L’idea di un titolo che ripercorra il primo Final Fantasy in chiave moderna e dark onestamente la trovo molto intrigante. Un po’ meno che Nomura sia coinvolto nel progetto a qualsiasi livello, ma non importa. O meglio, importa eccome siccome il concept è suo ed è anche produttore esecutivo del progetto, però provo a guardare oltre. La sceneggiatura è affidata a Kazushige Nijima, vecchia penna di Square-Enix che fra le altre cose ha sceneggiato Advent Children e Final Fantasy XIII. Ma ha fatto anche cose buone. Insomma, dopo il primo trailer di presentazione che già faceva presagire il disastro, non mi sono voluto dare per vinto. Ho chiuso gli occhi e stretto i denti attraverso la piccola tempesta di meme che mi hanno separato dalla prova della demo e ho iniziato una nuova partita senza far pesare i pregiudizi, a prescindere da quanto forte stessero incombendo sulla schiena. E avrei davvero voluto vedere – o perlomeno cercare – il buono di questo “Final Fantasy Origin”.
Ma il problema è stato che meno di ventiquattr'ore prima avevo giocato la demo di Voice of Cards.
Di per sé Stranger of Paradise e Voice of Cards non c’entrano una mazza, lo so. Eppure avendoli provati in maniera così ravvicinata ho visto due giochi che in qualche modo trovo complementari. Di fatto poi, cercano di portare avanti un discorso abbastanza simile: dare nuova prospettiva agli archetipi del jrpg. Entrambi si basano sui cliché per sovvertirli, per sfruttarli come trampolino o più semplicemente per dargli nuova linfa. Voice of Cards vuole anche schernirli, con piccole – ma potenti – rotture della quarta parete che subito ci dicono di non prendere il tutto troppo sul serio ma, al tempo stesso, di stare al gioco. Stranger of Paradise di contro si schernisce da solo, purtroppo.
Jack, il protagonista, vuole essere tenebroso e tagliente ma risulta semplicemente infantile e capriccioso. La sua reazione all’unico discorso con un briciolo di coerenza, e che potenzialmente potrebbe essere pure interessante in un contesto simile, è l’equivalente di correre via tappandosi le orecchie urlando “Làlalàlalalààà, non ti sento!” facendolo sembrare effettivamente molto maturo. Il cast di contorno oscilla fra il banale e l’inesistente, tant’è che sembrano appendici ludiche che ci si trascina dietro per avere un po’ di Caos in più anche negli scontri. Oltre a essere il perfetto motore di potenti scene di amicizia come i continui bro-fist che questi trentenni si scambiano con la stessa fierezza negli occhi di Roy Batty in Blade Runner. Ma anche con la stessa credibilità di Harrison Ford in Episodio VII.
La differenza tra personaggi di carta e personaggi su carta
Dall’altro lato, i personaggi incontrati nella demo di Voice of Cards, pur ricalcando archetipi molto classici, dialogano efficacemente con i contesti narrativi e con il giocatore stesso. E non hanno nemmeno voce propria. Il narratore del nuovo gioco di Yoko Taro si prende infatti la briga di doppiare ogni personaggio, senza nemmeno troppa voglia, eppure è efficace. Con piccoli movimenti dei cartoncini sopra al quale sono disegnati i protagonisti si può persino carpire un frammento del loro carattere, si evince chi ha modi più sbrigativi o chi invece ha gesti affettati.
La narrativa “su carte” diventa quindi punto di forza anziché briglia per la scrittura. Gli NPC copiaincollati tipici del genere si giustificano con carte dello stesso “tipo” e i viaggi rapidi con lo spostamento della nostra pedina sulla plancia di gioco. Muovendosi in posti inesplorati è necessario rivelare le carte posizionate a faccia in giù prima di sfruttarle come caselle. Eccellente modo per proporre gli abusati incontri casuali, sicuramente figli di un altro tempo, ma perfettamente coerenti con il titolo. Voice of Cards funziona perché propone gli stessi cliché di sempre sotto una nuova luce, non tenta di camuffarli o nasconderli o di svecchiarli goffamente. Trova solo un modo differente per raccontarli. Dimostra insomma quanto la forma, se sfruttata a dovere, possa dar lustro al contenuto, senza che nessuno dei due sia vittima dell’altro.
Mentre Voice of Cards vanta il character design di Kimihiko Fujisaka (Drakengard, NieR) Stranger of Paradise si avvale, nel contesto della forma, del character design di Nomura. Che tutto gli si può dire, ma perlomeno quando disegna è ancora capace.
Mentre scorreva il primo trailer di Stranger of Paradise non ho potuto fare a meno di pensare “Il design dei personaggi è così banale che deve esserci qualcosa sotto”. E in effetti è così, dietro all’incomprensibile piattezza artistica dei finalfantastici quattro c’è tanta pigrizia. Nomura, che però non ha tutte le colpe, decide di vestire con canotta e maglietta tutto il cast, forte del fatto che i giocatori dopo un paio di scontri potranno arricchire e modificare il proprio guardaroba, grazie a un sistema di loot in stile diablo.
Sono abbastanza certo che di modi per dare davvero carattere visivo ai personaggi ce ne sarebbero stati. Un vestito iniziale non disegnato in quaranta secondi per esempio, oppure degli outfit “endgame” da sfoggiare nei render ufficiali. E invece niente. Si sceglie la collezione primavera-estate di quattro tamarri a caso che devono flexare il bicipite o il ciuffo laccato ma che hanno speso tutti i loro soldi tra palestra e iphone e devono vestirsi con quello che gli passa la Caritas. E mi raccomando, continuiamo a lasciare Ferrari in panchina, facendogli disegnare un personaggio e due vestiti, che guarda caso sono poi quelli migliori.
Riempire il gioco di pezzi di armatura non giova nemmeno in questo senso perché, come da regola, per buona parte del tempo si avrà l’aspetto di chi si è vestito al buio, dovendo utilizzare i pezzi più forti senza guardare troppo alla loro estetica. In questo caso il paragone con Voice of Cards neanche è necessario. Bastano un paio di screen. E mentre parlo, sbigottito, della pochezza di questo gioco così blando che vorrebbe pure arrogarsi di reinventare le origini di Final Fantasy, c’è chi si nasconde dietro l’egida del gameplay. Punitivo, sfaccettato, tecnico. Eppure proprio nei combattimenti io vedo davvero il trionfo di Caos.
Un’intera squadra di ninja contro Yoko Taro
Passiamo al combat insomma. Stranger of Paradise si presenta come un action rpg con varie opzioni di approccio grazie a un sistema di crescita che si appoggia al Job System. Paragonare la meccanica di Final Fantasy Tactics e Tactics Ogre a ciò che si vede nella demo di Final Fantasy Origin un po’ mi urta, ma fondamentalmente il concetto è lo stesso, sebbene molto più stringato. Di per sé però sarebbe comunque un’idea funzionale ma si appoggia a un combat system che risulta troppo farraginoso e dispersivo. Nonostante sia necessario frenarsi dal button mashing e prestare attenzione a ciò che fanno i nemici – più per i danni che infliggono che non per i pattern d’attacco – pad alla mano il feeling risulta estremamente caciarone e poco appagante. Poter portare due job sul campo di battaglia è una buona intenzione, così come poter cancellare una special del primo job per passare al secondo senza soluzione di continuità.
Al tempo stesso non si avverte coesione e la varietà delle differenti classi crea invece una commistione poco coerente. Ma la verità è che, per quanto il combat possa comunque lasciarsi giocare, è il contorno che lo affossa. Le finisher di Jack, le frasi abbaiate, la rozzezza tecnica ma soprattutto il pallore artistico che sembra davvero non avere niente da dire. Dall’altro lato, con una manciata di cartoncini, qualche dado e un pugno di gemme,si crea una declinazione del sistema a turni. Tanto semplice quanto efficace. Perché Voice of Cards esattamente come Automata vive del suo meta-game in ogni istante. Tutto ciò che c’è su schermo fa parte della storia, del gioco. Anche le opzioni e la schermata di salvataggio sono diegetiche.
Funziona talmente bene che c’è un gioco di carte dentro al gioco di carte, nel classico stile minigame. E neanche per un secondo suona ridondante.
2.0
Ridondante forse lo è questo pezzo, mi rendo conto. Perché alla fine è davvero la solita questione: non importa il cosa ma il come. Non è nemmeno un’invettiva che vuole far scontrare il gioco a medio-alto budget con quello indie-like. Stupisce però pensare come Square-Enix sia in grado di avere sullo stesso piatto due prodotti così discordanti, sebbene vicini concettualmente. E forse, in fin dei conti, bisogna ringraziare Stranger of Paradise. Senza progetti come questo, quelli come Voice of Cards non potrebbero esistere. O forse, è solo l’ennesimo strascico della Fabula Nova Cristallis, di cui è ormai certo che non ci liberemo mai. E in più, Nomura è visto come un dio. E Dio ha sempre un disegno più grande.
Questo grande disegno me lo vedo come un progetto, immenso, che nell’arco della prossima decade unirà Kingdom Hearts, Final Fantasy 7 Remake e Stranger of Paradise sotto un unico vessillo. Un blockbuster così grottescamente votato al fan-service da poter rendere possibile dozzine di progetti come Voice of Cards.
Quindi ben vengano questi progetti in fin dei conti, rappresenteranno davvero un nuovo inizio.
Ma “2.0” non simboleggia questo,quanto il voto che si beccherebbe Stranger of Paradise se uscisse oggi.
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