Il 2024 finora è stato un anno all’altezza del mondo dei videogiochi che amiamo e conosciamo. In positivo e in negativo, perché al netto di quanto discuterò più avanti nel pezzo alla fine il quadro non è completamente corrotto e malevolo come potrebbe effettivamente trasparire.

Io amo i videogiochi da praticamente sempre. Vorrei il meglio per quelli che ho a cuore, ma il problema è che spesso vengo deluso – come molti e molte di noi. Basti pensare a Pokémon Scarlatto, che mi è piaciuto così tanto da mandarmi su tutte le furie per l’esecuzione indecente che non ci saremmo mai potuti sognare a questo punto della storia dello sviluppo dei videogiochi.

Ma sulle pagine di I Love Videogames mi sono ripromesso di far capire quanto mi piace un gioco, sì, ma far anche notare quando qualcosa non va tanto bene. Che quel qualcosa sia un lato tecnico del gioco, o una circostanza dello sviluppo che non mi è andata proprio a genio. Dopo la recensione di Astro Bot mi è venuta voglia di sfogarmi, e fare anche un po’ il punto di come appare ai miei occhi la situazione dei videogiochi nel mondo. Dico nel mondo, perché in Italia fatichiamo ancora a farci strada e per una volta che ci stavamo riuscendo ovviamente è scoppiato il finimondo. Un finimondo che, tristemente, contribuisce a una situazione che non è delle più rosee.

Ci tengo a specificare da subito che quanto segue non vuole alimentare negatività o comportamenti d’odio da parte di chi legge. Sì, le tematiche saranno abbastanza delicate e a volte i comportamenti dipinti molto criticabili, ma a mio avviso odiare e/o demonizzare non sono il modo migliore di affrontare situazioni di questo tipo. E anche se qui discuterò ciò che non va esattamente bene, non è mia intezione dipingere un quandro completamente negatvo – perché del bene c’è, tanto, e lo esalterò in altre sedi come mi trovo già spesso a fare.

L'industria videoludica inizia a diventare difficile da seguire pari passo

Giocare diventa insostenibile

Parliamo subito dell’elefante nella stanza. Con il passare delle generazioni abbiamo visto performance e grafica fare dei salti in avanti spropositati – mai enormi, all’apparenza, ma se guardiamo l’evoluzione in toto in realtà il salto è davvero grosso. E ci sta.

Preservare il passato Da un lato a 80 euro senza ringraziamenti completi, dall’altro qualcuno che lo fa bene
La cosa che inizia a starci un po’ meno e che spesso si fa notare è che questo salto ci sta costando sempre di più. Il problema è amplificato dal fatto che la vita in generale costa sempre di più. Spesso ci resta difficile pensare di affittare casa senza un’altra persona con cui dividere i costi (ma magari quella persona non la vogliamo in un momento x della vita) e già facciamo fatica così. Fatichiamo a guadagnarci cose che potremmo pensare di prima necessità, quindi vogliamo sfogarci con un hobby ma ci rendiamo puntualmente conto che anche quello sta diventando un costo importante da sostenere.

La più recente pietra dello scandalo è stata il prezzo folle di PlayStation 5 Pro. È un prezzo folle, punto. Sfugge però che chi lo fa notare non sempre sta direttamente accusando Sony di aver sovraprezzato, o millantando che le migliorie non valgano il prezzo e che vada un po’ rivisto. Nel mio caso ad esempio poco mi importa se il prezzo è giusto o no: per quanto mi pianga il cuore a lasciar lì la versione 30° anniversario, resterà dov’è – non sul mio scaffale.

E poi ci sono le remastered, un male relativamente recente e un po’ anche autoinflitto. Sì, perché fanno leva sulla parte più nostalgica della nostra personalità – “se solo potessi di nuovo giocare quel gioco di quando ero piccolo, ma fatto meglio”. Così fu: i colossi, e qui Sony pare avere buona parte della colpa, hanno visto il fianco scoperto e rimesso mano a tanti, tantissimi vecchi titoli che hanno fatto la nostra infanzia. Con la scusa di farli conoscere ai nuovi giocatori e giocatrici, riportarli a noi che li abbiamo già amati e anche preservare la storia del videogioco.

In molti mettono in dubbio che quest’ultima affermazione possa essere applicabile. E purtroppo ci sta: probabilmente la preservazione riuscirebbe meglio se fosse più facilmente accessibile. Le remaster e remake, al contrario, costano non troppo meno di un gioco fatto da zero. Esiste ad esempio una remastered di Horizon Zero Dawn, al modico prezzo di distribuzione di 50€. Chi ha già l’edizione PS4 del gioco può aggiornare a soli 10€, ma fa caso che chi invece non la ha dovrà comprarla a un prezzo convenientemente raddoppiato a 40€ (così “tanto vale prendere la remastered e risparmiarsi un passaggio”).

Le devi comprare per forza? Chiaramente no, ma fanno sempre riflettere.
E riucsirebbero forse ancora meglio se fossero più sensate. Horizon, come lo stesso The Last of Us (parte uno), inizialmente del 2013, sono stati già “rimasterizzati” più volte per allinearli alle novità introdotte con le generazioni successive di console (PS4 e 5). Fa ridere che si sia rimasterizzata anche la Parte II dopo il lancio di PS5. Quella della preservazione storica insomma è piuttosto palesemente una scusa, che finisce in poco tempo in secondo piano se c’è la possibilità di spremere più soldi dalle tasche di chi ama un videogioco.

Quindi è dura controbattere quando si dice che videogiocare stia diventando difficile da sostenere economicamente. Io adoro la tecnologia e la sua evoluzione, ma pensare di pagare una console e pagare altrettanto il nuovo visore che costa quanto la console e pagare i videogiochi first party prezzati a 80 euro e pagare l’abbonamento annuale… ragà, mi si blocca l’appetito solo a pensarlo. Da un lato mi spiace che PS5 non abbia avuto chissà quanti giochi sul mio scaffale (o in generale su qualsiasi scaffale), dall’altro che abbia avuto pochi titoli in generale un po’ mi ha salvato il futuro nella vita reale.

Forse tutto questo ci ferisce, tutto qua. Non sempre stiamo avvalendoci di un inesistente diritto di cambiare qualsiasi cosa paghiamo: forse ci spiace aver raggiunto il punto di non voler pagare così tanto.

Bello Crash, bello Spyro. Belli un po’ meno i soldi che escono dal portafogli.
E mi rode ancor di più quando penso che tutto questo sta avendo in parte ripercussioni anche sul lato opposto del videogioco – sul backstage, su chi i videogiochi li fa.

Non devono dimenticarci La cultura dell’hype dimentica che la fanbase non dimenticherebbe mai – sto guardando te, Kingdom Hearts.
Fin qui mi sono limitato a parlare di noi che consumiamo, ma in realtà tutto ciò parrebbe non essere una passeggiata di salute nemmeno per chi nell’industria ci lavora. C’è questo mostrone terribile che conosciamo come “cultura dell’hype”, che tende ad annunciarti un gioco quando gli sviluppi sono a malapena cominciati e poi ti dà sempre più informazioni. Il risultato è un debutto che spesso risulta affrettato, un gioco incompleto o che non sorprende quanto pensavi (e grazie al cazzo, in due anni o meno di trailer ti hanno praticamente già fatto vedere tre quarti del gioco e ti resta solo di giocarlo tu).

Ecco, il contraccolpo non visto della cultura dell’hype è che quell’hype in qualche modo devi continuare ad alimentarlo. Per alimentarlo però hai bisogno di più contenuti da presentare all’occasione successiva, e a un certo punto una demo giocabile sarebbe anche carina. Perché se non ti presenti e non dici nulla il pubblico inizia a farsi domande, e il risultato è che tutti pensano che ci siano problemi e ritardi. Ed è ovvio: nessun producer preferirebbe mai ammettere che serve un po’ più di tempo, piuttosto che far crunchare il team perché siano pronti 15 minuti di gameplay il più in fretta possibile (sul tema arriviamo a brevissimo).

Beh, quasi nessuno, perché di recente ad esempio il team del sandbox Southfield ha rimandato il lancio proprio per evitare il superlavoro.

Se avete l’impressione che ciò che ne risulta è un gioco montato a pezzi come il mostro di Frankenstein e che difficilmente sta in piedi, io non posso confermarvela per certo. Ma posso sicuramente unirmi a voi nel sospettare che sia così.

Punire la passione

Dello sviluppo dei videogiochi emergono storie di sacrifici più pesanti di quanto ripagano, di lealtà malriposta, di ringraziamenti alle persone sbagliate. L’ennesimo esempio, insomma, di come spesso nella vita la passione venga ripagata con una pomposa pacca sulla spalla e un compenso monetario (che ti spettava per legge perché hai lavorato, ma viene sempre fatto passare come un gesto magnanimo). Ovviamente nel nostro caso tutto ciò è applicato ai videogiochi, ma immagino che molte persone di molti altri settori possano rispecchiarsi in parole come quelle che precedono e seguiranno. Cito da un pezzo di GamesRadar:

“Mi è sempre più chiaro che non posso più superlavorare come una volta”, racconta la game designer Emilia Schatz nel documento in calce [all’articolo originale, n.d.r.]. “Non posso dare a questi giochi tutto quel che davo loro ai miei primi tempi qui dentro”

In un certo senso i videogiochi nascono dalla passione di chi li ha prima di tutto giocati, persone che poi per qualche scherzo del destino o per studi voluti si sono trovate a farne anche un lavoro. Tutto molto bello, finché qualcuno che nella passione in sé crede poco ha deciso che poteva impugnare quella degli altri come un coltello da piantargli in petto per farmare valuta del mondo reale.

Dietro ai titoli più famosi e ben riusciti non tutto è rose e fiori, e non se ne parla mai abbastanza. Mobbing, molestie, e visto che ci sta bene un po’ su tutto come la Nutella anche il crunch. Quest’ultimo in particolare è un tema sempre caldissimo, e spesso sminuito da parte delle grandi aziende all’insegna del “lo hanno fatto con piacere, è la loro passione”. Sul fronte della stampa di settore emergono tentativi di denunciare la cosa nella speranza che pian piano cambi. Chiariamoci, due righe sullo schermo di un dispositivo possono fare relativamente poco, ma se non altro aiutano a sensibilizzare al problema sperando che chi deve invece occuparsene finalmente faccia qualcosa.

Fa ridere (per non piangere) che il risultato di mesi e mesi di crunch spesso non piace nemmeno quanto sperato. Complice il crunch, sì, ma anche quella già citata cultura dell’hype che ti presenta un gioco anni prima e ti fomenta da morire, solo per metterti in mano qualcosa di carino, sì, ma per cui forse tutti quei soldi non li avresti spesi se avessi saputo.

Ciao, God of War (2018). Tra gli eletti modelli da non seguire ci sei proprio tu.
Forse lavorare troppo non era la pensata migliore, in fin dei conti? E anche lo fosse stata, sicuri che sia giusto celebrarla? Opinione personale, a me questa cultura del sacrificio proprio non va giù. E secondo me se lo chiedete a chi il crunch lo ha subito non va giù un granché nemmeno a loro. Forse si poteva evitare a prescindere e prendersi il tempo necessario, tanto più che nel più dei casi si parla di giochi che il proprio seguito lo hanno già e che aspetterebbero anche anni.

Il problema è che se da un lato può sembrare che atteggiamenti simili siano un problema dei team di sviluppo indipendenti – magari nuovi al settore e quindi più propensi a fare questo errore – in realtà non è così. Queste cose le abbiamo sentite e risentite dietro le stagionate quinte di giochi come God of War e molti altri tripla A. Risaputamente nemmeno in Ubisoft la situazione è delle migliori: scadenze irrealistiche, progetti cestinati prima di vedere la luce, team di lavoro stremati e scontenti. Risultato? Star Wars Outlaws, Skull and Bones, e praticamente tutti i nuovi capitoli degli Asssassin’s Creed. Svariati tentativi di risollevare un bilancio non positivo come speravi.

E rinvii su rinvii, giustificati con “vogliamo un gioco perfetto al lancio” tanto per dare il contentino. Perché poi il risultato è davanti agli occhi di tutti: nemmeno fare dietro front sul “non ambienteremo mai un Assassin’s Creed in Giappone” di per sé ti salva il bilancio.

Al netto del sarcarsmo c’è da parlare anche dei famosi titoli di coda, che si è deciso di inserire per ringraziare le braccia e le menti dietro quello che ormai è uno sforzo abbastanza titanico. Si è deciso così, eppure per convenienza è molto frequente che non lo si faccia per bene. Ai collaboratori esterni, ad esempio, sembra sempre molto complicato dispensare un grazie. Ne parlavo nella recensione di Astro Bot, ad esempio, che per essere un gioco che punta molto sul rievocare e conservare il passato si dimentica di ringraziare chi non era interno agli studi.

La pratica è tristemente molto diffusa. Non è una situazione da sottovalutare, perché per chi ha lavorato su un videogioco leggersi nei titoli di coda non è solo una gloria personale. Entrano in gioco contratti di riservatezza (noti come Non-Disclosure Agreement), che ad esempio nel caso di Nintendo avrebbero vietato ai traduttori e traduttrici esterni di parlare del proprio coinvolgimento con loro per un lasso di tempo fino a 10 anni dal debutto del gioco. Si parla soprattutto di collaboratori esterni agli studi Nintendo, quindi ingaggiati da aziende terze specificatamente per lavorare alla traduzione. La battaglia è sempre in corso, e viene portata avanti tra le altre da associazioni come SAG-AFTRA e l’italiana Tramiti.

Dove leggere di Keywords Consiglio tra gli altri Insert Coin di Massimiliano di Marco che ne parla a più riprese e Damiano D’Agostino che ne parla sui suoi social e su N3rdcore.

Un’altra lotta sentita nel settore è quella contro Keywords, un colosso famigerato nel campo. Carico di lavoro gigantesco, tariffe ai collaboratori deprecabili, il tutto corredato dalla decisione di licenziare in massa i dipendenti – che risolve solo il problema del far entrare più liquidi in tasca all’azienda. La scelta ha portato chi resta, tra l’altro oberato/a del lavoro di chi viene mandato via, a indire scioperi questo giugno e anche successivamente, nella speranza che a un certo puntol’azienda sieda a un tavolino con la rappresentanza sindacale per lavorare su migliori condizioni lavorative.

Keywords in particolare (ma non solo) si difende dietro la scusa dell’IA, demonizzata come distruttrice dei nostri posti di lavoro e che in effetti visto lo status quo delle cose ne mette a rischio molti. La soluzione proposta, come segnalano i sindacati e come riportavo in una vecchia News+, sarebbe quella di regolamentarla, argomento all’ordine dei vari scioperi promossi anche in America da SAG-AFTRA.

Li riconoscerete come due dei grandi flop che hanno fatto la storia dei videogiochi (ma uno non lo è più)

Punire l’opinione

La passione può diventare ambizione, e l’ambizione può crescere raggiungendo picchi d’isteria. Lo abbiamo visto accadere con una Hello Games inebriata dai propri piani per No Man’s Sky. Lo abbiamo visto con Cyberpunk 2077, che è caduto creando un cratere di danni ancora più imponente.

Ecco, se a volte il progetto crolla rumorosamente e il produttore deve fare i conti con il fallimento purtroppo non sempre questo accade. È forse anche più frequente che un progetto riesca comunque, e chi deve fare i conti con il fallout sia la manovalanza dietro le quinte che ci ha messo anima e corpo. Agli occhi del business, quindi, l’ambizione ha ripagato – che poi ci siano danni collaterali è inevitabile.

Libertà di stampa Il vero nocciolo della questione Wukong, spiegato da Donato Ronca a partire dalla recensione di Screenrant.
Il problema è che la stampa – di settore, in questo caso – non sempre riesce o vuole dar voce a questi danni collaterali. D’altronde è semplicissimo far finta che queste cose con i videogiochi c’entrino poco, che le questioni umane vadano tenute fuori. Eppure sono là, e se lo chiedete a me tutto sommato un bellissimo gioco che ha reclamato più del dovuto da chi lo ha dato alla luce non è che meriti proprio tanto il premio di gioco dell’anno.

Né tantomeno è encomiabilissimo chi tenta di mettere mano a quel che la stampa scrive di sé. Sto parlando della questione Black Myth: Wukong, chiaramente. Perché se da un lato è trasparso che i più fossero arrabbiati per l’assenza di personaggi femminili nel gioco, in realtà il problema vero è un altro ed è stato per lo più coperto dalle solite litanie contro l’inesistente “ideologia woke”. Il press kit ricevuto da chi ha recensito il gioco ha fatto loro divieto specifico di menzionare qualsiasi argomento di carattere pro-femminista e simili. La vera pietra dello scandalo, dunque, è il tentare di condizionare la recensione che probabilmente non avrebbe nemmeno dato troppo peso al tema che gli vieti di trattare. E se mi chiedi “ehi, com’è il mio gioco?” mostrandomi un cartello con scritto “bello” e una pistola carica, diciamo che la risposta non è proprio sentita.

Magari fare il gioco che ti pare con i personaggi che ti pare escludendo completamente le donne non è un grosso dramma (al netto delle lecitissime critiche alla decisione e al background umano. Solo che il team di Wukong ha tentato di veicolare a monte la libertà della stampa di dire più o meno ciò che sente, e forse ci è anche riuscito. La stampa deve avere la sua libertà di muovere critiche costruttive (non distruttive), e tutto ciò crea scomodi precedenti per le testate – che purtroppo già non partono da ottime basi. L’utenza ormai è disillusa, e parte dal presupposto che le recensioni siano solo scritte per ingraziarsi chi manda il codice. Il che in alcuni casi magari è lapalissiano, ma in altri semplicemente ogni redattor* può avere una diversa opinione su un gioco.

Prendere il controllo
Si inserisce in questo contesto Enotria: The Last Song, un indipendente italiano attesissimo e finito in un enorme vespaio anche per motivi simili. Mi risparmio le critiche al gioco, non avendolo toccato con mano, ma la situazione va un po’ più a fondo di così. Ne hanno parlato in molti, testate di settore e individui singoli, già prima dell’ormai risaputa sparizione degli articoli a riguardo (il più discusso dei quali sembra quello di Q-gin), che molti farebbero risalire a pressioni sulle redazioni proprio da parte di Jyamma Games.

Enotria The Last Song Vi rimando per un quadro molto più dettagliato del problema alle fonti citate nel pezzo, che vuol parlare di Enotria solo come parte rappresentativa di problemi più grandi.

Oltretutto la situazione interna al team non era già delle migliori, visto che si parla di lavoro molto sottopagato e che gli stessi piani alti si scudano dietro il superlavoro (crunch, sì). Non mi interessa distruggere un gioco o tantomeno lo studio alle sue spalle, visto che No Man’s Sky ha anche creato un ottimo precedente di come le cose possano cambiare. Sta di fatto che ormai svariate fonti (due tra le altre) hanno raccolto e raccontato quanto è stato reso disponibile pubblicamente da terzi, e che se da un lato mi piacerebbe tanto supportare gli sforzi di un team maggiormente italiano dall’altro questa volta è finita abbastanza male.

Nella giusta misura un dialogo con il team di sviluppo in questo caso sembra possibile, c’è solo da augurarsi che riescano ad applicare oltre che ascoltare.

E badate bene: le fonti non ci sono solo per Jyamma Games. Il crunch da solo è un problema già attenzionato da testate anche non collegate al mondo videoludico, e gli stipendi non commisurati all’effort sono punto all’ordine di associazioni come quelle già citate. Vi ritrovate in frasi simili? Perché purtroppo il mondo del lavoro, specialmente in Italia, è costellato di queste testimonianze, e l’industria videoludica purtroppo non riesce affatto a distinguersi in questo senso.

Da grandi poteri derivano grandi responsabilità?

“Se non comprassimo più le cose andrebbero meglio”?

Mi piacerebbe davvero se fosse così. Ci pensate? Smettere di spendere per qualche mese, o per un anno intero, così finalmente si rimettono tutti in riga e smettono di pensare solo ai soldi.

Eppure non credo sia questa la soluzione migliore. Se non altro smettendo di comprare per un anno molti team di sviluppo chiuderebbero i battenti, e sarebbero probabilmente quelli sbagliati – come appunto gli indipendenti, alcuni dei quali hanno dato vita a delle vere perle che non meritano questo. Noi come consumatori meritiamo di più, su questo voglio essere chiaro, ma siamo davvero sicuri di meritare di più a scapito di chi i giochi li sviluppa bene e col cuore? E abbiamo davvero la certezza che i più grandi (di cui mi sovvengono ad esempio Ubisoft e Game Freak) cambierebbero davvero le cose?

Qualcuno s’è dato al review bombing come soluzione, visto che Metacritic tra le altre ti permette di battere il tuo martellino giocattolo da consumatore sul gioco degli altri. Un’altra soluzione orribile, per me, che finisce a declassare giochi come The Last of Us Parte II solo perché il protagonista non è quello che volevi, o perché c’è troppa partecipazione di una donna troppo muscolosa – o “maschio mancato”, per essere inclusivo anche di chi si professa “non maschilista(, ma)”. E questo è solo uno degli atteggiamenti “entitled del consumatore “perché pago”. Il settore non è nuovo nemmeno alle minacce di morte da parte dell’utenza, non solo mirate alle persone sbagliate ma fondamentalmente ingiustificate e da condannare su ogni fronte.

Piccoli contributi

Una soluzione drasticamente definitiva temo non esista, non senza mietere le vittime sbagliate colpendo poco e niente quelle che avevamo in mente. Ma suppongo che un aiuto valido possa darlo la stampa del settore, evitando ad esempio di far passare come un capolavoro qualcosa che magari lo è, ma è costato fin troppo a livello umano. Sì che giochi come God of War e The Last of Us sono tra i miei preferiti, ma non ci riesco proprio a far finta che non siano costati la rinuncia alla vita personale di chi ci ha lavorato – non riesco a fingere che questo vada bene e a dire che ne è valsa la pena, perché tanto li stavo aspettando e li avrei aspettati ancora se necessario.

Questa cultura della “celebrazione del sacrificio” non mi è mai andata giù, perché spesso chi il sacrificio lo fa lo paga a prezzo fin troppo caro. Chi lo impone, invece, nel più dei casi si prende la gloria e i riflettori (e i soldi) pur avendo causato malessere e instabilità a chi non lo meritava.

“C’è questo gioco da tradurre, hai due settimane. Ah e non puoi figurare nei ringraziamenti. Però ti pago.” Beh, meno male che almeno è pagato. Non potrò mai presentarlo come referenza per futuri progetti, quindi probabilmente ci metterò mesi in più a trovarmene un altro. Ma meno male che essendo lavoro deve essere quanto meno pagato per legge.

Queste righe non sono state pensate per dare una soluzione, perché l’industria è molto complessa e ci mancherebbe altro che delle piccole persone da sole trovino una soluzione. Ma solitamente se si fa diffusione è perché si spera che le proprie parole, appoggiate da quelle di sempre più persone nel coro, possano raggiungere le attenzioni giuste e finalmente provocare una reazione, o una serie di reazioni che poco a poco costruiscano la soluzione. Le pagine di I Love Videogames vogliono, e speriamo riescano a, contribuire a qualcosa di un po’ più grande, perché nei videogiochi crediamo e vogliamo giocarci. Solo che ci passa la voglia quando sappiamo cosa è costato.

E siccome ho parlato di ringraziare, vorrei rimandarvi alle persone e redazioni che di diffondere queste situazioni in Italia le portano più spesso alla luce sul mio feed (ma la lista sarà soggetta a espansioni sul nostro profilo Instagram):

Massimiliano di Marco
Beatrice Ceruti
Lorenzo Fantoni (N3rdcore)
Damiano D’Agostino
Pietro Iacullo (Gameromancer)
Gianpaolo Trotta
Simone Tagliaferri

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