Andrea Scibetta

Speciale Narrazioni videoludiche: Unpacking

Ultimamente tendo a giocare per lo più titoli indipendenti, e a preferirli alla maggior parte delle grandi produzioni. Mi sono trovato spesso a chiedermi perché. Una delle risposte che mi sono dato è la minore dispersività: sono giochi che ti chiedono di svolgere un’attività senza cercare di distrarti con decine di altre secondarie, volte a diluire l’esperienza per tenerti incollato. E questa risposta è sicuramente vera, almeno in parte. Però c’è dell’altro. In molti di questi titoli indipendenti ho trovato l’intenzione di raccontare sfruttando gli strumenti del giocare, piuttosto che ricorrere a cut-scene o scene su binari vagamente interattive.

A costo di rinunciare a scrivere sceneggiature più complesse, anche a costo di depotenziare il messaggio, questi giochi scelgono di essere videogiochi per ciò che li contraddistingue, e raccontare qualcosa attraverso l’interazione. Magari si depotenzia davvero il messaggio, però potenziando di contro il mezzo. E spesso il mezzo stesso è il messaggio.

È il caso di opere come Return of the Obra Dinn, dove la storia è scritta in funzione di come verrà fruita. Nel gioco di Lucas Pope è più importante che il giocatore sia al centro di questa investigazione d’amorosi sensi, a costo di mettere in secondo piano il racconto. È il caso di opere come Golf Club Wasteland, dove l’ambientazione è il racconto. L’interazione del giocatore dà vita a quei paesaggi altrimenti desolati. La narrazione stessa si basa sul completamento di un diario di ciò che il giocatore può notare da sé di livello in livello. È il caso di opere come What Remains of Edith Finch, capace di raccontare in modo unico come un ragazzo fantasioso trasformi un’azione meccanica in una grande favola epica.

È il caso di opere come Unpacking
La migliore descrizione di che cos’è Unpacking l’ho trovata sul suo sito ufficiale: un puzzle game zen in cui si spacchetta una vita. Il gioco racconta infatti la vita di una persona, di una donna, attraverso le sue cose. I suoi libri, i suoi videogiochi, i suoi soprammobili.

"A zen puzzle game about unpacking a life"

Oggetti che si usurano nel corso degli anni, ricordi di viaggi che si accumulano, a volte utensili inutili trascinati dietro per inerzia. Blu-ray che sostituiscono DVD, che sostituiscono cassette, che si aggiungono alla collezione di film. Una Wii utilizzata solo per giocare a Wii Sports, un Gamecube come console dei ricordi, un Gameboy che diventa Advance e poi DS. Dei peluche che ogni tanto ritornano. I suoi vestiti, alcuni sempre lì, altri nuovi che si aggiungono costantemente, a marchiare il passaggio da ragazzina, a ragazza, a donna. Unpacking è quella piastra per panini rossa così uguale alla mia, quella tazza che anno dopo anno ha una crepa in più, segno di una storia in più da raccontare, come gli oggetti che ognuno di noi si porta dietro ad ogni trasloco.

Sicuramente uno degli aspetti più interessanti del gioco è la sua capacità di raccontare una storia senza usare parole, senza filmati, senza nemmeno personaggi visibili. Tutto ruota attorno agli oggetti, intesi non tanto come cose materiali, quanto come testimonianze del tempo che passa e delle esperienze che si fanno crescendo. Mettere a posto gli oggetti di questa persona diventa un modo per entrare in contatto con la sua vita e al contempo ripercorrere gli anni intercorsi tra il ’97 e i giorni nostri attraverso film e videogiochi che magari abbiamo posseduto anche noi.

Lo si può chiaramente affrontare senza tanti fronzoli, abbandonandosi a uno spensierato e rilassante riordinare per il gusto di farlo, ma è evidente l’intento di raccontare una storia. Una storia normale, è chiaro; una storia che potrebbe essere la mia, che quella Wii con Wii sports l’ho avuta, che sono andato all’università e mi sono scontrato con la condivisione degli spazi, che ora penso ad andare a convivere.

Difficoltà ludiche, difficoltà reali
Quello che davvero mi ha colpito di Unpacking è la potenza espressiva di certe scelte di game design, evidenti in particolare in alcuni traslochi. In questi momenti specifici, il titolo di Witch Beam mi ha dimostrato una volta di più quanto si possa far percepire attraverso un videogioco.

Non serve essere interior designer per rendersi conto di quanto sia importante vivere in uno spazio in cui ci si senta a proprio agio. Nel suo livello più difficile Unpacking vuole fare l’opposto, infastidendo il giocatore per trasmettere il disagio della protagonista. La difficoltà di andare a convivere è espressa attraverso la difficoltà nel trovar spazio ai tuoi oggetti in una casa già piena della vita di un’altra persona. Un piccolo bilocale arredato in modo freddo, ordinato all’inverosimile, dove diventa complesso ficcare tutte le tue cose.

Ci si sente fuori posto, come se si stesse invadendo lo spazio di qualcun altro, come se quella casa non fosse nostra e lì fossimo solo di passaggio. Unpacking riesce a far percepire con il suo gameplay tutti gli ostacoli di una relazione complicata, di una convivenza non semplice, di una condivisione degli spazi fastidiosa. Ci si sente un po’ come se si stesse riempiendo un vaso pieno di oggetti, anziché un appartamento; un vaso pronto a traboccare all’ennesima camicia cambiata di posto o all’ultimo souvenir preso in vacanza a cui va fatto spazio.

Raccontare con il gioco
Nel livello immediatamente successivo il gioco ci fa tornare a casa, costringendoci a una sistemazione stavolta davvero malinconica. Il ritorno al luogo in cui si è cresciuti, a cui sono associati tanti ricordi familiari, fa percepire tutto il dolore per una relazione andata male, per una vita che non sta andando come pianificato. Unpacking vuole farci sentire che quel ritorno a casa è visto dalla protagonista come una sconfitta, quasi con rassegnazione.

Tuttavia, la rinascita è dietro l’angolo, il trasloco ancora successivo lo testimonia, mostrando un completo ribaltamento, anche ludico. Come una fenice che risorge dalle proprie ceneri, la protagonista ha deciso di fare un passo importante e andare a vivere per conto proprio. Anche in questo caso, il gioco riesce a modo suo, con il suo gameplay, a trasmetterci cosa si prova. In questo livello, per contrasto il più facile, abbiamo una casa piuttosto grande e del tutto vuota totalmente a nostra disposizione. Possiamo scegliere come disporre quasi tutto ciò che ci va, come ci va. Unpacking vuole trasmetterci la tranquillità dell’andare a stare da soli, un po’ come avere una tela bianca da dipingere a modo nostro. Un contrasto che sa anche di disillusione rispetto alla vita immaginata qualche anno prima, che in realtà è solo preparatorio per i cambiamenti che aspettano la nostra protagonista nel prossimo futuro.

Unpacking

Il focus non è sul cosa, ma sul come

Il punto non è quindi disfare pacchi e sistemare oggetti negli spazi a disposizione. Non solo, almeno. Quest’esperienza si basa su quegli spazi messi a disposizione e sul modo in cui si spinge il giocatore a sistemare quegli oggetti. In questo caso più che mai, il focus non è sul cosa, ma sul come. La grande bravura degli sviluppatori è stata proprio nel costringere sapientemente i giocatori a comportarsi in determinati modi affinché provassero determinate cose.

Tutta la potenza espressiva del gioco sta in queste sensazioni. Il videogioco è interazione, e in essa diventa trasmissione del messaggio. Quello di Unpacking non è solo di apprezzare i traslochi in quanto momento di introspezione. Il senso dell’opera sta proprio in quelle esperienze così vere, così simili a ciò che ognuno di noi ha vissuto. La difficoltà dei cambiamenti e quella di trovare la propria strada nel mondo vengono raccontate attraverso gli spazi in cui si vive e il modo in cui decidiamo di viverli. Sotto l’immagine di puzzle game zen, Witch Beam ha nascosto un’esperienza capace di far riflettere sulla difficoltà delle scelte che scandiscono le nostro vite, segnate ognuna, spesso e volentieri, da un trasloco.

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