Non vi è mai capitato, per motivi che esulano dal mondo videoludico, di perdere interesse e sentimenti verso questo magnifico hobby?

Per me il videogioco è sempre stato come teletrasportami in un’isola deserta nel mezzo di casa, un modo per isolarmi un attimo, prendermi il mio tempo, esaltare quelle poche ore giornaliere di libertà dedicandomi solo e soltanto a me stesso. Ci vuole, inutile negarlo. Nonostante io ami stare in mezzo alla gente, uscire, passeggiare per la mia Milano senza meta, ogni tanto ho proprio la sana voglia di escludermi, estraniarmi, tuffarmi in mondi digitali per assaporare una gioia e una pace che solo chi mastica questo hobby da anni e con passione può realmente capire. Non è certo sociopatia, è quell’angolino di tranquillità che ognuno trova nelle più disparate attività, ed è una meraviglia inviolabile, privata e intima, il modo più puro e diretto per conoscersi. Quest’anno però, un 2017 come non ce ne saranno forse più, annate irripetibili come il Triplete della mia Inter, qualcosa si è rotto.

Game over.

Un cambio di mansione a lavoro è bastato a spezzare un equilibrio di pace interiore che durava ormai da anni, in cui la tranquillità era ormai un mantra, una certezza. Domande, punti interrogativi che continuavano ad affollarsi nella mia testa, prendendo il posto di ogni singolo neurone. Una reazione a catena scatenata dalla sensazione di trovarsi fuori posto in un ufficio di “estranei”, amplificata dal gusto prossimo allo zero che quelle nuove otto ore al giorno mi davano, senza arricchirmi in nessun modo se non economicamente. Nessuna passione, nessuno stimolo, il passare dei minuti scandito dalla voglia di evadere e da Spotify, accompagnato dal trip-hop dei Massive Attack e dalla divina voce di Florence Welch, rinchiuso nella prigione dorata della fondamentale sicurezza lavorativa. Per carità, non è la miniera, anzi, ma il cambio è stato destabilizzante per molti fattori, soprattutto personali, che terrò per me come è giusto che sia. La sensazione, per la prima volta, di stare diventando adulto e pensieroso, cupo come molti, disilluso; vero incubo per me, sognatore di 26 anni, edonista sempre alla ricerca del bello nella vita. In poco tempo non riuscivo più a riconoscermi, la testa piena di dubbi, gli occhi spenti, stanchi, pieni di tristezza, rabbia a volte, sostenuto da due sole certezze capaci di farmi brillare come sempre, la mia ragazza, Elena, cui andrebbe eretto un monumento alla bellezza e alla determinazione, e la scrittura su queste pagine.

Se nella nostra vita qualcosa non va, anche il nostro tempo libero ne risente, e con lui le passioni, gli interessi, filtrati sempre più in scala di grigio.

Un piacere assoluto questo, scoperto un paio di anni fa che mi ha portato a voler alzare sempre di più l’asticella, inseguendo un professionismo che chissà se mai arriverà, trovando un gruppo di ragazzi incredibili con cui esaltare a vicenda il proprio ego e la propria qualità, imparando ognuno qualcosa dall’altro. Pura passione non retribuita che ha cominciato a portarmi via sempre più tempo, risorsa preziosissima, quasi un’ossessione per me. Il mio piccolo, caldo angolo di piacere ludico finì così relegato a sessioni sempre più brevi, spesso giocando titoli da recensire, altre pasticciando senza convinzione con mille titoli diversi, spesso senza mordente, senza voglia, in un circolo vizioso del “tanto per” capace solo di farmi sprecare ancora più sabbia della clessidra, sempre più freddo verso ogni forma d’intrattenimento. Due sole eccezioni, Metroid: Samus Returns e San Mario Odyssey (lasciando fuori Zelda, stragiocato quando ancora vivevo la mia illusione naif). Un conflitto tra volersi arrendere e cercare una via d’uscita, con tutte le controindicazioni del caso, in lotta contro l’apatia. Un discorso che si può applicare a mille altre situazioni della vita d’altronde. Problemi tutto sommato piccoli, teoricamente gestibili ma che non si riesce proprio a prenderli con filosofia, trasformando un pianeggiante incedere nella scalata dello Zoncolan.

L’1 dicembre era un giorno come tanti altri, l’illusorio piacere del week end alle porte, la possibilità di tirare il fiato e pensare con più calma, senza foga. Il day one di Xenoblade Chronicles 2 oltretutto, religiosamente rispettato dal sottoscritto, pur sapendo di avere poco tempo in quei giorni per dedicarmici come avrei voluto. La serata però salta. Nervoso accendo Switch, inserisco la cartuccia dell’opera Monolith e parto. Rimuginando su una serata che non volevo passare in casa guardo il mondo dagli occhi di Rex, incantato, sempre più tranquillo. La direzione artistica che mi riporta alla mente la spensieratezza dell’era PlayStation 2, con i suoi mille JRPG che affollavano la line-up e la mia mensola, genere prediletto abbandonato, ancora, per mancanza di tempo e costanza, con le dovute eccezioni; Xenoblade, appunto. Un’oretta e poi è ora di cena, nessuna voglia di cucinare, neanche lontanamente, neanche per sbaglio. Pizza e birra con i miei, come non succedeva da tempo, in un’atmosfera calda, una di quelle serate che ti sciolgono il cuore col tepore della felicità vera, autentica, senza coloranti aggiunti. Leggermente ebbro e con le papille gustative appagate dalla magia culinaria del mio pizzaiolo preferito, Elvio, dio greco della margherita di bufala, torno nel mondo dei titani, sognando l’Elysium.

Poi però, prepotentemente, provvidenzialmente, ciò che vedevamo sbiadito, lontano, torna a bussare alla nostra porta, salvandoci dalle sabbie mobili della nostra crescita personale.

Niente da scrivere, niente da fare e la possibilità di dormire ad oltranza la mattina dopo. Lo spaziotempo si contorce tra le 21 e le 2 del mattino, portando il timer virtuale a segnare 6 ore di gioco, un long play come non ne facevo da anni, un’emoraggia di buon umore in cui le endorfine hanno invaso ogni angolo del mio cervello, il sospetto che si fa consapevolezza del videogioco come miglior cura artificiale (lasciamo da parte natura, amore, viaggi, piaceri troppo diversi, troppo importanti) quando ci si ritrova chiusi in sé stessi, in una stanza serrata abitata da scazzi, pensieri, rimorsi. Il resto dell’arte si fa guardare, ammirare, ascoltare, crea soggezione e ammirazione, emozioni talvolta incontrollabili, ma non entra mai in contatto con la persona. Lo guarda dall’alto della sua perfezione, fredda. Un distacco che il videogioco annulla e ripugna, un filo (ora invisibile) che collega pad, plastificazione della persona, alla macchina, catapultandolo in una simbiosi che ci mette tra le mani tutto lo spettro della creatività umana, arcobaleno di pensieri, idee, storie personali e sceneggiate, squarciando i momenti più neri in cui ognuno, prima o poi, finisce. Empatia totale, la pacca sulla spalla dell’amico di sempre pronto a rincuorarti. Certo, ci vuole l’opera giusta al momento giusto a volte, ma in quel momento si capisce che il vento sta ricominciando a soffiare nella nostra direzione, a spingerci e sostenerci, i pensieri sono più ordinati, il mondo è più colorato e il domani può essere preso di petto, anche mandandolo affanculo, pensando che in fondo anche noi, immersi nel mondo, stiamo un po’ giocando, interpretando un ruolo. È una storia, un’esperienza, uno sfogo che volevo mettere per iscritto, ringraziamento anonimo verso persone vere, tangibili, e anche virtuali. Più consapevole, forse più duro e un po’ meno ingenuo, ma sempre pronto a proteggere il bambino interiore che vuol dire vita, colore e calore, non solo tenendone la gioia egoisticamente dentro me ma condividendola con le persone che amo alla follia e perché no, con il pubblico di un sito di informazione videoludica.

 

Un gioco di cui prima o poi parlerò su queste pagine, The Cat Lady, interessantissima perla nascosta, avventura grafica dallo stile graffiante, macabro e teatrale conclude il suo ciclo con una frase tanto simbolica quando incredibile. Dopo aver passato qualche ora in compagnia dei suoi disturbati personaggi, chi malato fisicamente, chi mentalmente, chi rinchiuso in se stesso senza possibilità di uscita, dopo i titoli di coda e una toccante dedica a chiunque si trovi in fondo al pozzo, ci ricorda di vivere. “Press any key to live“. Tutto qui, il gioco finisce, ci ha aiutato, intrattenuto, per poi ricordarci di uscire e continuare con la nostra vita, arricchiti, più leggeri, commossi. Potenza di un medium che ai miei occhi non ha rivali, nonostante l’amore per l’arte tutta.

Che aspettate?

#LiveTheRebellion