Non ho mai saputo come si piange. Eppure, ho sempre voluto provare. Ho sempre voluto capire come si sentissero gli altri a mostrarsi deboli davanti a dei titoli di coda. Ma credo che non faccia per me. Non sono mai riuscito a impararlo.
Bisogna sorridere sempre. Come il migliore dei supereroi. Far vedere quanto sei forte. Quanto sei macho. Non devi far dubitare della tua sicurezza. Delle tue origini. Della tua persona. Gli altri devono ammirarti. Devono pensare bene di te, perché tu sei una persona per bene. Sei nato per essere un uomo. Non c’è tempo per piangere.
Perciò cominci a sorridere anche nelle peggiori situazioni. Quando stai male… quando il mondo ti crolla addosso, sei lo stesso di sempre. Ti mostri per quello che sei sempre. Fingi delle emozioni che non provi. Diventi la caricatura di un uccellino bianco in un mondo di chiari-scuri. Un personaggio cliché in un’opera di Shakespeare. Smetti di piangere, perché non è qualcosa che ti si addice. O almeno, all’immagine che ti sei creato. Ti illudi di non averne bisogno. Pian piano, diventa sempre più normale. Una maschera che ti si posa sulla fronte.
Cominci ad assumere quello stesso atteggiamento anche davanti ai tuoi hobby. Davanti ai videogiochi. Agli anime. Ai film. A volte anche mentre leggi i libri. Non riesci a liberarti della tua “persona“. Non sei più capace di piangere. Davanti a niente. Davanti a nessuno. Anche quando vorresti. Anche quando il tuo cuore suda, le tue mani tremano e ti senti freddo, quasi come se la vita non fosse più tua.
La trasformazione è completa. Non puoi più piangere, ormai.
Mi sono accorto di non riuscire a piangere davanti a un’opera di finzione già da molto tempo. Anche quando sapevo che fosse giusto, che fosse qualcosa che avrei dovuto fare, il mio massimo era fare finta. Fare finta di piangere. Non per far felice qualcuno. Non per far provare empatia a qualcuno. Solo davanti a me stesso e al senso di colpa che provavo per non aver sofferto abbastanza. Aristotele parlava di catarsi. Pulizia dell’anima: una sorta di acqua santa che ci permette di ripulirci dai nostri peccati. Soffrivo perché non riuscivo a iniziarla.
Si sente spesso: “Questo gioco mi ha fatto piangere“, “Sono stato male per giorni dopo averlo visto” oppure “Ti tocca dentro, davvero!“. Sono opinioni date alla leggera. Come se fosse qualcosa di quotidiano. Come se questo valorizzasse l’opera a uno stato superiore. Allora si creano generi attorno a questa sensazione. Strappalacrime, per così dire. Ma è giusto che queste lacrime “vengano” strappate? Succede davvero così? Non lo so. Forse non lo saprò mai. Quello che so, però, è che vi è un sottile velo di ipocrisia dietro queste affermazioni semplicistiche e comuni. Forse sono i videogiochi che me lo hanno fatto capire.
Non ho mai pianto per il mio gioco preferito, e non ho bisogno di dirlo per sentirmi giustificato ad amarlo. Perché non è un amore dovuto, ma intrinseco. Non ho bisogno di giustificarmi dicendo che mi ha emozionato. Non ho bisogno di crearmi delle mura dietro cui barricare i miei gusti. Perché quello che provo per Portal 2 è un rispetto immenso che va oltre a queste barriere. E così vale per tutti gli altri.
Non so nominare un gioco che mi abbia fatto piangere. Piangere lacrime amare, vere. Le lacrime di un amico che se ne va per non tornare. Eppure, ho tanti giochi che amo.
Un’esperienza è fatta di tante emozioni
Ho visto come negli anni il modo di descrivere le opere si sia andato a uniformare. Forse come risposta al marketing che è diventato così centrale nella nostra società. Forse è semplicemente per l’assottigliarsi complessivo della nostra conoscenza come comunità. Eppure, quando si parla di un videogiochi si dice sempre lo stesso. Come se un gioco dovesse solo farci piangere. Come se questo lo elevasse al di sopra di “quegli altri” che invece dominano davvero la nostra vita quotidiana.
Però è facile vendere qualcosa basandosi su un appiglio emotivo
E nel limbo finiscono le persone come me. Che vivono basandosi su quelle aspettative. Ascoltano – nella loro indecisione – che cosa gli dicono gli altri, come dovrebbero fruire di un videogioco. La vera esperienza. Non un bootleg, ma quella che ti fa sentire vivo. Invece quelle aspettative cadono. Perché non riesci a piangere. Apri YouTube, e cerchi “come piangere per finta“, anche se non ti credi un attore. Sbadigli, per avere una giustificazione concreta dei tuoi sentimenti. Che però rimangono sempre dentro.
A guardare certe scene, melodrammatiche e potenti, sinceramente, quello che penso per primo è come facciano i protagonisti a piangere con tanto vigore. La risposta è ovvia. Le loro sono lacrime vere. Sono lacrime sincere, che noi, da poveri sciocchi, dobbiamo solo imitare. Empatia di seconda mano. Peccato che non funzioni come una volta. È normale sentire un complesso di inferiorità davanti al protagonista di un videogioco? O forse mi sto solo illudendo?
Illusione e disillusione – Il cucito della realtà
Forse è per questo motivo, davvero, che NieR: Automata mi ha deluso. Mi ha deluso perché si aspettava molto da me, e io a sua volta l’ho illuso di giocarlo davvero. Perché quel NieR: Automata che ho giocato era il NieR: Automata di una persona stanca, che voleva liberarsene dopo averlo avuto sulla schiena per tanti mesi. Non avevo voglia di giocarlo. Però mi sono spinto. Mi sono spinto oltre la linea di non ritorno. Nel punto in cui NieR: Automata non mi ha più detto niente.
Perché quella che ho sempre avuto in mente è una visione distorta di quello che mi aspettavo dal gioco. Un’esperienza che gira attorno alle mie illusioni che, puntualmente, venivano deluse. In un ballo nel vuoto, i Quattro Re vorticano, mostrandosi ogni volta uguali e diversi a se stessi. Perché un gioco non lo si percepisce davvero solo per il suo semplice valore, ma per come si sente all’esterno. La storia di un bambino con il cancro non farà mai così male come a una persona che ha avuto a che fare con una malattia terminale.
I videogiochi non vivono nel vuoto.
Eppure se ne parla sempre così, alimentando dei pregiudizi sbagliati. Un videogioco eccelso non è eccelso davvero, è solo una voce fredda e distaccata che lo dice. Come se analizzasse il movimento della luce nello spazio. Ma non riuscirà mai ad esprimere quella sensazione appieno. Non riuscirà mai a parlarne davvero, come vorrebbe. E quelle sensazioni si perdono. Rimane solo una parola. Vuoto di significato. Passata di mano in mano. Mi ha fatto piangere. Strappalacrime. Che mi fa credere che io debba piangere.
Il problema è quando mi perdo. Solo l’altro giorno, sono riuscito a piangere davvero. Non me l’aspettavo. Un lampo, all’improvviso. Una fitta non voluta. Non era qualcosa che avevo preparato in anticipo e non mi sentivo in colpa per non aver sofferto abbastanza. Né mi sentivo di aver bisogno di versare più lacrime di quelle poche che avevo versato davvero. Ma non so se quelle fossero lacrime vere. Non credo di poterle usare come le vedo sempre usate. Non sono lacrime da quattro soldi, ahimé.
Quello che sono riuscito a capire, alla fine dei conti, è che piangere non è nulla di glorificabile. Non è un momento speciale. Non è un rituale da ripetere per consacrare il gioco migliore. Nonostante lo abbia capito, dubito di aver imparato davvero a piangere. Forse ho pianto perché – semplicemente – i miei occhi erano stanchi dopo tutte quelle ore davanti a uno schermo. Forse è perché è un gioco impegnativo, e questo ha stimolato le mie reazioni.
Il gioco in questione è Persona 5. Il primo boss è Kamoshida, un’insegnante che abusa dei propri studenti, verbalmente e fisicamente. Una persona supponente e malvagia… che però non è così surreale, nella sua personalità. Forse, ho pianto perché ho avuto dei Kamoshida nella mia vita. Può essere il solo ricordo abbastanza potente da farmi piangere? Non lo so. Potrebbe anche essere semplicemente un cocktail di tutti questi fattori. O nessuno di questi. Quello che resta di quel momento, è solo questo articolo. Un articolo che ferma nel tempo un mio momento di debolezza.
È la debolezza di chi non ha mai capito il suo posto nel mondo. La posizione del proprio ingranaggio nella torre dell’orologio che suona, inesorabile, il tempo che passa. Ma questo mi ha fatto capire quanto i sentimenti che un’opera può dare vadano oltre a un semplice giudizio superficiale. A quanto il pianto sia in verità un momento intimo. Non è qualcosa da condividere per il mondo, né da usare come arma. È il momento in cui si riesce finalmente ad abbassare le proprie difese ed essere quella persona che si nasconde di solito. Perché ricordatevi che c’è ancora chi non ha trovato il suo modo per piangere.
Se la vita è un teatro, tra di noi c'è ancora chi deve togliere la propria maschera. Che deve lasciarsi andare, guardare in cielo - con il volto insaguinato - e gridare: Persona.
Il pianto è l’ultimo enigma di Lucifero. Non c’è nulla di più naturale.
#LiveTheRebellion
Privacy & Cookies Policy
Privacy Overview
This website uses cookies to improve your experience while you navigate through the website. Out of these cookies, the cookies that are categorized as necessary are stored on your browser as they are essential for the working of basic functionalities of the website. We also use third-party cookies that help us analyze and understand how you use this website. These cookies will be stored in your browser only with your consent. You also have the option to opt-out of these cookies. But opting out of some of these cookies may have an effect on your browsing experience.
Necessary cookies are absolutely essential for the website to function properly. This category only includes cookies that ensures basic functionalities and security features of the website. These cookies do not store any personal information.
Any cookies that may not be particularly necessary for the website to function and is used specifically to collect user personal data via analytics, ads, other embedded contents are termed as non-necessary cookies. It is mandatory to procure user consent prior to running these cookies on your website.
#LiveTheRebellion