Donato "Dons" Ronca

Speciale Roguelike, un bisogno sociale

La sconfitta, fedele compagna di viaggio di ogni videogiocatore, non c’è esperienza videoludica vissuta in cui non la si è incontrata almeno una volta (FFXV escluso, lì non riuscivi a morire neanche volendolo).

La società moderna ci spinge a rifiutarla o evitarla in qualsiasi modo possibile come se fosse la fine di tutto, come se non ci fosse possibilità di rimedio o redenzione di fronte ad essa. Il videogioco invece la pone come esperienza quasi inevitabile delle nostre epopee digitali, una cosa con cui prima o poi bisognerà fare i conti. Potrà essere dolorosa e frustrante, anche preziosa insegnante ma sicuramente non sarà la fine.

Ci sarà sempre un altro start da premere, un’altra vita da sfruttare, almeno finché lo vorremo. Nel videogioco non è la sconfitta a decretare la fine di un’avventura: siamo noi stessi a farlo.

C’è addirittura chi l’ha resa la meccanica principale o fondante dell’esperienza videoludica che ci vuole offrire. Sto ovviamente parlando dei roguelike, che nell’ultimo decennio stanno vivendo una nuova età dell’oro a partire da quello che possiamo forse definire il loro secondo big bang, The Binding of Isaac (Edmund McMillen e Florian Hims, 28/09/2011). Seppur un po’ a scoppio ritardato rispetto alla data d’uscita è detonato in faccia al grande pubblico cambiando per sempre la percezione delle produzioni indie e facendo riesplodere il suo genere di appartenenza in tutto il suo splendore. Non si può non citare anche From Software con i suoi celebri Souls, che hanno abbastanza terremotato l’industria grazie al giusto mix tra game design eccelso, narrativa implicita e proprio alcune meccaniche e principi “filosofici” dei roguelike, queste ultime secondo me hanno reso il gameplay quasi assuefacente.

Ma non sono qui a menarvela su quanto bello e importante sia TBOI – anche perché, spoiler, ho giocato tanti roguelike negli ultimi anni ma TBOI mi manca, shame on me. Sono qui ad ammorbarvi perché mi sono sempre chiesto come mai dopo un periodo come quello del primo decennio degli anni duemila, in cui i videogiochi andavano nella direzione di semplificare il più possibile la vita all’utente perlomeno nella maggioranza delle produzioni mainstream, ci sia stato poi un boom incredibile di un genere come il roguelike di fatto completamente controtendenza. Personalmente non credo sia solo merito della qualità di opere come il già citato TBOI.

“Dude, suckin’ at something is the first step to being sort of good at
something.” – Jake the Dog, Adventure Time


Al giorno d’oggi qualsiasi contenuto diventi virale ha spesso una caratteristica fondamentale che spesso è molto più importante della propria qualità di fondo: si trova nel posto giusto al momento giusto. Lo stesso è verosimilmente successo ai roguelike, nel mondo videoludico (il posto giusto) dei primi anni dieci (il momento giusto). Proprio allora i social network esplodevano definitivamente e la cultura dell’apparenza e della perenne ostentazione del successo iniziava a dilagare.

Poco dopo abbiamo iniziato ad accorgerci che quello di cui avevamo bisogno non era una vetrina per i nostri successi, ma il sacrosanto diritto di poter fallire senza sentirsi per questo inutili rifiuti della società. E cosa c’era meglio di un roguelike per sfogare questo bisogno? Niente (risposta esatta).

Per entrare più nel dettaglio di quello che effettivamente è la sconfitta in ambito videoludico mi sono avvalso di uno studio pubblicato nel 2021, “The Struggle is Spiel: On Failure and Success in Games“, che analizza il successo e la sconfitta nei videogiochi e come questi aspetti vengono vissuti dai giocatori. Qui ovviamente ci concentriamo su quello che concerne la sconfitta (il successo mettiamolo da parte, non è roba per me).

Lo studio divide la sconfitta in due categorie, temporanea e perpetua. La prima è la più comune quando videogiochiamo, mentre la seconda potrebbe potenzialmente anche non esistere, poiché, come anticipato nelle prime righe, nel videogioco avviene per nostra volontà, si verifica in altre parole se si abbandona definitivamente l’esperienza perché magari è troppo difficile, frustrante o per qualsiasi altro motivo. Io ad esempio sono da un paio d’anni fermo all’ultimo boss di Sekiro, possiamo considerarla una sconfitta perpetua, ma nessuno (tranne forse la mia sanità mentale) mi impedisce di riprenderlo un giorno e trasformarla in una sconfitta temporanea.

Questa è la principale differenza con le sconfitte che la cosiddetta vita reale invece ci riserva. Nella vita non è quasi mai il singolo a decidere se quella sconfitta sarà temporanea o perpetua. Nel caso di un esame andato male avremo facoltà di riprovarlo e quindi starà a noi decidere, ma se un colloquio di lavoro va male, se un rapporto di amore o amicizia si interrompe difficilmente starà a noi o solo a noi decidere di poter riprovare o rimediare.

Cosa ancor più grave e difficile da gestire è che come nel videogioco la sconfitta perpetua potrebbe non esistere, nella realtà qualsiasi tipo di sconfitta viene considerata una catastrofe. La percepiamo sempre come la fine, anche nel caso già citato di un esame che potremmo riprovare e superare. In cosa sfocia questo? Purtroppo spesso porta a sentirsi dei “falliti”. soprattutto al cospetto di migliaia di “amici” virtuali che condividono col mondo i loro costanti successi, ma che in realtà come noi tengono le sconfitte ben nascoste sotto il tappeto. Probabilmente è perché le vivono col nostro stesso eccessivo disagio.

Quindi alla luce di quanto detto finora, cosa c’è di meglio che vivere esperienze in cui si ha la consapevolezza che la sconfitta è semplice parte del percorso? Niente (bene, due giuste su due).

“Non desiderano fallire eppure cerchiamo esperienze di gioco progettate per provocarlo.”

Jesper Juul


Sicuramente proveremo dei sentimenti negativi nei confronti del videogioco o verso noi stessi per non essere stati abbastanza abili, ma avere la consapevolezza che quel disagio durerà giusto il tempo di ricominciare un’altra partita per sperimentare e mettere in pratica quello che abbiamo imparato lo definirei quasi terapeutico. Altro bellissimo paradosso che ci offre il videogioco è quello di poter sperimentare il successo anche nella sconfitta. Soprattutto nei roguelike, a parte gli obbiettivi da raggiungere fissati dagli sviluppatori ci sono quelli che fissiamo per noi stessi e che non sempre coincidono con quelli del gioco.

Posso sperimentare il successo semplicemente riuscendo ad arrivare più lontano nel livello rispetto alla partita precedente, oppure riuscire a mettere più in difficoltà un boss pur non sconfiggendolo. Così la sconfitta non certifica il fallimento, bensì l’essere riusciti ad andare oltre il nostro limite. Questo ci aiuta a prendere consapevolezza delle nostre capacità alimentando quella che in gergo psicologico è chiamata self-efficacy (autoefficacia) e ci fa affrontare le run successive con ulteriore fiducia.

Questo aspetto si potrebbe esperire anche nella vita reale perché (tornando all’esempio di un esame) potremmo essere bocciati anche la volta successiva. Riuscire a fare di più rispetto alla volta precedente potrebbe comunque far provare grande soddisfazione. Un ragionamento che nella realtà facciamo molta più fatica ad accettare, perché ci sentiamo costretti ad adattarci agli standard e agli obbiettivi che è la vita ad imporci nel nostro cammino senza dare valore a degli obbiettivi intermedi che potremmo fissare per noi stessi e non per forza coincidenti con il superamento di un ostacolo, come appunto spesso facciamo nelle esperienze videoludiche.

Con quanta leggerezza (non intesa in senso negativo) parliamo delle nostre sconfitte in un soulslike o roguelike? A volte ci si scherza su, o comunque non c’è assolutamente vergogna nell’aver provato chissà quante volte a superare un livello/boss. Ciò non avviene nella vita, dove invece sentiamo un disagio costante e quasi un blocco quando si parla di argomenti che ci portano alla mente qualche sconfitta o fallimento.

Questo può portare alcuni detrattori a pensare che il videogioco desensibilizzi alla sconfitta, e che ci sia il rischio di viverla poi con troppa superficialità e fare l’errore opposto. In realtà i roguelike sono tutt’altro che accondiscendenti – sono giusti, perché nel momento in cui diventi abbastanza abile da poter finalmente andare oltre non perde occasione di ricordarti di rimanere umile. È appena diventiamo superficiali dando per scontato che ormai certi passaggi possiamo superarli in scioltezza che i roguelike ci colpiscono duro, ricordandoci di essere sì confidenti in noi stessi ma mai presuntuosi e tenere a mente quello che abbiamo imparato dalle sconfitte. Nulla ci è dovuto per grazia divina.

Proviamo ad alzare ancora più l’asticella, affermando che in alcuni casi la vittoria può essere addirittura una specie di malus. In un altro roguelike – lo splendido Hades (Supergiant Games 2020) – la sconfitta riporta il giocatore all’hub principale, dove prima di ripartire per un’altra run tra le altre cose possiamo parlare con diversi personaggi che ogni volta ci raccontano qualcosa in più della loro storia e del loro background, instaurando un rapporto sempre più forte ed intimo con noi. Paradossalmente, se fossimo così bravi da riuscire a finire il gioco senza mai o quasi mai morire potremmo perderci tante delle loro splendide vicissitudini (che vi assicuro vale la pena godersi per quanto amore e qualità hanno messo nello scriverle).


Abituarci attraverso il videogioco ad interiorizzare ed accettare certi meccanismi può essere utile anche per cercare di portarli nella vita reale, per quanto spesso sia più spietata e piena di pressione. Quella self-efficacy che sperimentiamo nel videogiocare aumenta la nostra fiducia in noi stessi – a volte non solo all’interno del virtuale ma anche nella realtà, rendendoci in grado di approcciare le sfide che ci si parano davanti con un piglio diverso, più sano e ottimista.

A proposito di self-efficacy ci sono tante testimonianze di videogiocatori che grazie alle esperienze di sconfitta, successo e superamento dei propri limiti hanno anche superato problemi reali con quella fiducia in se stessi guadagnata “virtualmente”. No, ovviamente non solo grazie a questo, che però è stato comunque un aiuto importante. Questo video può aiutare a capire nel dettaglio quello di cui sto parlando.

Tutto questo mi porta a sottolineare ancora una volta (nel caso ce ne fosse ancora bisogno) l’importanza sociale del videogioco. È un grande paradosso, come le esperienze videoludiche ci trattano da esseri umani rispettando i nostri successi e soprattutto i nostri fallimenti, mentre la realtà ci tratta come robot programmati per eccellere o essere dismessi.

Vi saluto citando un nanetto come me, spelacchiato come me e verde come m…. ehm no ok verde e basta, “Il più grande maestro il fallimento è”.

#LiveTheRebellion