivamente una grande idea e poterli riportare in casa quando si vuole lo è ancora di più. Di sicuro sarebbe bello sviluppare qualcosa per Nintendo: mi è sempre piaciuto il loro modo di fare giochi, molto pieno di gameplay e parecchio old-school. Sarebbe una sfida, anche perché i giapponesi sono sempre aperti a nuovi talenti dall’Europa. Secondo me, però, dovrebbero iniziare a pensare a dei giochi che soddisfino un po’ anche gli europei, e non solo una enorme fetta del pubblico giapponese. Mario ormai l’abbiamo visto in tutte le salse, sarebbe interessante vedere qualcosa di nuovo.
D:
Per concludere, spostiamoci su una domanda un po’ più complessa: recentemente, uno dei nostri redattori ha scritto un articolo sul caso della Brexit, speculando su cosa possa succedere all’industria videoludica futura in Gran Bretagna. Qual è la tua opinione sull’argomento?
R:
Sì, è vero che potrebbero esserci dei cambiamenti nell’industria videoludica, ma lo stesso discorso vale anche per molti altri settori, come ad esempio l’industria dei film: un sacco di italiani lavorano nei film, a Londra, anche nelle case più famose (come Double Negative per gli effetti speciali, che è quasi tutta italiana). Secondo me però non succederà nulla: dipende molto dalle regole che studieranno, ma – a quanto dicono – chi è stato più di un certo tempo in Inghilterra non avrà troppi problemi. Non cambierà nulla per chi è già all’interno, ma potrebbe essere più “difficile” per chi vuole entrare, nel senso che sarà necessario il passaporto, si dovrà ottenere il visto per il lavoro come in America e cose del genere.
È più un fattore economico, che riguarda in prima persona gli economisti: molti dicono che, visto che la sterlina ha perso il 30% rispetto all’euro, magari il fatto che tutto costi di meno qui potrebbe favorire molte industrie per quanto riguarda il budget, tanto nel Cinema quanto nei videogiochi.
D:
Bene, Alessandro, abbiamo finito. È stato un immenso piacere, grazie per il tempo che ci hai concesso!
R:
Figurati, piacere mio. Tra l’altro, dico una cosa che non ho ancora annunciato in giro: se tutto va bene (incrociamo le dita), dovrei pubblicare a breve un libro “The Art Of…” con tutti i miei lavori da Heavenly Sword a DmC. Uso il condizionale perché è ancora tutto da vedere e non c’è niente di sicuro, ma sarebbe bello riuscire a mettere insieme tutto quanto per creare un libro del genere. La prossima volta che ci sentiremo, magari, parleremo proprio di quello.
D:
Sono sicuro che sarebbe molto interessante parlarne in un futuro. Grazie ancora per la chiacchierata!
R:
Grazie a voi.
Vi lasciamo con una breve galleria di immagini che raccoglie alcuni dei lavori di Alessandro Taini, rimandandovi al suo
sito web ufficiale per una serie di immagini più completa:
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