Se credete che per i videogiochi non si possa parlare di passione, vi sbagliate di grosso. Se non credete che quella passione per i videogiochi possa essere una malattia, vi sbagliate comunque. Forse un po’ meno, ma è sempre un errore. Senza un saldo controllo di sé tutto può sfuggirci di mano.
Ti ci affezioni troppo e basta una partita a Fortnite per perdere la calma. Sì, Fortnite, ve lo ricordate? Il giochino da bimbiminkia. Ormai dovrete conoscerlo, ha fatto molto parlare di sé e di soggettoni che lo giocano ne esistono parecchi. Sono quelle persone che se le incontraste per strada probabilmente le prendereste in giro. Perché dai, Fortnite? Ma che gioco è?!
Eppure c’è chi ci tiene. C’è chi odia a tal punto perdere una partita che scoppia a piangere, e bisogna chiamare l’ambulanza perché sembra stia per morire. Una sindrome di Stendhal dei videogiochi, in poche parole, che ti frutta pure una denuncia per procurato allarme.
Ma aspetta, non è familiare come reazione?
Questa reazione si chiama “frustrazione”. “Dispiacere”. È molto comune nell’essere umano, e di sicuro la avrete provata anche voi – ad esempio quando la vostra squadra del cuore perde a calcio. O quando voi perdete a calcio, magari alla prima partita veramente importante precludendovi un campionato intero.
Ma qui si parla di giochini, però.
Giusto, i giochini. Vaneggio, sto paragonando due cose diverse: il calcio è vero. Esiste, e ci giocano persone vere. I giochini sono cose virtuali, non puoi abbracciare il personaggio dietro lo schermo – e se pensi vogliano dirti qualcosa, farti provare qualcosa, devi farti vedere da uno bravo. Sono solo intrattenimento, in pratica un circo messo su lato codice di cui usufruire una tantum.
E poi c’è FIFA/PES (una eterna lotta di testosterone, eh?), e c’è NBA e tutti quei giochi seri per uomini veri. Gli uomini veri non si arrabbiano mai davanti ai videogiochi, figurati se li fanno piangere: sono solo intrattenimento. Non lanciano il joystick a terra perché hanno appena preso gol, e soprattutto non urlano contro il televisore per lo stesso motivo.
Quello lo fanno davanti a una partita di calcio reale: perché chiaramente più forte urli, più i giocatori ti sentono anche nell’emisfero australe. È più normale sia una partita a farti piangere, non i videogiochi.
Non è che sti giochini ci stanno rubando il cuore?
Sembra assurdo pensarlo, ma sfido voi a dire di non aver fatto almeno una di queste cose. Non a livello di procurato allarme, certo, ma potete biasimare un ragazzo che è riuscito a ottenere l’Ultra Istinto della frustrazione videoludica? Un pochino forse sì: d’altronde, davvero non si può impiegare quelle poche ambulanze che abbiamo per interventi del genere. Nemmeno se un semplice videogioco ci ha procurato un caso di sindrome di Stendhal inaspettato.
Ma tutto sommato se ci fanno incazzare così tanto e piangere, qualcosa ce ne importa dei videogiochi. Tutto sommato magari non è azzardato accostare la sindrome di Stendhal ai videogiochi. Anche in una banalata come FIFA ci lasciamo dei bei momenti, ricordi con gli amici, insomma un pezzo di cuore. A quanto pare pure Fortnite ci riesce bene, con chissà quale stregoneria.
Sarà per questo che a maggior ragione ci incazziamo, se il mostrone Hype crea il più grande gioco della storia ma non lo riconosciamo quando ce lo abbiamo davanti. Il primo gioco era un capolavoro, l’eroe era un gran figo e quindi chissà che ci aspetta nel sequel.
E poi l’eroe muore nelle prime due ore.
Basta quel secondo perché il capolavoro da sindrome di Stendhal che abbiamo davanti venga preso a randellate sui denti. Ridotto in pratica a poco più di un Minecraft non a blocchi, ci pentiamo di averlo comprato. Prendiamo il telefono e ci lanciamo sui social in cerca del primo doppiatore sfigato che capita a tiro. Per insultarlo, così per sfogo. Tanto mica la prende sul serio.
Ah, ecco che avete nella testa se i videogiochi per voi non possono essere una passione. Un Minecraft poco più che a blocchi.
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