Antonino Lupo

Speciale Ars Ludica: l’Arte nei Videogiochi

Quando (e se) il videogioco smette di essere puro intrattenimento e allarga le proprie ambizioni, diventando parte di un dibattito che – per alcuni – non dovrebbe neanche esistere: i videogiochi sono una forma d’arte?

 

Fiumi d’inchiostro sono stati già versati per affrontare l’argomento, e c’è chi crede fermamente che, se anche esistessero oceani interi di vischiosa oscurità, tutte le ipotesi e tutti i dibattiti presenti e futuri potrebbero comunque non bastare. Tra chi si scaglia fermamente contro l’ipotesi affermativa (“I videogiochi non potranno mai essere Arte“; ci arriveremo) e chi, invece, si sente in dovere di difenderla (come AESVI e, in larga parte, chi scrive), il problema dell’Arte nei videogiochi alimenta dibattiti su Internet, sui Social Network e, di tanto in tanto, anche su testate prestigiose e riviste specializzate.

L’argomento è indubbiamente ampio e complesso, e affonda le proprie radici in un problema culturale e antropologico cui si è per lungo tempo cercato di trovare delle risposte soddisfacenti. Che cos’è l’Arte, tanto per cominciare? Prima di poter affrontare il problema, è necessario partire dalle basi. Preparatevi: sarà un viaggio lungo e a tratti noioso, ma chi scrive crede fermamente che sia tanto difficile quanto necessario.

 

Ars Ludica Videogiochi Arte

 

L’Arte: la Ricerca di una Definizione
La concezione del videogioco, oggi, è fortemente soggettiva
I dibattiti redazionali trascorsi (spesso sfociati in forconi ardenti, insulti agli antenati e un paio di soluzioni molto meno sobrie) hanno permesso a chi scrive di rendersi conto di una realtà sempre più evidente: la concezione del videogioco può variare da persona a persona, una realtà che il medium poteva non vantare con la stessa potenza nei primi anni della sua nascita. In molti, oggi, hanno una visione incredibilmente soggettiva del videogioco, ed è da questo assunto che bisogna partire: non è possibile accontentare tutti con una visione universale – una verità che, in parte, è anche propria dell’Arte stessa.

La prima cosa a cui si pensa, quando si parla di “Arte”, è un bel dipinto (ad esempio, di Botticelli) o una splendida scultura di Michelangelo. Eppure, il concetto di “Arte” è lontano (anche se non eccessivamente) dai semplici canoni della bellezza formale e della creazione visiva, tanto da essere concepito in modo diverso da cultura a cultura (gli orientali hanno una concezione completamente diversa dell’Arte rispetto a noi occidentali).

Allo stesso modo, sembra tanto facile dire “cosa non è Arte” quanto è difficile dire cosa, in effetti, lo sia davvero; questo perché l’Arte è in continuo mutamento: non è semplice trovare una definizione adeguata che sia valida per tutte le ere presenti e future. Basti pensare al WC d’oro di Cattelan esposto al Guggenheim di New York (perfettamente funzionante, per inciso), o, andando un po’ più lontano, alle Brillo Boxes di Andy Warhol. Riuscireste ad accostare tali opere a un quadro rinascimentale, a trovare in esse delle caratteristiche formali comuni? Eppure, indubbiamente, si tratta di Arte.

 

Brillo Warhol

Le scatole di detersivo “Brillo”, accatastate da Andy Warhol nel 1964 per farne un’opera d’arte

 

Slegandosi dai processi produttivi, alcuni filosofi dell’Estetica come John Dewey hanno tentato di trovare una definizione che si concentrasse più sulle esperienze stimolate dall’opera che su una caratteristica comune ad ogni produzione artistica. Ed è qui, finalmente, che il videogioco entra in campo. Dewey si mise in gioco proponendo il concetto di Arte come esperienza: chiamasi Esperienza Estetica quella particolare esperienza caratterizzata da una forte componente emotiva e cognitiva al tempo stesso; si tratta, in sostanza, di qualcosa che può colpirci “allo stomaco” e “al cervello”, in modo potenzialmente differente da persona a persona ma anche, in un certo senso, condiviso (tutti concordiamo sulla bellezza di una scultura di Canova; eppure, ognuno ne fruisce in modo diverso). E non è difficile pensare a quanti videogiochi siano già in grado di farci vivere esperienze simili.

 

Il videogioco, come l’arte, sa essere fonte di straordinarie esperienze cognitive ed emotive

 

Partendo da queste lunghe – e, al tempo stesso, fin troppo sintetiche – premesse, questo articolo si muoverà per sostenere l’idea, l’ipotesi, la possibilità di concepire il videogioco come forma d’arte, e tutte le sue conseguenze. Facendo bene attenzione a non cadere in banalizzazioni del medium e a non commettere ingenui errori scolastici (quali una classificazione dei videogiochi “artistici” e dei videogiochi “non-artistici”, forse applicabile al passato ma oggi indubbiamente anacronistica). Nel corso della nostra analisi, richiameremo spesso i linguaggi e la storia di un’altra arte giovane, sviluppatasi in poco più di un secolo: il Cinema.

 

 

Un’Arte giovane
Arti con meno di un secolo di vita
Il problema primario del videogioco è che, se vogliamo definirlo “l’ottava arte” (come qualcuno ha anche azzardato fare), non possiamo prescindere dal collocarlo in un’epoca storica e dall’osservare tutto il suo ciclo evolutivo. È un problema che anche il Cinema ha dovuto affrontare, specie nei primi anni della sua vita: nato il 28 Dicembre del 1895 ad opera dei leggendari Fratelli Lumière, la Settima Arte ha ad oggi poco più che un secolo, ma è già riuscita a sviluppare dei propri linguaggi grazie allo spropositato numero di autori che si sono susseguiti nella produzione cinematografica. E ha, in ogni caso, combattuto parecchio per poter essere messa a confronto con le altre “Belle Arti”, come Letteratura, Pittura, Scultura, Teatro e così via.

Il videogioco, dal canto suo, ha vissuto a malapena metà di quel periodo, in termini temporali. Indubbiamente l’incredibile evoluzione tecnologica ha aiutato nello sviluppo delle forme odierne, ed è altrettanto indubbio che oggi qualcosa stia iniziando a muoversi; così come il Cinema ha dovuto attendere le Avanguardie per iniziare a mettersi realmente in discussione, in fondo, anche il videogioco ha trovato una maggiore identità autonoma con l’esplodere del mercato Indie. Ma c’è ancora molta strada da fare.

E l’approccio più sbagliato è indubbiamente cercare di accostarlo a tutti i costi a quella che viene definita “l’Arte elevata”, quella con la A maiuscola, quella della pittura, della scultura e delle altre pratiche artistiche elencate qualche riga più su. Tale concezione di arte è ormai fin troppo lontana dagli standard odierni (si vedano le già citate Brillo Boxes o il WC d’oro, per dirne solo alcuni), e i pochi esempi “anticonvenzionali” che abbiamo già citato non fanno che confermare una semplice verità: quello di “Arte” è un concetto aperto, disposto a mutare e ad accogliere sempre nuovi standard col passare del tempo. A patto che vi siano le condizioni necessarie, è ovvio, spesso dipendenti dal contesto; un contesto in cui il punto di vista degli accademici ha un’importanza affatto trascurabile.

 

Journey

 

Il “Disinteresse” degli Accademici
Chi dice che “una teoria del videogioco non esiste” non ha evidentemente speso abbastanza tempo a documentarsi. Diverso è dire che “della teoria del videogioco non si parla“, e questo è indubbiamente esatto; eppure, una teoria del videogioco esiste già in ambienti accademici, ed è anche abbastanza ricca di contenuti: scuole anglosassoni sono caratterizzate da una certa visione del videogioco, scuole americane da un’altra; c’è un’attenzione a volte per la “struttura” e a volte per “l’esperienza utente”; c’è chi si concentra sulle “forme” e chi sui “contenuti”, e così via. Ma, proprio come il pubblico del cinema delle origini, i fruitori del videogioco sono spesso semplici giovani (o ex-giovani) che in esso vedono esclusivamente delle forme di intrattenimento puro, lasciando ai “grandi” tutte le eventuali dissertazioni sul medium e sulle esperienze da esso fornite.

 

La teoria del videogioco esiste, ma non è argomento di discussione; né tra i giocatori, né tra la critica.

 

E, sia ben chiaro, questa non è una critica dal retrogusto snob mossa ai fruitori del videogioco, né intende esserlo: i nostri figli avranno probabilmente una concezione diversa del mezzo ludico e i nostri nipoti un’altra ancora, così come è senza dubbio accaduto per il Cinema nei suoi primi anni di vita, finché non si è andata lentamente formando quella che è la critica cinematografica odierna. È una semplice questione di contesto storico e culturale, qualcosa che, insomma, raramente dipende dalla nostra diretta volontà. Col passare del tempo, il videogioco non potrà fare a meno di evolversi sempre più, andando oltre quel “disinteresse accademico” che ancora non coinvolge gli adulti ma che, nel giro di qualche generazione, potrebbe cambiare radicalmente le carte in tavola.

 

Le “Avanguardie Ludiche”: il Mercato Indipendente
Certo, il problema della cosiddetta “Ars Ludica” non si sarebbe posto assolutamente anche solo una quindicina di anni fa, quando la sesta generazione di console (PS2 / Xbox 360) era appena nata e raramente il videogioco si discostava da quella perfetta “dicotomia” tra sfida e narrazione (di cui parleremo fra poco) sviluppatasi nel vivo degli anni Novanta. Con l’avvento di Steam e l’esplosione del digital delivery, tuttavia, le cose cambiarono a dismisura: dopo qualche anno di assestamento, il mercato indipendente comprese di aver trovato una domanda abbastanza voluminosa in tutto quel bacino di utenza che cercava “qualcosa di diverso” dai soliti titoli delle grandi produzioni, produzioni che indubbiamente non amavano osare investendo i propri soldi in sperimentazioni troppo azzardate (ti ricorda qualcosa, Hollywood?).

 

 

Con un termine forse prematuro e passibile di critica, azzardiamo qui il concetto di “Avanguardia Ludica“: sebbene non ci siano ancora degli studi ben precisi in grado di delimitare delle tendenze artistiche chiare e definite, è indubbio che il mercato Indie abbia portato una piacevole ventata di aria fresca nel panorama videoludico internazionale, e la diffusione di Internet su scala globale ha permesso ad “artisti ludici” provenienti da tutto il mondo di provare a lanciarsi sulle piattaforme di distribuzione online, proponendo le loro idee (spesso originali e interessanti) e aiutandoli a raccontare le proprie storie. Con questo non vogliamo assolutamente fare un’apologia esclusiva del mercato indipendente, e le nostre successive analisi (tra cui figurano nomi come Uncharted e Shadow Of The Colossus, per dirne solo alcuni) saranno utili a delimitare la questione in tal senso: la cosiddetta “artisticità” (nel senso promosso da questo articolo; seguiteci) e la creatività possono trovarsi anche nelle grandi produzioni, e ciò, specie nello scenario odierno, è indiscutibile.

Ciò non toglie che, a volte, le produzioni indipendenti riescano ad avere “quella marcia in più”: titoli come Life Is Strange, dall’indiscutibile impatto emotivo e cognitivo, o perle visive come Monument ValleyBraid e molti altri. Persino l’originalità dello strambo Pony Island potrebbe essere passibile di “artisticità”, nel suo essere destabilizzante e nel suo saper convogliare un’idea autoriale ben precisa e definita (il mash-up di generi, ad esempio), il tutto corredato dall’utilizzo di estetiche tutt’altro che casuali. Ma è un argomento che affronteremo nella pagina successiva.

 

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