Track 1
Overture: Alone, a long long time ago
Lo aveva capito già da tempo. Sulla sua strada si era imbattuto più volte in indizi che lo avevano fatto dubitare, memorie che non erano al loro posto e altre che invece non potevano essere nella sua memoria, un nastro che qualcuno – loro due, assieme, ora lo sapeva – aveva provato a sovrascrivere, senza però riuscirci del tutto. Non li aveva colti tutti, ovviamente. Col senno di poi avrebbe dovuto ricomporre i pezzi prima, soffiare via la coltre di maschere e menzogne che assieme avevano costruito. Premette il tasto play sul Walkman, sentendone il click riverberare nel silenzio della stanza.

 «Ora ricordi?»

 Certo, ricordava. Come poteva aver dimenticato? Come poteva sperare di poter essere ricondotto all’oblio, nel suo paradiso di ignara inconsapevolezza, dopo che l’evidenza dei fatti aveva sconvolto per sempre le sue sinapsi? D’improvviso, la placca di metallo conficcata nel suo cranio sembrò più pesante, mentre il suo arto fantasma sfogava una parte della frustrazione repressa contro lo specchio, spezzandolo in due regioni irregolari. Da un po’ di tempo l’aveva superato, ormai riusciva a sostenere lo sguardo della sua immagine riflessa, suo ma allo stesso tempo non suo.

 Non era stato facile. Come poteva? Aveva vissuto nella menzogna. Tutti, tutto il mondo, il mondo che aveva (avevano, erano stati complici) venduto era stato ingannato. Era il loro legame, prima ancora che il loro lascito. Bugie. Eppure era ancora la, era andato avanti nonostante tutto. Non aveva perso il controllo. Non lo aveva perso mai, in effetti. Perché come stava dicendo la voce, come aveva in fondo sempre saputo, loro due erano uno: due facce di una medaglia che nessuno aveva mai davvero coniato, pur non facendosi problemi a spenderla. Lo spettro di un sorriso, nato chissà da quale frammento di quel frattale che era la sua psiche, deformò i lineamenti che stava osservando attraverso le crepe nel vetro.

 Passato lo shock, razionalmente non c’erano motivi per non accettare l’impietosa evidenza dei fatti. Era un soldato, o quantomeno lo era stato (per quanto la mano che elargiva il “soldo” aveva ogni volta lineamenti diversi), per cui abituato ad essere una pedina in un gioco più grande di lui. Anzi, in questo senso la sua nuova posizione, il ruolo che avevano cucito per lui, lo metteva quasi a disagio. Andare sul campo senza fare domande era molto più semplice, l’equivalente armato del professare una fede incrollabile, mentre dall’altra parte non c’era spazio per nessun credo. Solo menzogne, menzogne da ostentare al punto da diventare certezze, ma mai verità. Non sarebbero mai potute diventare verità, se mai questa era esistita. Dubitava anche di quello ormai. Non del fatto che esistessero al mondo cose “vere”, verificabili ed universali per tutti, ma proprio dell’esistenza della verità come concetto, dell’idea identificata da quella parola, da quella serie di lettere disposte in quel preciso ordine. Il concetto di verità era probabilmente uno dei più grossi inganni che l’uomo aveva perpetrato in millenni di storia, mente al contempo costruiva interi sistemi per allontanarla. Loro però erano andati oltre, superato questo primato, ed era quello uno dei motivi per cui aveva deciso di stare al gioco. Essere Big Boss – essere una delle due manifestazioni di Big Boss – gli permetteva di sedere ad un tavolo di cui non avrebbe mai sospettato l’esistenza, pronto a giocare le sue carte secondo le regole col fine ultimo di scardinare proprio le regole stesse. Lasciare un segno. Avvelenare il retrogusto avariato delle loro bugie con delle illusioni più dolci, da lasciare ai posteri.

 La loro voce si spense, lasciando le casse del Walkman sole con il fruscio del rumore bianco. Non poteva essere tutto lì, lo sapeva. Girò la cassetta, degnando di uno sguardo incuriosito il lato B del nastro, quando vide l’etichetta: Operation Intrude 1313. Era arrivato il momento, ne avevano già parlato. Il momento di uscire allo scoperto. Cosa sarebbe successo, una volta scacciata la mosca che si stava preparando a schiacciare, non lo sapeva.

 Si era unito a quell’esercito senza padroni anche per quello. In un primo momento aveva deciso di arruolarsi attirato, come era successo a praticamente tutti i suoi compagni d’arme, dal fascino di Big Boss. Non aveva ancora capito, all’epoca. La falena che va verso la fiamma, Icaro che va verso il Sole, Lennon che va verso Yoko Ono. E quando era arrivata la sua, di fine, era stato contento di immolarsi per salvare quell’uomo, l’uomo che sarebbe diventato dopo gli anni che il coma gli avevano sottratto. Ma V alla fine era arrivato, e lui si era svegliato dal suo lungo sonno per andare ad infilarsi all’interno di un incubo. Ma per diversi motivi per lui non si trattava di un incubo; dopotutto adesso era davvero in condizione di influenzare gli eventi, di smettere di essere un pedone su una scacchiera immersa nel fango. E aveva solo dovuto rinunciare a quello che era: molto meglio che continuare a vivere una vita che comunque aveva già regalato a quell’uomo, molto meglio di continuare a vivere credendo in quella figura costruita ad arte da altri. Una figura che adesso avrebbero usato contro i suoi creatori, cercando di riportare il mondo a zero.

 Allontanò quei pensieri: era il momento.

 

Track 2
Interlude: We never lost control?
Il ricetrasmettitore emise un lamento sommesso, mentre stava indossando il resto dell’equipaggiamento che aveva scelto. Era lui. Lui stesso, come si corresse mentalmente quasi subito: l’identità di Big Boss, in tutta la sua doppiezza, ormai era parte di lui.

 «Sta a te, adesso. Usa l’altra frequenza per parlare con lui.» Le statiche scariche di fondo non nascondevano del tutto le note di incertezza nella loro voce. Il pivello era andato oltre le aspettative, oltre ogni pronostico. Era stato selezionato per fallire, ma – forse proprio in virtù del fatto di non esserne consapevole – era arrivato fino al quel punto. E adesso dovevano risolvere il problema.

 «Chi è lui?»

 «È uno di quei bambini terribili. Ne hai conosciuto uno, tempo fa. Lui ha l’altra metà dei nostri geni.» Dei tuoi geni, in questo caso. Potevano essere diventati uno nello spirito e nella mente, ma nel corpo – nel sangue, visto che grazie alla chirurgia plastica condividevano ormai anche i tratti somatici – erano ancora due. Una discrepanza destinata a sparire col tempo, visto la sua impossibilità di tramandare il suo materiale genetico. Una fiamma in più in cui forgiare la sua determinazione a lasciare un segno.

 «Lo hai scelto per distruggerci». Non era un’accusa. La scelta aveva perfettamente senso: Cypher aveva creato quel ragazzo, quella recluta, nel tentativo di avere ancora Big Boss dalla sua parte. Non per le sue leggendarie abilità di super soldato, ma semplicemente per portare avanti quella finzione che aveva costruito a tavolino. Un simbolo, una figura in grado di ispirare e suscitare ammirazione, gettare dei semi che poi col tempo sarebbero germogliati in una fedeltà cieca ed assoluta. Fedeltà da tradurre in milizie, soldati, timori tra le fila nemiche e coraggio in quelle alleate. Potere, in pratica. E poco importava se questo potere era solo nominale.

 «Una volta eliminato, non gli rimarrà altro. Ne sono sopravvissuti solo due, ma hanno deciso di puntare su questo. Ha i geni dominanti, o almeno così credono».

 «E se lo facciamo fuori non avranno più Big Boss. Solo noi potremo sfruttare il loro inganno». Nessun altro ostacolo sulla loro strada, niente a minacciare il paradiso in terra che stavano creando. Certo, avrebbero avuto ancora Eli tecnicamente. Ma Eli non era come David, era una cellula impazzita (ironico, come quella definizione gli calzasse a pennello) che non sarebbero riusciti a domare. Era David il bravo ragazzo, e stavano per occuparsene – Eli sarebbe stato un problema in futuro, ma comunque non un mezzo che Cypher (o il sistema in cui si era evoluto) avrebbe potuto utilizzare.

 «Sei pronto?»

 «Ho già iniziato. Credo che andrà avanti lo stesso, nonostante gli ordini che gli stiamo inviando. Se non è stupido ormai deve avere almeno qualche sospetto.» Fino a quel momento era stato davvero in gamba. Aveva eliminato tutti i luogotenenti che gli aveva inviato contro, era riuscito ad entrare nelle prigioni e aveva addirittura localizzato il Metal Gear, dopo aver carpito le informazioni sul come distruggere l’arma. Sapeva troppo, senza troppi giri di parole: non si aspettavano che arrivasse a questo punto.

 «È essenziale che non lasci Outer Heaven vivo». Attese in silenzio qualche secondo, le orecchie tese e pronte a carpire suoni raschianti che non arrivarono. Si aspettava che l’altro sé stesso desse istruzioni anche sul Metal Gear. Era il loro deterrente, alla fine, la minaccia che aveva reso Outer Heaven possibile: attacchi nucleari da qualunque angolo della Terra. Ma aveva ragione, potevano ricostruirlo (lo avevano già fatto, era stato solo dispendioso), mentre ai loro avversari rimaneva solo Solid Snake. Distrutta quella carta la partita sarebbe stata chiusa, e quindi andava fatto ad ogni costo. Adesso riusciva a contestualizzare meglio l’incertezza che aveva subodorato all’inizio. Non nascondeva nessun sottotesto, nessuna paura: era l’incertezza genuina di chi stava ancora decidendo sul da farsi, cercando di capire quanto in là sarebbe stato saggio spingersi. All in, si disse mentalmente.

 

Track 3
Postlude: We must have died alone
«Ho affidato la missione ad un pivello come te per farti inviare false informazioni, ma ti sei spinto troppo in là. Troppo. Solid Snake! Non morirò per nulla. Tu muori con me. Avanti!»

 Eppure, anche nel pieno della battaglia – di quella battaglia, la battaglia contro il fantasma di suo padre, anche se non poteva saperlo – il ragazzo era a suo agio. In modo quasi irritante, considerato che né le rivelazioni sulla vera natura di Big Boss né l’essere praticamente spacciato (poteva anche aver distrutto il TX-55, ma facendolo aveva condannato lui e tutta Outer Heaven) gli avevano impedito di gustarsi una sigaretta, mentre continuavano ad incrociare figurativamente le lame. E nemmeno, se è per questo, di armeggiare con il suo trasmettitore, probabilmente alla ricerca di qualche suggerimento su come affrontare Big Boss. O almeno quello che credeva essere Big Boss. Dannato ragazzino terribile. Raccolse tutta la sua forza di volontà per evitare di lanciare un’altra occhiata al conto alla rovescia che scandiva, inesorabile, quelli che sarebbero stati gli ultimi momenti della sua utopia. Della loro utopia.

 «Cosa ti dà tutta questa determinazione? Siamo condannati tutti e due. Non hai niente da guadagnare da questo scontro.»

 Nessuna reazione, nemmeno un flebile sussulto di quella striscia di fumo che usciva dalle sue labbra. Era come se il tempo per lui scorresse più lentamente, come se la folle corsa verso lo zero del contatore non avesse conseguenze su di lui. Esplose tre colpi in rapida successione con un movimento rapido della mano, e un ronzio sordo riempì la stanza: uno era andato a segno, ma a quanto pareva questo serpente non era nudo come quando si era intrufolato nel suo paradiso terrestre. Deve aver trovato uno dei nostri giubbotti antiproiettile qui in giro, non me lo aspettavo. Poteva essere un problema. Per quanto quell’armatura non potesse bloccare indiscriminatamente tutto e i suoi colpi fossero ancora in grado di lasciare il segno, ciò avrebbe inevitabilmente reso la battaglia più lenta. E al momento sono un po’ a corto di tempo. Mentre si riparava dietro un container, il mondo emise una vibrazione metallica, seguendo il ritmo imposto da quello che aveva l’aria di essere un razzo diretto contro di lui. Dove diavolo lo stava nascondendo? Si prese qualche secondo, prima di uscire allo scoperto aggirando il container e cercando di prendere il suo avversario alle spalle. Era pesantemente armato, per cui l’unica speranza di riuscire a liquidare la questione velocemente era sfruttare l’ambiente a suo vantaggio. Non appena intravide la figura di quel suo non-figlio, premette il grilletto altre tre volte, in rapida successione. Ma era già troppo tardi: un altro razzo viaggiava minaccioso verso di lui, e le pallottole ovviamente non lo avrebbero ostacolato o fatto esplodere prima. L’urto lo riportò per un secondo indietro nel tempo, indietro nella sua vecchia vita e nei suoi vecchi panni: proprio come quella volta, aveva protetto di nuovo Big Boss prendendo un colpo indirizzato a lui, e proprio come quella volta l’impatto – quello del colpo, ma anche delle decisioni che l’avevano portato a quella scelta – era stato terribile. Solid Snake, oltre la coltre rossastra che stava già iniziando ad annebbiare la sua vita, lo fissava ancora privo d’espressione e con la sigaretta ancora accesa. Sembrava deluso, quasi si aspettasse un combattimento più impegnativo, dopo tutte le peripezie attraverso cui era passato.

 «Ho distrutto il Metal Gear. Operazione Intrude N313 conclusa.»

 Riusciva già quasi a sentire il sibilo degli aerei sopra la sua testa. Se lo aspettava, venuto meno il deterrente nucleare era solo questione di pochi minuti prima che loro optassero per la soluzione più drastica: annichilimento totale, ma non prima di aver messo al sicuro i suoi preziosi geni. Oppure forse quello che sentiva era il suo sistema circolatorio, conscio di doversi fermare a breve ma deciso a completare almeno qualche altro giro di pista all’interno del suo corpo. Dannazione. Stava pagando, solo per la prima volta dopo tanti anni, il prezzo degli sbagli che avevano commesso assieme. Perlomeno adesso dovrai rimediare da solo anche tu. Il suo ruolo come maschera era giunto alla fine, e anche se la teatralità della performance non era stata quella che si sarebbe aspettato da uno scontro finale di quella portata, ormai era troppo tardi per porvi rimedio.

 «È finita. È finito tutto. Sto tornando alla base. Passo e chiudo».

 Per un perverso senso dell’umorismo, quelle parole si adattavano sia alla sua situazione che a quella di Snake. Questo era il suo lascito, alla fine: un lavoro incompiuto, un onere da lasciare alle altre sue spalle, mentre quello che rimaneva di lui si spegneva nell’ombra.

 

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