Gabriele Cuscino

Speciale Rappresaglie sulla rappresentazione

Come sopravvivere a un mondo ostile alle infinite diversità e moltitudini dell’umanità (videoludiche e non)

In un’intervista rilasciata alla CNN[1], la scacchista Anna Cramling, Maestra FIDE femminile e content creator, ha parlato di cosa significhi essere una donna nel mondo delle competizioni internazionali di scacchi. Stiamo parlando di una disciplina con oltre un migliaio di anni di tradizione sulle spalle, che esiste in un contesto internazionale, che attraversa culture e società diverse. Anna ricorda di aver partecipato ad alcuni tornei in cui, tra oltre trecento elementi, vi erano poco più di cinque donne. In altre situazioni, il suo avversario (maschile, chiaramente) le ha rivelato che per le oltre quattro ore di partita non è riuscito a staccarle gli occhi di dosso. Infine, in un torneo ufficiale, è stata approcciata da uno dei membri dell’organizzazione, che l’avrebbe accusata di essere una distrazione per tutti i partecipanti maschili a causa dei suoi short – cosa che l’ha spinta a rimanere confinata nella sezione femminile. Ma, come se non fosse abbastanza, è stata anche oggetto di molestie sessuali da parte di un altro partecipante a un torneo, assieme ad altre giocatrici.

Anna Cramling
Seguendo queste dinamiche, è facile desumere perché esistano poche donne nel mondo professionistico degli scacchi, e ancora meno tra i Gran Maestri, che ammontano al 2% circa in totale. E, se si può arguire che vi siano altre cause, è anche vero che moltissime di queste “altre” cause corrispondono a livelli di segregazione mentale di stampo patriarcale e discriminazioni dovute a misoginia – manifesta o meno.

Questa breve storia triste è necessaria per dimostrare che anche in un ambiente ludico conclamato come quello del mondo degli scacchi, esiste una grande differenza, un enorme peso che si attribuisce al genere di appartenenza. E il discorso sul genere è estendibile a ogni categoria a scarsa rappresentazione – forse indebitamente detta “minoranza”. Quello che stiamo andando a tracciare nell’ambito del mondo videoludico, la narrazione che stiamo per raccontare, è tesa a dimostrare che questi elementi sono persistenti e comuni in moltissimi ambiti della società umana, e che hanno delle dinamiche che si ripetono, sempre uguali. È una composizione ad anello, per esempio, quella delle donne, della popolazione queer, di chi è disabile o di origini etniche o culturali non allineate alla maggioranza, che le vede intrappolate in una duplice partita: quella nel mondo del loro video gioco preferito e un’altra, ben più ardua, contro l’intero mondo che vi si trova intorno.

La rappresentazione

E perché pensi che non sia importante, ma invece è fondamentale

Al contrario del più antico mondo degli scacchi, nell’ambito videoludico i dati ci suggeriscono che, per esempio, le giocatrici ammontano a un numero variabile negli anni dal 45% al 52%[2], in diverse proiezioni statistiche. Questi dati sono spesso snocciolati in ogni discussione che riguarda la rappresentazione di genere, ma è anche giusto riportarli costantemente, come anche ricordare che nel corso della storia di questo medium giovane, la presenza femminile come consumatrici è sempre stata molto alta. Ma allora perché c’è ancora bisogno di rinforzare la rappresentazione all’interno delle produzioni? E soprattutto, perché molti pensano che non sia affatto necessario ma anzi forzato? Perché la presenza femminile viene accolta come un atto ostile e le scelte degli sviluppatori in merito considerate come politiche o, addirittura, “woke”?

Dal sito “Statista”, questo grafico mostra la suddivisione maschile e femminile della demografia statunitense della popolazione di videogiocatori, in un periodo compreso tra il 2006 e il 2023.
Facciamo un passo indietro, perché il problema odierno riguarda anche cosa si intende per “rappresentazione”. La critica videoludica e professoressa Adrienne Shaw[3] suggerisce che il discorso intorno alla rappresentazione nei video giochi vada riconsiderato e trasformato, in rapporto all’utenza, all’industria e alle conversazioni accademiche. Se il contenuto dei video giochi cerca di integrare la rappresentazione di genere, l’utenza è spesso incapace di assimilare questo discorso, per mancanza di strumenti utili alla sua comprensione – in sostanza, di educazione al problema. E ciò che non si comprende, molto spesso, è subito tradotto con la lente dell’ostilità. Qualcuno sta cercando di cambiare il mondo in qualcosa che non ci piace, e immediatamente si passa alla corsia della difensiva.

Malgrado i numeri, la presenza femminile viene identificata come un’invasione di uno spazio che viene percepito come esclusivamente mascolino

Sempre Shaw, definisce i video giochi il medium con la minor tendenza progressista nel campo della rappresentazione, nonostante la sua relativa giovane età e il suo appellarsi soprattutto alle nuove generazioni – spesso più ricettive verso le tematiche sociali. Studi recenti[4] dimostrano che, malgrado i numeri, la presenza femminile viene identificata come un’invasione di uno spazio che viene percepito come esclusivamente mascolino. I video giochi, dunque, assumono una dimensione maschile e, aggiungiamo, caucaso-eteronormativa. È una narrativa che fa comodo alla vendita del medium, al marketing, ma è anche parte di fenomeni più ampi, come le recenti ondate di tossicità dell’alt right occidentale, la crociata artificiale contro cancel culture, politically correct e woke, e casi di emarginazione sociale che sfociano nell’estremismo, come il fenomeno degli Incel. Tutti questi elementi giocano una parte importante, di cui parleremo a tempo debito, perché gli argomenti sono tanti e complessi.

Sulla presenza femminile considerata una minaccia di uno spazio culturale mascolino e confinante con la concezione del tempo libero (una problematica sociale molto antica) abbiamo avuto delle recenti manifestazioni che ne hanno confermato il saldo ruolo nel discorso sulla rappresentazione.

Il 13 dicembre 2024, durante la serata dei Games Awards, è stato presentato il primo trailer dell’atteso quarto capitolo della saga di The Witcher. A sorpresa di molti (o meglio, di chi non ha prestato attenzione) la protagonista del trailer e, molto probabilmente anche di tutto il nuovo titolo, è una donna: Ciri, la figlia adottiva di Geralt di Rivia.

L’intenso trailer di “The Witcher IV”
Questa rivelazione ha fatto emergere, ancora una volta, un fiume di bile e di aggressività nei confronti degli sviluppatori e del titolo stesso – entrambi colpevoli di aver deluso delle aspettative. Il nuovo capitolo viene dunque condannato a delle presunte logiche conseguenze commerciali, che danneggerebbero fatalmente l’intera saga di The Witcher. Gli sviluppatori, i CD Projekt, vengono dichiarati “woke”, e la presenza di una donna come protagonista un vero e proprio tradimento dei seguaci della saga. Una moltitudine di video e commenti ha infine costretto CD Projekt a rilasciare una dichiarazione sulla scelta optata.

“È sempre stata la storia di Ciri, iniziando dalla saga letteraria. È un personaggio fantastico, di grande spessore. E, ovviamente, abbiamo già dato il nostro addio a Geralt come protagonista nel capitolo precedente. Questa, dunque, sarà la continuazione. Credo che, parlando a nome di tutti, è come abbiamo sempre pensato che fosse. È sempre stata la sua storia [di Ciri].”

Nel capitolo precedente, The Witcher III, è possibile affrontare un percorso che porta a un finale tra i tanti, ma i cui contenuti sono imprescindibili e, ora lo sappiamo, anche canonici. È l’epilogo in cui Geralt vince i suoi leciti dubbi sulla scelta di Ciri di seguire quella che ne appare la vocazione: diventare una witcher. Geralt si spinge anche fino a farle forgiare una spada d’argento con rune magiche – che ricordiamo, è l’arma necessaria a uccidere i mostri nel mondo di The Witcher. Il cerchio dunque si chiude, con un quarto capitolo che è l’infallibile continuazione canonica di un percorso limpido ma anche datato – iniziato con i libri di Sapkowski e proseguito con i capitoli videoludici – in cui Ciri è la protagonista della narrazione, che viene vista dagli occhi di Geralt. E mai il contrario.

Nel finale canonico di The Witcher III, Geralt guida Ciri nel cammino da witcher.
Fallire nella comprensione di un testo è una delle parti di questa dinamica di tossicità che è seguita alla pubblicazione del trailer. È uno schema ricorrente, che lascia traspirare un odio non superficiale, ma radicato, che non tarda a infiammarsi quando emerge dal sottopelle. È una conferma che questo spazio, quello delle narrative videoludiche, viene percepito come territorio esclusivo di una frangia di utenti particolare. Citerò spesso Vera Gheno in questo articolo – una sociolinguista il cui lavoro reputo fondamentale per capire le dinamiche di comunicazione e percezione della società delle nuove tecnologie. Lottare per il proprio benessere non deve passare sulla pelle degli altri e, molto spesso, ci troviamo di fronte a ondate di odio quasi stordenti, che vogliono annientare una categoria per far sì che la propria ne sia beneficiata. E, permettetemi lo scioglilingua, riporto il suo riportare le sagge parole di Federico Faloppa: i diritti non sono una coperta corta. Se estendiamo i diritti a qualcuno non li tiriamo via a qualcun altro.

La rappresentazione segue anche questo corso; si tratta di un’estensione, di ampliare la visibilità di chi è invisibile, di dare la voce a chi non ne ha, per permetter loro di raccontarti la loro storia e di farne parte. Vogliamo che il campo delle opzioni di gioco sia il più ampio possibile, per far sì che tutti possano finalmente sentirsi accettati nel famoso cerchio magico – un insieme che per sua natura deve accogliere, non escludere.

L’estetica del problema

E perché ti senti ancora offeso dalla sola esistenza di Aloy

La problematica di Ciri protagonista di The Witcher IV non si ferma qui. Purtroppo, si interseca con un’altra tematica ormai famigerata, la cui velenosa vena corre per tutta l’industria da tempi immemori. Si tratta della percezione dei corpi, attraverso la lente dell’immaginario collettivo di stampo patriarcale.

Un tipico esempio della sterile ma dannosa polemica sull’aspetto di Aloy in Horizon: Forbidden West. Molte di queste immagini sono state prese fuori contesto e in modo tendenzioso, come da un fotogramma del trailer, o in una scena in cui la visuale deformava la prospettiva. Altre, invece, sono state fabbricate ad arte.
Mi è capitato di navigare nelle torbide acque di celebri gruppi di discussione sui social, annessi a (e fondati da) altrettanto celebri content creator italiani, che sono dichiaratamente “anti-woke”. In quel coacervo di dinamiche redpilliane, ho percepito una grande frustrazione da parte dell’utenza maschile, che si sente trascinata in una guerra senza quartiere per la propria affermazione. Le voci più sature sono state quelle che hanno colto lo zeitgeist negativo per inveire contro l’aspetto di Aloy in Horizon: Forbidden West. Ne ha già parlato in modo brillante Ilaria Celli in questo articolo, a cui è difficile aggiungere altro, ma la polemica montata da un noto troll (basata su false premesse, oltre che su mancanza di conoscenze tecniche) oggi si estende anche a Ciri di The Witcher IV, e a Jordan, la protagonista dell’imminente, nuova opera di Neil Druckmann, Intergalactic: The Heretic Prophet, interpretata da Tati Gabrielle.

Tati Gabrielle (a sinistra in “Sabrina”) interpreta Jordan (a destra, in “Intergalactic: The Heretic Prophet”)
Secondo i detrattori, oltre al fatto che entrambe non sono uomini (perché questo è il punto, alla fine), il problema è nei loro tratti, che non rispecchierebbero la famigerata “femminilità” necessaria a giustificarne l’esistenza, e che mancano della “bellezza convenzionale” apparentemente legata alle possibilità di successo dei loro titoli. Se analizziamo il percorso storico di queste critiche discriminanti e spesso orientate politicamente, si può notare che hanno un fil rouge che le accomuna. Il loro bersaglio sono personaggi femminili con grande personalità, che hanno agentività sulla storia e sono padrone del flusso della narrazione senza compromessi, oltre a essere protagoniste assolute dei loro rispettivi titoli. Nel caso di Ciri, vige anche l’accusa del cambiamento estetico rispetto al capitolo precedente. L’erede di Cintra è qui più spigolosa, matura e con dei tratti volitivi ma anche estremamente realistici, soprattutto se paragonata all’aspetto più pulito e artificiale in The Witcher III. Sono cambiamenti che, sembra arido ribadirlo, sono dovuti a una direzione artistica decisa (come da tradizione della saga) ma anche al superamento delle limitazioni tecniche. Irregolarità del setto nasale, tratti più simili al fenotipo slavo, rendono il modello della Ciri moderna estremamente realistico e sfondano l’opprimente barriera di cristallo della rappresentazione distorta di genere, più legata alle mere fantasie sessuali e di potere che a un genuino percorso rappresentativo e di design.

Il nuovo modello di Ciri, in tutta la sua gloria.
È facile intavolare il medesimo discorso nel caso di Intergalactic, che ha subito critiche ben peggiori da questo punto di vista. La protagonista Jordan è stata additata come una versione estremamente mascolinizzata di una donna, atta a portare avanti la famigerata “agenda woke” e il suo misterioso piano per la conquista globale degli spazi maschili, caratterizzati da eteronormatività e classismo. Tati Gabrielle interpreta un personaggio che appare immediatamente sicuro di sé, indipendente e deciso. Il suo aspetto estetico rifiuta frontalmente ogni pretesa di compiacimento, con un character design splendidamente impudente, che rigetta l’iconografia classica della protagonista femminile oggettificata e ridotta a trofeo estetico. Jordan ha i capelli rasati e non compiace alcun canone di bellezza commerciale, patinata. I suoi tratti sono meravigliosamente grezzi ed espressivi, e trasmettono perfettamente la sua sfera interiore, anche grazie a un’ottima performance dell’attrice. È bastato questo per mandare su tutte le furie la parte della community più reazionaria. Neil Druckmann aveva già rischiato grosso con una rappresentazione di genere anticonformista, introducendo il discusso personaggio di Abby in The Last of Us II. Una mossa che non è stata perdonata, come sempre accade quando un personaggio femminile osa varcare la soglia della sua perfetta gabbia stereotipica, rifiutandosi di essere collocata dove l’oppressione storica la vorrebbe.

Seguendo lo stesso, identico schema della polemica di Aloy, anche nel caso di Jordan è stato creato un paragone fallace e tendenzioso. Nel caso particolare, ci troviamo di fronte a una “stellarbladizzazione” di Jordan, che non è soltanto fuori contesto, ma anche profondamente problematico.
In un balzo logico a dir poco strabiliante, la misoginia riguardo il breve trailer di Integalactic è stata anche giustificata retroattivamente, con il paragone con un noto e recente flop, ovvero quello di Concord, un hero shooter qualunquista che soffre di ben altri problemi (ormai endemici del genere, si direbbe). Riguardo la faccenda di Concord, ci basta citare le parole illuminanti di Jason Schreirer:

“Ogni volta che un gioco live-service senza arte né parte o privo di sostegno del passaparola fallisce nel penetrare un mercato ormai saturo, le più fastidiose persone sul pianeta emergono per puntare il dito contro la diversità.”[5]

I detrattori, questa volta, hanno cercato di affidarsi a una logica migliore del “non mi aspettavo di vedere una donna protagonista, sono in stato di shock, quindi reagisco con violenza.” Hanno infatti messo sul piatto la rappresentazione, soprattutto tra i moderati. La frase ricorrente è “Come uomo, non mi sento rappresentato da una donna”. Si tratta di una tipica fallacia di falsa analogia, in quanto nel mondo dei video giochi soprattutto, siamo spesso chiamati a interpretare i personaggi dalla natura e dai generi più disparati. Nessuno, del resto, si sentirebbe perfettamente rappresentato da un porcospino blu, da un blob o da un petalo di un fiore – tutti personaggi principali di vari titoli che conosciamo più che bene. Nelle argomentazioni che ho incontrato spesso durante simili dibattiti, è stato tirato in ballo l’archetipo della donna forte, un trope mediatico ormai sfruttatissimo dopo l’ondata di pinkwashing di stampo neoliberista che è stata portata dalla risacca del #metoo. Per chi non lo sapesse, il pinkwashing è, nelle parole della scrittrice e giornalista Jennifer Guerra, una banalizzazione dei principi del femminismo, atta ad asservire gli scopi più disparati, come quelli commerciali (sfruttamento mediatico e adozione come strategia di marketing).

“Il femminismo è una teoria e un movimento, non una tendenza. […] L’ipotesi che il femminismo migliori, diventando più cool, o più simpatico, o meno incazzato, è un’ipotesi che contraddice profondamente la politica femminista, che rifugge dall’idea di un progresso lineare e finalistico.”[6]

Un esempio perfetto di pinkwashing? Eccolo, in tutta la sua gloria: KFC e la sua campagna per la cura contro il cancro al seno, che nel 2010 ha reso più celebre il concetto. Quando il capitalismo, cioé, si appropria dei movimenti di liberazione che dileggia per fare soldi.
Chi fa pinkwashing, come anche chi opera il race swapping arbitrario ha chiaramente altri fini rispetto alla rappresentazione. Il risultato finale potrebbe non essere negativo di per sé, ma è comunque finalizzato alla commercializzazione, quindi in parte svilisce e mercifica, oltre che inasprisce il dialogo perché fornisce armi involontarie ai detrattori. Per fare un esempio molto semplice, chi cambia l’etnia ad Ariel ne “La sirenetta” è qualcuno che non vuole scrivere una vera storia di rappresentazione e vuole vincere facile. Ciononostante, la maggior parte delle critiche al riguardo sono comunque razziste, a prescindere dalla bontà del prodotto e dell’intento e di quante persone si identificheranno nel nuovo status della protagonista.

Tornando all’archetipo della donna forte tirato in ballo come argomentazione-egida spesso anche da chi non capisce che potrebbe essere un paravento, ne troviamo l’esempio chiave in Lara Croft. È questo, infatti, il nome più ricorrente tra esponenti generazionali inclusi nell’intervallo boomer e generazione X, che porta nella conversazione problematiche non indifferenti e del tutto in contrasto con l’attualità.

Lara Croft, l’eterno ritorno

E perché se citi sempre Tomb Raider quando si parla di rappresentazione non hai capito bene il problema

Lara Croft è l’elefante nella stanza, diremmo oggi. Classicamente, il personaggio creato da Core ed Eidos negli Anni Novanta è sempre citato come esempio di rettitudine antiwoke, di femminilità senza la fastidiosa retorica femminista, e di realismo (incredibile, ma vero).

Lara Croft, nella sua versione aggiornata al 2015, “ricostruita”, come definita da alcuni, dalle ceneri di un’epoca differente.
Il problema di Lara Croft risiede nella differenza tra identificazione e interpretazione. Non è possibile, realisticamente, trattare ogni sfaccettatura sociologica, psicologica, culturale ed empatica del significato di “identificazione”. Possiamo limitarci alla sua applicazione al mondo mediatico, quindi tra letteratura, cinema, video giochi e altro. In tutta la saga di Tomb Raider prima del reboot del 2013, siamo chiamati a “far compagnia a” a “giocare con” Lara Croft, come si evince dalle sinossi e dai trafiletti marketing e delle press release. Non si tratta di un personaggio creato per rappresentare una categoria, per dare voce a una grande parte di pubblico femminile giocante, ma fa appello alla sua caratteristica sessualizzazione per attirare il pubblico maschile. Lara Croft è un contenitore di elementi marketing creati per rompere uno schema di monotonia (protagonista maschile in ruoli action) e così vincere una nuova nicchia di mercato. Un progetto che ha grande successo, ma che non ci ha aiutato a sfondare il famigerato tetto di cristallo.

Queste premesse rimuovono il primo corso dell’esistenza di Lara Croft come emblematico per la corretta rappresentazione di genere, e la rendono un vero e proprio prodotto dedicato al pubblico maschile, per le esigenze maschili e svuotato di ogni possibile altro significato e importanza. È pertanto irrilevante usarla come argomento fondante nell’odierno dialogo sulla dimensione dei personaggi femminili dei video giochi attuali.

Questa è una tipica campagna pubblicitaria del vecchio corso di Tomb Raider (nel caso particolare, il secondo episodio, 1997). Come è possibile evincere da molti elementi, chi continua a far riferimento a questa specifica iconografia nel dialogo attuale sui personaggi femminili nei video giochi diventa immediatamente irrilevante.
Dal 2013, con il reboot della saga di Tomb Raider, si passa dalla narrativa appena discussa a una rappresentativa. Lara Croft è finalmente un personaggio da “vivere”. Al suo lancio, le parole saranno diverse “Vivi l’intensa storia delle origini di Lara Croft”. Il personaggio torna sul banco dei concept artist, che la rimodellano in modo realistico, lasciandosi alle spalle la pesante eredita di oggettificazione. La squadra narrativa decide per delle tematiche più mature e rimosse dalla mera estetica che deve vendere un prodotto a un pubblico preciso. Questo nuovo corso del personaggio viene, nemmeno a dirlo, accolto con immense critiche, ma il “woke” non viene citato ancora con la frequenza odierna, perché è un concetto che deve ancora essere pienamente concertato e assemblato, come una bomba all’idrogeno che l’alt right sta per sganciare su ogni tipo di dibattito che riguarda la nostra società, su ogni campo possibile dello scibile umano.

Che cosa sarebbe il woke?

E perché pensi che esista veramente, ma Babbo Natale no?

Aloy, Ciri e altre come loro, rappresentano non soltanto una volontà narrativa o una sfida di character design. Portano il peso fondamentale della liberazione dei personaggi femminili dal male gaze, lo sguardo del maschio che condiziona la percezione del suo soggetto. Agghiaccianti mockup che mettono a paragone il design di questi personaggi con una loro versione alternativa da Stellar Blade (potremmo dire), sono la spia di una violenza a tutto tondo, che vuole piegare la visione creativa autoriale a manganellate, verso una propria fantasia fanatica e feticizzata.

La protagonista di Stellar Blade. Qui, è anche possibile constatare come la scelta della visuale sia implicitamente serva del male gaze. Attualmente, Stellar Blade è uno degli esempi spesso citati da una specifica frangia di giocatori e definito “anti-woke”.
Qui andiamo oltre il concetto di morte dell’autore, che va inteso nella sua ragion d’essere poetica e accademica. Qui, stiamo scivolando senza freni in un mondo in cui una visione pornoestetica dell’arte sovrascrive ogni intento e intenzione, attecchendo su un terreno fertilizzato dagli estremismi, dalla misoginia e dal bisogno onnivoro di vendere. E si sa che, come avviene al di fuori del nostro contesto videoludico, ogni tentativo di sfidare i giganti conservatori e la loro tipica relazione con il potere va etichettato e identificato. E le etichette servono per rendere più facili gli attacchi e le delegittimazioni. Ebbene, l’etichetta di cui parliamo qui è il “woke”, il termine che ho più o meno sempre virgolettato finora.

Nessuno sa identificare esattamente quando, come e perché il termine “woke” (e il suo fratellastro “politically correct”) siano effettivamente nati, ma quel che sappiamo è che spesso le origini non sono correlate all’attualità o ne sono ancillari. Rimando a ben più efficaci articoli e podcast al riguardo, che colmano nel dettaglio questa lacuna al di là dei limiti di questo articolo – decisamente di nicchia.

Chi accusa di wokismo, di cancel culture, di politically correct, non ha dati in mano, non ha argomentazioni e non sta facendo una critica oggettiva, ma vuole solo sgusciare via dal dialogo

Al di là della filologia, una certa identità politica conservatrice, tendente alla destra (estrema o meno) se si è appropriato del termine, come strumento di retorica, mantenendone il significante ma trasfigurandone il significato. Ecco perché questa terminologia va definita facilona, un’esca del discorso, un vero e proprio argomento fantoccio che serve ad avere sempre ragione in ogni caso. Chi accusa di wokismo, di cancel culture, di politically correct, non ha dati in mano, non ha argomentazioni e non sta facendo una critica oggettiva, ma vuole solo sgusciare via dal dialogo, correndo per l’uscita di sicurezza mentre i forconi e le torce ne coprono la fuga. È una parola magica, trasfigurata dal bisogno di creare un bersaglio, come lo sono “teoria del gender”, “censura del politicamente corretto”, eccetera, che scatenano reazioni a pelle, e inabissano ogni tipo di comunicazione fattuale.

È anche quello che in inglese viene definito “termine ombrello”: vengono considerati woke l’inclusività, l’attivismo, la rappresentazione di genere, l’essere queer, persino l’essere donna in certi ambiti. Woke è una serie televisiva in cui c’è un race swapping, ovvero un personaggio nero che interpreta un personaggio classicamente bianco (come nel caso di Ariel, sopracitato). È woke la normalizzazione dell’estetica femminile, non più sessualizzata. Woke è un Doctor Who femminile, o nero, o gay. Insomma, woke è potenzialmente ogni riferimento, piccolo o grande, al fatto che al mondo non esistano solo uomini cisgender e bianchi (e cattolici, spesso aggiungo io).

Missile Command: classicamente, un gioco woke, a quanto sembra.
E nei video giochi? Mi è capitato di leggere interventi online di chi  fa risalire l’inizio del “wokismo” al primo Wolfenstein 3D (1992), perché in quell’ambito uccidiamo i Nazisti. Altri, addirittura, pensano che persino Missile Command (1980) sia un video game woke, perché in quel caso abbiamo un punto di vista esclusivamente difensivo e non interventista, poiché si cerca di impedire un bombardamento nucleare.

Per esempio, The Witcher IV è stato accusato di essere woke perché si affida a una protagonista femminile invece che maschile. L’intera idea di avere un’industria che sta includendo sempre più personaggi femminili come protagoniste videoludiche è considerata woke. Stiamo parlando di un salto avanti immenso dai tempi di Lara Croft, che presentava una percentuale nettamente inferiore all’1%. E oggi? Se vogliamo seguire la percezione popolare, quel fattore che è così facile influenzare (come abbiamo già dimostrato) da politiche populiste, ci sembrerà addirittura che le protagoniste femminili siano molte, forse più dei protagonisti maschili, ormai. Ci starebbero soverchiando, come anche personaggi di etnia, genere o orientamento sessuale diversi. E invece? Stiamo parlando di un 6% circa.

Ripeto: sei percento.

In questo grafico che riflette i dati sul genere dei protagonisti dei video giochi presentati all’E3 del 2017 (un tempo non lontano da noi), si evince come le protagoniste femminili siano intorno al 7% (sulla qualità di queste rappresentazioni, ovviamente, non si può garantire nulla). Fonte: Feminist Frequency
Sono dati disarmanti, che oppongono alla percezione personale una nuova prospettiva epistemologica. Dati che, da soli, giustificano la necessità della rappresentazione e dell’inclusività e confutano ogni tentativo di strumentalizzarle bollandole con appellativi preconfezionati dai conservatori.

Ci riserviamo di avere un atteggiamento di scetticismo, inoltre, sulla qualità della rappresentazione di genere in questo 6%, perché di Aloy ce ne sono poche, ma di Eve di Stellar Blade, invece, il mercato pullula. Quindi, diremmo, è troppo? No, anzi, non è nemmeno vicino all’“abbastanza”.

Il #gamergate non hai mai avuto fine

E perché magari non credi che sia neppure iniziato?

Come si evince, è difficile sopravvivere al paradosso del woke o, meglio, di una retorica che comprime in una singola parola, in un singolo distillato di concetti, un’intera storia di discriminazioni sociali, di prepotenze e prevaricazioni, di lotta di classe e di violenza. C’è persino chi usa woke, cancel culture e tutto l’armamentario anche in ambiti di attivismo, a prescindere dal posizionamento politico. Insomma, è un’arma ingorda, che usiamo ma che dileggiamo, shakespearianamente.

Nel mondo dei video giochi, questa retorica non solo non è da meno, ma non è mai venuta meno. Concentrandosi sul discorso sociale intorno ai video giochi, che è seppur ben più anziano, possiamo ritrovarla in diversa foggia in un fenomeno che ormai dovremmo conoscere bene: il #gamergate.

Zoe Quinn (al centro) e Anita Sarkeesian (a sinistra), due delle vittime più dirette del #gamergate, mentre presiedono una speciale seduta alle Nazioni Unite, sulla violenza online.
Come ho sentito dire spesso, il #gamergate non è mai finito, e penso sia parzialmente vero nel momento in cui ammettiamo che, seppur abbia cambiato per sempre l’industria, la sua origine primigenia è ben lungi dall’essere rimossa dalla scena sociale. L’episodio del #gamergate, che ha visto una delle più grandi campagne manifeste di molestie e misoginia, fomentata dai movimenti alt right e dalle culture war combinate contro il progressismo e il femminismo, ha di certo avuto un inizio, un climax e una conclusione molto soft. Tuttavia, i suoi effetti permangono, come un fallout radioattivo che è potenzialmente ancora più dannoso dell’esplosione nucleare che lo ha originato. Con questa celebre campagna d’odio dalle conseguenze legali (e persino finita sul banco delle Nazioni Unite) abbiamo sperimentato di prima mano che il mondo dei video giochi (almeno fino a quel momento) è davvero considerato come uno spazio di espressione mascolina ed elitaria, che non ammette intrusioni di agenti considerati ostili e distruttivi come le donne, il femminismo, la queerness, la diversità e l’inclusività. Il #gamergate è ancora oggi definito da molti un movimento di liberazione e di controreazione al “terrorismo” femminista, e tutt’oggi è celebrato da movimenti suprematisti come l’MRA (Men’s Rights Activists) e usato come esempio di virtù e coraggio negli antri più oscuri e umidi di Reddit.

Per questo, sostengo che il #gamergate non sta continuando a piena forza, ma piuttosto si è sedimentato, assumendo forme viziate e normalizzandosi anche grazie a fenomeni di reazione, in campi anche ancillari (per esempio, il fuorviante e quasi del tutto irrilevante processo Amber-Depp). Questo avviene per una ragione cruciale: i problemi contro cui lotta il femminismo sono tutti sistemici e non casi isolati (“not all men”) come vorrebbero far credere le forze in gioco. Si tratta, dunque, di fenomeni che si avvinghiano alla società, all’industria, al sistema istituzionale e d’istruzione, come farebbe un’immensa bestia tentacolare, la cui reale dimensione è difficile da stabilire. Quando l’odio diventa manifesto è l’effetto più visibile di questo processo ctonio, sempre presente e pulsante nel sottosuolo.

Qui, si comprende, la critica fallisce. Il mondo intellettuale e quello dell’informazione legato ai video giochi arrancano nel fornire le risposte o le chiavi di lettura necessarie

Dopo la terra bruciata che i fenomeni intersecati del #gamergate e il #metoo si sono lasciati dietro, il mondo dei video giochi è cambiato, non quanto le vite delle persone coinvolte, ma quasi. E questo, che ci piaccia o meno. La problematica fondamentale qui è capire come. Il pubblico è spesso abbandonato a sé stesso nel tentativo di formarsi un’opinione su dinamiche sociali annesse ai video giochi e ormai troppo complesse per essere digerite senza apparati. Qui, si comprende, la critica fallisce. Il mondo intellettuale e quello dell’informazione legato ai video giochi arrancano nel fornire le risposte o le chiavi di lettura necessarie, anche se le basi sono sempre le stesse.

Antonio Gramsci scriveva:

“Il capitalismo, nella sua fase di sviluppo più avanzata, tende a creare un ‘blocco storico’ in cui le diverse forze sociali e ideologiche vengono integrate e subordinate alla sua logica di accumulazione del profitto.”

Fare una sovrapposizione di questa linea di pensiero alle meccaniche conservatrici che si sono appropriate dei movimenti di liberazione, dell’attivismo e della rappresentazione per i propri scopi non solo è facile, ma è anche d’obbligo. Abbiamo già gli strumenti per capire come giudicare quello che sta succedendo nella sfera videoludica, ma la critica (soprattutto quella immatura italiana) sembra non cogliere immediatamente questo tragico momento transizionale. Le idiosincrasie finiscono tutte nel famoso e sempre più capiente calderone del woke e del politically correct, dove verranno mescolate e rimescolate per essere servite nella confusione generale a chiunque abbia il piatto in mano e si trovi lì solo per il buffet.

È già che siamo sul tema, diamo anche un colpo al cerchio, oltre che alla botte. Quando si parla di “censura del politicamente corretto”, et similia, siamo su un nuovo livello di analfabetismo funzionale, che riguarda non solo concetti e semantica, ma che scambia ideologia con pensiero, potere politico con dialogo sociale. Non esiste nessuna centrale della censura internazionale del woke, o sede mondiale del femminismo unito, con stanze dei bottoni da dove si decide il destino del mondo. Esistono, invece, entità ben precise, potenti e con grandi mezzi politico-economici che la censura (quella vera) la praticano sul serio. Un esempio che, se non lo è ancora probabilmente entrerà nei manuali, è la nuova direttiva del Washington Post imposta dal suo padrone, Jeff Bezos, di abbandonare la lotta per i diritti e la democrazia, per spostarsi sulla promozione dell’individualismo e del neoliberismo (cavalli di battaglia trumpiani e conservatori). Si tratta di mettere il bavaglio a una delle testate giornalistiche più schierate degli Stati Uniti e rifondarne i principi all’indomani dell’elezione di un nuovo Presidente, ovvero a un fondamentale cambio di potere ai vertici.

Ecco, ora sapete cosa è davvero la censura.

A chi tocca rappresentare?

E perché pensi che il DEI sia inutile.

Personaggi femminili non sessualizzati, realistici, che almeno loro mostrano l’umanità a chi preferisce la narrazione delle donne angelo inavvicinabili e impossibili, parlano direttamente a quella metà demografica femminile che finora è stata messa a tacere da tutti: critica, industria e marketing. La presenza delle donne nell’industria videoludica è il perfetto specchio oscuro di quella della popolazione giocante: in una recente proiezione, circa il 25% (per eccesso) di chi lavora nell’industria è formato da donne. Anche qui, lo strapotere maschile si sposa con quello capitalista, unendo allo sfruttamento sul lavoro le molestie sessuali, le disparità degli stipendi e tutto il bagaglio che già conosciamo, tutti elementi che purtroppo sono stati una costante del settore.

La risposta naturale della critica ma anche dell’utenza, alla mancanza di rappresentazione con questi dati in mano è quella di integrare più esponenti di categorie sottorappresentate, come donne, queer e disabili, per poter combattere la marea e influenzare l’opinione pubblica. Se da una parte è un’idea corretta ed è lo scopo principale delle politiche DEI (acronimo di “Diversity Equity Inclusion”, ovvero “Diversità, Uguaglianza e Inclusione”), non è esattamente così semplice. Bisogna, innanzitutto, togliersi da questo dedalo etico che impone che l’onere della rappresentazione spetti solamente alle categorie emarginate. Se abbiamo solo un quarto di presenze femminili su un totale di sviluppatori (per non parlare di un 5% attestato di queer), ci si rende subito conto che è difficile che una tale minoranza possa internamente invertire la tendenza sulla rappresentazione della minoranza stessa. Ed è anche profondamente ingiusto che si gravi su queste spalle, che già portano il peso di Sisifo.

La lotta alle politiche DEI, oltre a essere un cavallo di battaglia dei repubblicani negli USA dai tempi di Reagan, è oggi portata avanti con veemenza dall’amministrazione Trump. Un paese leader nell’industria tecnologica e videoludica come gli Stati Uniti può infuenzare in modo diretto e ampio tutto il dialogo intorno alla rappresentazione.
Fonte immagine: ACLU
Inoltre, ricercatori e attivisti devono iniziare a intraprendere studi incrociati e più prominenti, che tendano a normalizzare il medium dei video giochi che, pur rappresentando la categoria dell’entertainment più remunerativa di tutte le altre messe assieme (cinema, letteratura e musica), esiste ancora in una bolla sociale e accademica ben separata dal discorso politico e dai salotti degli intellettuali. Finché tendiamo a isolare i problemi del mondo dei video giochi come esclusivamente legati alla sua sfera, sarà impossibile applicare soluzioni per combattere la discriminazione e sostenere la rappresentazione già sperimentate in altri ambiti. Inoltre, minore sarà l’esposizione, maggiore sarà l’eventualità che emarginazione e tossicità si sviluppino incontrastate. Abbiamo già visto gli effetti devastanti di questo fenomeno proprio con il #gamergate, ma anche con le ingiustizie sociali esistenti nel mondo del lavoro legato ai video giochi.

Nell’ambito delle culture wars, abbiamo poi diversi elementi che hanno iniziato a fare la loro apparizione nell’industria e che sono stati sfruttati per inquinare il dialogo sulla rappresentazione e creare contrapposizioni artificiali da cui critica e utenti devono difendersi. Gli sviluppatori di Lords of the Fallen sono l’esempio più recente di questa ricerca della polarizzazione, che emerge da una dichiarazione del loro direttore del global marketing, Ryan Hill.

“Sebbene alcuni videogiochi abbiano recentemente colto l’opportunità di inserire temi sociali o politici all’interno delle loro esperienze, è chiaro che molti giocatori non lo apprezzano.”[7]

Cosa accade se rimuoviamo il commentario sociale, il soffio artistico e la voglia di sfidare i preconcetti da un souls-like? Otteniamo Lords of the Fallen.
Qui si oppone alla fantomatica “agenda woke” un ritorno al purismo videoludico, quando non c’erano ingerenze sociali e politiche (e quindi, cose come Custer’s Revenge dove le mettiamo?). Si usa una retorica tipica, ovvero contrapporre l’utenza hardcore (“core audience” nell’affermazione di Hill) con quella casual, lasciando intuire che la prima è la più fedele all’utenza classica dell’industria, mentre la seconda ne ha inquinato i valori con politica, attivismo e altro. Questa è, ancora una volta, una fallacia di falsa analogia, per tanti motivi ma soprattutto perché recenti studi si sono interrogati su questa dicotomia, dimostrando come sia estremamente difficile identificare una netta distinzione tra hardcore e casual gamer. La definizione, finora, è basata su concetti profondamente diversi e ingenti soggettività, oltre che (e qui non deve sorprenderci) influenzata dall’appartenenza di genere. La popolazione a maggioranza maschile, infatti, tende a identificarsi nei sondaggi  nella fetta degli hardcore gamer – ovviamente, diremmo noi. Questo, secondo la scrittrice e professoressa Jennifer Malkowski[8], trasforma immediatamente questa polarizzazione in una battaglia ideologica tra generi, in cui lo spazio mascolinizzato degli hardcore gamer tende a definire (tramite ghettizzazione) quello delle giocatrici, paventando una “femminilizzazione” del medium e un suo conseguente svilimento nei valori fondamentali.

Proprio per tutti questi motivi e inquietanti segnali, le politiche DEI devono continuare a informare il dialogo sulla rappresentazione, con un’integrazione più naturale ma comunque costante. Va decostruito un modello basato sulla ghettizzazione e sull’elitismo o classismo, due fattori che sono a mio avviso in crescita nel mondo dei video giochi, per motivi di cui forse parleremo in futuro.

Con l’elezione di Trump alla presidenza degli Stati Uniti, si annuncia un vasto definanziamento delle politiche DEI in una delle nazioni principali dell’industria tecnologica, mentre l’opinione pubblica assorbe i concetti veicolati dalla nuova amministrazione che, come affermato nel suo discorso inaugurale dallo stesso presidente, riconosce solo due generi: quello maschile e quello femminile. Il risultato di questo colpo di coda conservatore, reazionario e antiprogressista, è un immediato ritorno alle origini di molte grandi corporazioni e compagnie. Conglomerati di social network (come Meta) e altre importanti aziende, hanno subito fatto dietrofront sul passato di pinkwashing, per passare da uno sfruttamento all’altro. Siamo, in soldoni, passati dai loghi aziendali arcobaleno alle dichiarazioni di Zuckerberg sull’eliminazione del controllo delle notizie (fact checking) e addirittura “depenalizzazione” degli insulti che hanno per soggetto il genere e l’aspetto fisico dal codice di condotta. Grazie a questi cambiamenti, per esempio, sarà possibile insultare chi è transgender e definire una donna una “proprietà”.

Il modo in cui ci interfacciamo con gli altri è importante come anche quello che diciamo sui social, come commentiamo e quello che trasmettiamo a chi ci segue

L’allineamento delle grandi aziende capitaliste alle politiche trumpiane è solo uno dei tanti esempi di problematiche a cascata, che si trasferiscono da medium, social e altri campi della comunicazione e dell’arte per poi influenzare la nostra società in modo indiretto ma comunque potente. Proprio per questa ragione, quello che avviene nel campo dell’entertainment, ma anche nella comunicazione, nel linguaggio, è fondamentale nel processo globale di formazione delle correnti sociali. Si passa da piccoli cambiamenti su microlivelli a influenze politiche su macrolivelli. Il modo in cui ci interfacciamo con gli altri è importante come anche quello che diciamo sui social, come commentiamo e quello che trasmettiamo a chi ci segue.

Con questo smottamento del mondo occidentale verso la corrente opposta all’inclusività, servono leggi e il supporto statale per far sì che ciò che è diritto non venga sovrascritto da un interesse puramente economico. Che non si metta, cioè, in discussione la libertà di parola e di espressione tramite il solito gioco del “non posso essere libero di insultare il prossimo, questa non è democrazia”. Finché questo supporto non esisterà, toccherà a chi crea servizi e opere imprimere questa direzione e a chi li fruisce decidere di sostenerla. E, agli attivisti e alla critica, l’ardua impresa di essere la voce della ragione, con coraggio e decisione.

Viviamo ormai in un mondo dove il pubblico è in grado di influenzare direttamente le scelte autoriali. Se questo è da una parte normale ed esiste da sempre (pensiamo alle proiezioni di film in anteprima per saggiare le reazioni del pubblico prima della distribuzione), non dobbiamo dimenticare che il pubblico, molto spesso, si accontenta e non osa. Siamo animali che per nostra stessa natura cerchiamo il familiare, la ripetizione, perché viviamo di pattern recognition, di sicure routine che sanno di sopravvivenza. Spetta agli artisti e ai creatori lastricare una nuova strada dorata verso nuovi concetti, nuove idee e, spesso, istigare un cambiamento sociale tramite una rottura. Se leghiamo le mani ai creativi per paura della reazione del pubblico al progresso, andiamo incontro a una disfatta ideologica.

La rappresentazione, l’inclusività e l’accettazione sono qui per restare

E perché le parole che scegli sono importanti?

Sono un linguista e mi occupo di localizzazione nell’industria dei video giochi, tra le tante cose. Nel mio lavoro le parole sono importanti per permettere l’accessibilità ma, riprendendo sempre una riflessione illuminata di Vera Gheno, le parole sono anche il fondamento di ogni nostro concetto, il mattone di ogni nostra relazione. Il dialogo parte proprio dalle parole e dal modo in cui le usiamo. Il linguaggio ci rende umani sì, ed è per questo che non dobbiamo rinunciarvi, diventando quindi disumani.

Spesso i nomi (morti) i pronomi, le definizioni e persino le professioni giustamente declinate al femminile, finiscono in mezzo a questo turbine di polemiche montate ad arte per creare confusione e far partire un’altra caccia alle streghe. Per poi, alla fine, dire che “comunque, ci sono ben altri problemi”. Di fronte a questi episodi di criminale benaltrismo va risposto con un “a noi i problemi piace risolverli tutti, nell’ordine che possiamo”.

Esiste un grande, eterno dibattito accademico che divide l’analisi critica del video gioco in narratologia (considerandolo, cioè, un testo narrativo) e in ludologia (considerandolo quindi nelle sue meccaniche di gioco e interattività). Essendo un medium straordinario, considero il video gioco qualcosa di trascendentale rispetto a questo tentativo di categorizzazione dicotomica, che abbraccia ogni arte conosciuta finora e la reinterpreta in un singolo e finora unico formato. Per cui, ogni discorso attorno ai video giochi deve essere trattato con il massimo del rispetto e con delle solide basi valutative, e dobbiamo porre un’estrema attenzione alle nostre opinioni al riguardo. Perché, alla fine, è facile giungere a conclusioni sbagliate per non aver considerato anche solo un singolo aspetto di questa forma d’arte modernissima e controversa. Una forma d’arte che, in quanto tale, assorbe lo zeitgeist e lo fa suo. Per me, dunque, il video gioco è anche un testo, quindi linguaggio, ergo una forma di comunicazione altissima e stratificata, che riflette la condizione della nostra società. Siamo quello che viene definito homo ludens[9], perché il gioco è un segno distintivo della modernità della nostra era, e il video gioco ne è forse la forma più complessa finora mai vista.

L’arte è sempre stata politica, perché è anche un mezzo di comunicazione, per quanto codificata. Chi non se ne è mai accorto, ha solo percepito l’arte, non l’ha mai veramente vissuta

Sentirsi minacciati dall’aumento di una presenza femminile non oggettificata tra i personaggi dei video giochi è dunque lo spettro di un malessere più profondo, che non ha a che vedere con l’evoluzione di questo medium sempre in movimento. È qualcosa che viene da oltre, da certe maglie strette della nostra comunità. L’aumento della diversificazione delle storie e dei personaggi non deve collidere con la capacità di fruizione e di immedesimazione di un titolo, perché abbiamo dimostrato che sono fattori non correlati. Ghettizzare un’opera solo perché la si accusa di aderire a dei fantomatici tratti definiti in ambiti politici, spesso disinteressati al video gioco stesso, è paradossale. Se il video gioco è anche arte, dunque, come tale deve essere in grado di parlare delle brutture del nostro mondo, denunciare e scuotere gli animi, essere un punto di rottura e un atto di cambiamento. L’arte è sempre stata politica, perché è anche un mezzo di comunicazione, per quanto codificata. Chi non se ne è mai accorto, ha solo percepito l’arte, non l’ha mai veramente vissuta.

I video giochi, per fortuna, giungono a noi con un dono magnifico tra le mani: la capacità di farci indossare letteralmente i panni di qualcuno che non siamo, in una situazione in cui forse non ci troveremmo mai. Dovremmo quindi essere entusiasti di vivere esperienze diverse, esplorare concetti opposti e affrontare situazioni interessanti. Non è proprio su questo che si fonda l’idea stessa del video gioco? Ed è anche giusto che, una larga fetta dei suoi utenti (ma anche la più piccola delle sue parti) si rispecchi finalmente su quello schermo e ritrovi un po’ di sé stessa. Forse, imparando ad amare di più questo medium, si potrà scoprire che la diversità e la rappresentazione sono i suoi pilastri fondanti, e che non c’è nulla di cui aver paura ma, invece, molto da abbracciare.

Conclusione

E perché a Geralt non piace la tua opinione su The Witcher IV

Visto che è stata un’opera ricorrente finora, torniamo a The Witcher, in chiosa. Immagino che le parole di uno come Geralt di Rivia possano lasciare ancora un segno, soprattutto in chi si è sentito insultato dal suo passaggio del testimone alla figlia Ciri. Ebbene, a tutti coloro che hanno usato questo personaggio per portare avanti la loro crociata della misoginia e spargere l’odio sulla rete, rimando a uno scambio di battute molto emblematico, tratto da The Witcher III, che forse dimostra ancora una volta l’importanza della comprensione del testo.

Una semplice quest secondaria di The Witcher III è in grado di dire più sulla rappresentazione di genere nel mondo dei video giochi di mille dialoghi sterili della critica videoludica odierna.
In una quest secondaria, Geralt si ritrova coinvolto in una serie di incontri di lotta clandestina, dove guerrieri e vari altri ceffi bravi nel combattimento a mani nude si affrontano in strada, per alimentare un giro di scommesse. In uno di questi incontri, Geralt affronta una donna, una cavaliera che subito manifesta la sua sorpresa quando Geralt non le impone un trattamento discriminatorio.

Lei gli domanda “Non hai nulla da dire? Sono una donna, nessun commento sagace?”. Dal canto suo, Geralt la osserva con serietà e le risponde pacatamente:

“E perché mai? Siamo nel Tredicesimo Secolo. Non c’è niente di strano, al riguardo.”

E allora uomini del Ventunesimo secolo, siate un po’ meno patriarcali e un po’ più Geralt.


[1] Ben Church, “Being a woman in chess can feel ‘lonely’ says streamer Anna Cramling, as the game grapples with harsh truths”.

[2] Qui una statistica recente sulla demografia statunitense, una delle più importanti del settore.

[3] Adrienne Shaw, “Gaming at the Edge”.

[4] Jennifer deWinter e Carly Kocurek, “AW FUCK, I GOT A BITCH ON MY TEAM!”: Women and the Exclusionary Cultures of the Computer Game Complex

[5] Jason Schreirer, tweet su X.

[6] Jennifer Guerra, “Il femminismo non è un brand”.

[7] Ryan Hill, da una conversazione con gli investitori di CI Games, fonte  Strefa Inwestorów

[8] Jennifer Malkowski, “Gaming Representation”.

[9] Johan Huizinga, “Homo Ludens”.

#LiveTheRebellion