Il mondo dei videogiochi dà un sacco di spunti interessanti da espandere. Dico interessanti perché poi non tutti lo sono nel senso positivo: a volte si creano polveroni mediatici su questioni davvero spinose.

Questioni come quella degli NFT. A beneficio di chi non ne sa troppo la sigla sta per “non-fungible token”, ovvero un tipo di “token” associato a un particolare oggetto. Si crea dunque un oggetto virtuale che può essere scambiato e venduto più volte, con la particolarità di portare di volta in volta con sé la “firma” di uno e un solo proprietario.

Scendere più nel dettaglio su cosa si intenda per firma porterebbe nel territorio oscuro della blockchain e delle criptovalute. Per stavolta è meglio restare su una spiegazione davvero basilare e che non fa nemmeno troppa giustizia.

Immaginate di possedere davvero qualcosa su internet...

Teniamo il discorso sul semplice e solo sugli NFT, che nascono da un’idea tutto sommato abbastanza semplice. Siamo nel grande mondo globalizzato di internet, dove tutti possono ottenere la stessa identica immagine, canzone eccetera senza variazioni. Una copia dello stesso oggetto di base insomma, che però appartiene a qualcun altro. Nei limiti dei termini d’uso e dell’umanamente concepibile di ciascun oggetto virtuale si può fare l’uso che si vuole.

Ecco, immaginate in un mondo del genere di avere in mano un’immagine e poter dire: “È mia. La possiedo io.” Cosa che attualmente non potete fare nemmeno con le immagini nella vostra galleria, perché qualsiasi persona le abbia anche ricevute da voi potrebbe ipoteticamente millantare di averle scattate (prove a parte). Questo è di base il ragionamento dietro gli NFT: ottenere un oggetto che, fino al momento in cui ne è decisa la vendita, ha quel solo e unico possessore. Nessun altro per quanto simile sarà mai identico, perché quello che avete in mano voi è vostro.

Il bello poi è che un oggetto NFT lo si può anche creare da zero, presumibilmente con uno sforzo davvero minimo. Un’immagine fatta su Paint può essere un NFT, ad esempio. Insomma, immaginatevi di fare uno scarabocchio su un foglio Paint, salvarlo e poi metterlo in vendita per soldi – ed avendo su la vostra firma digitale nessuno può fare una banale schermata e rivenderselo al posto vostro. Sì, un po’ com’è successo con la Merde d’artiste.

Sembra bello, vero? Forse non stiamo considerando ancora tutto.

Se siamo qui a parlarne è perché qualcosa c’entrano con i videogiochi, gli NFT. Ed è così già da un po’ in realtà: la discussione sull’introdurli nel gaming è aperta da tempo, ed è una mini guerra tra software house e giocatori.

Come si applicano nel pratico? Come da immagine sotto. Per riferimento è presa da Axie Infinity, un gioco che guardacaso è finito sotto i riflettori non troppo tempo fa.

Di base tutto ciò che si vede sono lo stesso “animale virtuale” solo con un aspetto diverso ogni volta – e non sempre così tanto. Carini, eh? Peccato che poi costino sui 300 dollari l’uno.

E questa è solo la punta dell’iceberg, uno enorme di cui quel Breed count dà una mezza idea. Perché oltre all’aspetto della bestiola e alla firma del possessore, a contribuire all’unicità del mostriciattolo è in questo caso anche lo sforzo che c’è dietro, la storia di come si è arrivati a l*i. Chi erano i suoi genitori? Di chi erano figli? Chi aveva il corno, chi la coda pelosa marrone, chi la bocca alla Jerry di Rick & Morty?

Questo concetto applicato ai videogiochi può essere pericoloso, se non controllato.

Non è una novità che il mondo dei videogiochi sià già stato corrotto dalla macchina del denaro. Vi sfido a scaricare un gioco mobile che non abbia pubblicità o il simbolo di una valuta monetaria stampato da qualche parte. Il “free” è solo il biglietto d’ingresso, ma nei casi peggiori per riuscire bene c’è già bisogno del temutissimo “pay”. E quando la situazione sfugge di mano nasce Star Wars: Battlefront II.

Se la situazione già precaria può peggiorare, al momento gli NFT hanno tutte le carte in regola per riuscirci. Sì, molto figo avere un avatar con un vestito che abbia la vostra firma sopra. Figo potersene vantare (anche se da un lato a chi importa?), ma bisogna saper guardare oltre il proprio orticello: c’è chi non riesce ad essere oculato e bisogna tenerne conto.

Esattamente come è successo con Axie Infinity, di cui parlavo proprio fa: un gioco che ha promesso guadagno a chi gli era dedito, finendo per guastare quella che per loro era una passione. L’ha resa praticamente un altro lavoro più che a tempo pieno.

Non è tutto oro quel che luccica

Accessibilità, inclusività – bellissime parole, ma poi devono corrispondere i fatti. Non riesco proprio a negare che mi piacerebbe vestire i miei avatar con il proprio, unico stile, ma così non va molto bene. In primis perché non voglio spenderci un patrimonio, ma in gran parte perché poi una cosa così sciocca diventa una gara a chi ce l’ha più grosso. E per quelle abbiamo già tutto pronto: ci sono nati sopra campionati e campionati mondiali, raggruppati sotto la nomea di e-sport.

No, è improbabile eliminare la tossicità dal mondo intero. Certo non basta fare opposizione a un outfit pagato uno stipendio perché ci si riesca. Ma questa cosa preoccupa da morire, per una marea di ragioni diverse. È già difficilissimo staccarsi dalle competizioni, come insegnano storicamente titoli del calibro di LoL o WoW.

Vi immaginate i picchi di tossicità per inseguire qualcosa di unico al mondo, da rivendere poi a un prezzo inumano? E vi immaginate il già delicato discorso della dipendenza da videogames? Quanto possiamo scendere nella tana del Bianconiglio senza rimanere intrappolati?

Penso a mille altri usi intelligenti per una tecnologia del genere. Forse per i videogiochi è un po’ troppo presto.

#LiveTheRebellion