Vediamo un uomo gesticolare animatamente ma senza affanno, probabilmente sta cercando un gesto di assenso da qualche tecnico fuori dall’inquadratura. Il suo vicino indossa un paio di cuffie che non vi mettereste nemmeno per videochiamare vostra nonna.

Stacco. Campo largo. Molti dei banchi che riempiono lo spazio dell’inquadratura sono vuoti. Una donna vestita con un elegante blazer color rosa si avvicina a un piccolo palco. Inizia il suo discorso. La traduttrice italiana incespica, capisco che l’oratrice sta parlando di Pong. Che è come dire L’arrivo di un treno alla stazione di La Ciotat. È così che i giochini entrano nel parlamento europeo.

Sono le 21:59 dell’11 novembre e, con incolpevole ritardo, i videogiochi sono finalmente oggetto delle attenzioni delle istituzioni europee. In realtà questa è una forzatura per drammatizzare un racconto che di drammatico ha ben poco. Sono anni ormai che l’Unione cerca in qualche modo di rendere il vecchio continente appetibile alle grande industrie del mondo dell’intrattenimento videoludico. Finora non c’è mai riuscita. D’altronde 6 milioni di euro stanziati nel 2022 dal programma Creative Europe sono davvero pochi se pensiamo al giro d’affari di quella che è, a tutti gli effetti, l’industria culturale più importante del pianeta. Questa sarà la volta buona?

La donna col blazer rosa è Laurence Farrang, parlamentare europea del gruppo Renew Europe, relatrice della commissione per la cultura e l’istruzione responsabile del documento presentato la sera dell’11 in parlamento. Per arrivare al testo definitivo ci sono voluti mesi di lavoro, consultazioni con i principali stakeholders del settore e centinaia di emendamenti.

I risultati sono 37 punti che il parlamento ha approvato quasi all’unanimità e un report sugli esports redatto dall’Esports Research Network. Le conclusioni della commissione, approvate dal Parlamento, saranno poi prese in esame dalla Commissione Europea e dal Consiglio Europeo, detentori del potere esecutivo in seno all’Unione. Per cui grazie Laurence, grazie a tutti per il lavoro svolto, avete fatto il possibile. Ora la palla passa agli altri, quelli che decidono.

Economia, creatività, industria

Nel testo la commissione tiene a farci sapere che i videogiochi sono un’industria che l’UE dovrebbe promuovere. Lo ripete più volte dal punto 1 al punto 15, quasi la metà del documento. Perché? Perché fanno girare soldi, tanti soldi, di cui pochissimi rimangono in Europa. Il problema, oltre al già citato grano che manca, è che nel vecchio continente non si sa bene cosa accade nel mondo dell’industria videoludica. Sappiamo che ci sono circa 80000 persone impiegate in 5000 studi di sviluppo di ogni ordine e grado (tra cui Ubisoft, CD Projekt e Paradox). Tutto il resto però è offuscato da una nebbia fittissima che si può riassumere in “mancano dati”.

Non conosciamo così la composizione e nemmeno il potenziale di tutto il settore e dell’indotto ad esso collegato. Un problema non da poco per i decisori europei, che invitano dunque a creare l’Osservatorio Europeo dei videogiochi, sulla scia di quello che è stato fatto per l’audiovisivo qualche anno fa. Il mio parere non conterà molto ma mi sembra davvero una buona idea. Vado pazzo per i report fittissimi, scritti a carattere 12 e impaginati male, tipo quelli che ho letto per scrivere questo articolo.

Quali sono le strategie che secondo la commissione dovrebbe adottare l’Unione Europea? Innanzitutto valorizzare le proprietà intellettuali europee e difenderle in tutti i modi possibili, considerato che “la catena del valore è intrinsecamente basata sullo sviluppo del gioco come oggetto di proprietà intellettuale”. In secondo luogo con fondi ed investimenti vista la natura stessa del settore, che si basa sull’innovazione e sul cambiamento continuo.

Per ultimo “è vitale per la competitività dell’industria Europea incrementare il numero di programmi educativi di qualità che portano a professioni nel campo videoludico o legate alla transizione digitale”. In questa parte si fa menzione anche della parola magica, anche se ormai fuori moda, “il metaverso”. Diamo ai parlamentari un’attenuante. Qualche mese fa Zuckerberg & co. ci credevano ancora.

Soft Power in salsa Stellette senza strisce

I videogiochi non possono essere trattati solo come un prodotto industriale, e questo lo sanno anche i parlamentari europei. Nel documento vengono definiti “forma d’arte totale”, tirando in ballo i soliti riferimenti al mondo del cinema, passando attraverso la musica e il teatro. Sia mai che dopo 50 anni i videogiochi siano solo videogiochi, senza tirare per la maglietta altre forme d’arte più spendibili nelle redazioni dei giornali e al pranzo di natale coi parenti.

Ma torniamo all’arte. A che cosa serve? Oltre a nutrire l’anima, riciclare denaro e investire su qualcosa di cool di cui potete vantarvi coi sopracitati parenti, uno dei motivi principali per cui si investono molti denari in fondazioni, musei e produzioni artistiche è il soft power, cioè creare consenso attraverso la persuasione. L’Europa ha disperato bisogno di creare consenso e i giochini sono uno dei mezzi, sempre secondo i nostri parlamentari. Così i videogiochi dovrebbero “promuovere i valori esposti nei trattati europei, mettere in evidenza i concetti di democrazia, diversità, anti-discriminazione, tolleranza e uguaglianza di genere”.

Sempre attraverso i giochini l’Unione Europea può “mostrare la sua storia e il suo patrimonio artistico e culturale, per esempio attraverso la ricostruzione 3D di monumenti e avvenimenti storici”. Ok, questa diciamo che la lasciamo ad Encarta ’98.

Andiamo oltre. Se i video game hanno tutte queste qualità possono sicuramente entrare nelle scuole con enorme profitto, sia per gli studenti che per le aziende. I parlamentari dedicano particolare attenzione all’ambito educativo e si augurano che l’implementazione di nuovi programmi “interattivi” possa portare gli studenti a scegliere percorsi di studio (e carriere) legate al mondo digitale. Si cita ad esempio il dato secondo il quale le ragazze che dicono di giocare ai video game sono circa 3 volte più portate a scegliere una carriera negli STEAM (acronimo di Science Technology Engineering Art Mathematics) rispetto alle ragazze che non giocano.

Esport, un meritato capitolo a parte

Discorso a parte meritano gli esports, a cui la commissione dedica una ricerca, citata sopra, e un capitolo a sé stante nel documento presentato in parlamento.

Che cosa significa? Sicuramente che nella strategia dell’Unione Europea il gaming competitvo sarà centrale, soprattutto nell’offrire supporto alle organizzazioni sportive europee che operano già da anni nel settore. Quello che interessa è, ancora, l’aspetto economico della faccenda. Ce lo dicono i relatori quando si avventurano nella definizione di “sport elettronici”, focalizzandosi sulle differenze fondamentali tra questi ultimi e gli sport tradizionali. Gli esport si “distinguono per la loro componente digitale ma anche dal fatto che sono basati su proprietà intellettuali, quindi appartenenti a un operatore privato. Conseguentemente la logica dietro l’organizzazione della competizione è necessariamente legata ad una componente lucrativa”. Una differenza non da poco rispetto agli sport tradizionali, governati da federazioni senza fini di lucro.

L’Europa può mettere becco in tutto questo e prendere la sua fetta di torta, in particolare “incoraggiando la mappatura dei team, publisher e tornei, in modo da creare strutture adeguate per chi desidera giocare a livello competitivo. La creazione in Europa di un ambiente adatto all’esport professionistico e all’organizzazione di tornei, andrebbe a vantaggio di tutto l’ecosistema”.

E non manca infine il solito disclaimer. I videogiochi, specialmente per i più piccoli, possono comportare dei rischi. Per cui videogiocate associando a questa pratica uno stile di vita sano e bilanciato, senza dimenticare di fare esercizio fisico e di socializzare nel mondo reale.

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