Quello tra pirateria e videogiochi, come in tutti i settori in cui di fatto si creano idee più che prodotti, è un malsano e infelice matrimonio. Ma nell’industria si sta facendo davvero tutto il possibile per arrivare all’agognato divorzio?
Quella che vi apprestate a leggere non è e non vuole essere un’apologia della pirateria. Se eravate a caccia di un’opinione più o meno autorevole (noi propendiamo per il meno) in difesa dei vostri hard disk pieni di warez rimarrete inevitabilmente delusi: la riflessione che segue parte dall’assunto che si tratti di un fenomeno da combattere con tutte le forze possibili. E proprio per questo uno degli aspetti focali è questo: si sta facendo davvero il possibile per debellare il fenomeno?
In parallelo però va considerato anche un altro aspetto della faccenda. È opinione di chi scrive che i videogiochi (al pari di libri, film e serie tv) siano da ritenersi parte della cultura. Chiaro, il fine ultimo è alla fine quello di intrattenere, ma, trattandosi di “viaggi” all’interno di quello che gli autori volevano trasmettere, di vere e proprie esperienze, è inevitabile che durante il tragitto entrino a far parte del proprio bagaglio personale. Come succede appunto con libri, film e serie tv.
Con la grossa differenza che però si tratta di un medium con più barriere in ingresso rispetto a libri, film e serie tv.
Quello del creativo è comunque un lavoro, e come tale va retribuito
Intendiamoci: il diritto d’autore è una delle poche cose veramente sacre a questo mondo, ed il desiderio di essere ricompensati per i propri sforzi e le proprie idee è fuori da ogni dubbio legittimo. Anche dal punto di vista economico. Chi sta scrivendo poi al momento vive proprio in virtù del fatto di essere pagato per scrivere software, per cui è inevitabile che la pensi in questo modo. Ma da grandi poteri derivano grandi responsabilità, e gli autori hanno allo stesso tempo anche dei doveri nei confronti dell’utenza, tra cui quello di agevolare il più possibile la fruizione delle loro opere. E da questo punto di vista, per quanto si siano fatti davvero parecchi passi avanti negli ultimi anni, i videogiochi sono rimasti al palo. Eppure (anche per via del background culturale di alcune figure di rilievo all’interno dell’industria) il potenziale per essere il medium portabandiera di questa necessità c’era tutto, e per una decade abbondante è anche stato incarnato. Quand’è che insomma il non-movimento videoludico si è imborghesito, smettendo di cavalcare i vantaggi derivanti dall’essere una forma di intrattenimento giovane, e si è lasciato superare dai suoi concorrenti indiretti? Domanda non banale e a cui è necessario rispondere, visto che le sacche di resistenza che resistono lo fanno anche in virtù di questi limiti.
Quello che è stato fatto
La pirateria è diventata “più difficile”, o meglio meno comoda
Per arrivare a poter dire cosa attualmente manca per contrastare il fenomeno della pirateria, bisogna partire da cosa è stato fatto. Ed indubbiamente è stato fatto molto, se si guarda a quello che era lo scenario tre o quattro generazioni fa. Il tempo infatti non è stato clemente con la pirateria, andando a creare grossi grattacapi ai cracker di turno (piccola postilla: non utilizzare il termine hacker a caso, accomunando questa etichetta a gente che non la merita da nessun punto di vista) semplicemente per via dell’evoluzione tecnologica del videogioco. Una cartuccia per NES poteva contenere una manciata di megabyte, mentre un gioco moderno occupa decine di gigabyte: nei termini dell’uomo della strada, se prima i prodotti potevano contenere qualche milione di zeri o di uni, adesso sono formati da miliardi di queste sequenze. Il che vuol dire che, banalmente, anche se Internet ha accorciato le distanze e non sempre c’è la necessità di riversare il tutto su CD (o meglio, sui suoi sequel), procurarsi un gioco pirata costa del tempo. A questo punto si potrebbe obiettare che il progresso però si è mosso anche da questo punto di vista, e specie fuori dall’Italia (dove la qualità delle connessioni Internet non è tale dal dover ingraziarsi qualche divinità pagana prima di un download) la velocità della rete è sensibilmente in aumento. Verissimo, ma bisogna anche considerare che quei miliardi di zeri e uni di cui parlavamo sopra vanno fisicamente (ok, passateci il termine) ospitati da qualche parte. E lo spazio costa, anche quando si parla di memoria: non tanto a chi poi fruisce di prodotti piratati, quanto a chi li distribuisce. E per quanto si possa in buona parte ovviare a queste problematiche utilizzando modelli e architetture peer-to-peer (praticamente: delle reti in cui ogni elemento è sia client che server, quindi può sia dare che ricevere dati nel nostro caso) rimane comunque vera una cosa:
Scaricare giochi pirata non è diventato impossibile, ma è comunque meno user friendly dell’acquistarli alle bancarelle come ai tempi della prima PlayStation.
Il mondo mobile ha avuto influenza anche qui
Tanto più che mentre il software diventata più complicato, l’hardware non è stato da meno. E in un primo momento, il fatto che dai semplici BIOS delle prime macchine da gioco si sia passati a firmware più vicini – sul fronte delle potenzialità – a quelli di Sistemi Operativi fatti e finiti ha anche giocato a favore dei pirati, facendo per esempio venir meno la necessità di dover masterizzare le presunte “copie di backup” su supporto ottico e permettendo di caricarle direttamente da hard disk. Ma poi qualcosa si è inceppato, e da un lato le macchine da gioco sono diventate decisamente più difficili da bucare (basti pensare a quanto sia stato difficile violare PS3 e a quanto siano relativamente ancora “vergini” PS4 e One), mentre dall’altro è anche venuta in molti senso meno la necessità di aggirare i limiti imposti dalle case costruttrici. Questo essenzialmente per via del “fattore mobile”: ai tempi di PSP, per esempio, l’installare un custom firmware sulla portatile Sony non voleva dire banalmente limitarsi a fruire abusivamente della softeca della macchina, ma anche (e in qualche caso soprattutto) installare software homebrew, programmi più o meno complessi scritti in casa che ampliavano notevolmente le potenzialità della console. Con l’avvento degli smart device però tutto questo è diventato un esercizio di stile: certo, potreste acquistare una PSP in questo momento e, investendo un paio d’ore scarse, installare (per esempio) un client di posta per leggere le email, un programma per controllare da remoto il vostro PC e finanche qualche emulatore per vecchie console.
Ma a che pro farlo, quando basta aprire il Google Play Store di turno e semplicemente cercare l’app di cui avete bisogno ed installarla, spesso senza nemmeno dover pagare nulla?
È anche per questo che l’attenzione della scena hacker (questa volta si, è corretto utilizzare il termine) si è spostata su altri lidi. Immaginate di far parte di un collettivo di prestigiatori che deve scegliere dove esibirsi. A disposizione c’è un palco ben illuminato, con una platea più vasta e con più spettatori (paganti o meno) in poltrona. L’alternativa è un teatro più fuori mano, con meno pubblico e dove per potersi esibire è necessario compilare più scartoffie (e può anche capitare di incorrere nelle ire, e nelle cause legali, del proprietario della struttura). La scelta è abbastanza scontata. Questo non vuol dire che nessuno salirà sul secondo palco, ma che semplicemente è meno appetibile del primo.
Abbiamo tenuto per ultimo il mondo PC, che è quello che storicamente si è mosso prima (e meglio) su questo fronte. Il merito? A costo di sorprendervi, dovendo attribuirlo a qualcuno punteremmo il dito verso Steve Jobs. Non perché ha reso di massa il concetto di Personal Computer, ma perché sua è l’intuizione che ha messo più alle strette la pirateria nell’ultima decade, per quanto sia stata applicata nel contesto musicale: iTunes ha reso la fruizione della musica digitale dal punto di vista dell’esperienza utente decisamente più comoda e meglio organizzata del dover andare alla ricerca dell’album prescelto in rete. Il tutto chiedendo meno di un dollaro a brano.
Una tariffa sulla pigrizia, che l’utente si è dimostrato ben disposto a pagare. Cosa che non è sfuggita a Gabe Newell.
Steam ha infatti praticamente preso la stessa idea e l’ha adattata al contesto del PC gaming, trasformandolo nel giro di qualche anno da un equivalente informatico della Tortuga di Pirati dei Caraibi ad approdo sicuro per chiunque volesse distribuire software. Cosa che tra gli altri benefici ha poi permesso anche a mercati più “aperti” e DRM-Free (ovvero, dove il software viene distribuito senza nessun sistema di protezione) di proliferare, andando a chiudere il cerchio sull’etica hacker cui accennavamo più su. Peccato che poi il mondo della musica sia passato al naturale step successivo, mentre i videogiochi no.
Vogliamo Spotify
Cosa manca? Abbiamo iTunes, adesso vogliamo Spotify
La musica infatti ha assistito all’esplosione del fenomeno Spotify. Per quanto riguarda film e serie tv, c’è stata una manovra analoga che ha portato alla diffusione globale di Netflix e alla discesa in campo di servizi analoghi da parte del mercato classico. Anche nei libri, grazie per esempio ad Amazon, l’accesso ai contenuti è diventato più semplice ed economico, vista la libreria messa a disposizione in abbonamento tramite Kindle Unlimited e i tantissimi classici della letteratura disponibili gratuitamente in formato ebook. Nel mondo dei videogiochi, che per primo ha smosso le coscienze da questo punto di vista e ha sperimentato modelli alternativi come lo shareware? Per il momento si è visto troppo poco. Sì, PlayStation Plus ha la sua Instant Game Collection (a cui poi Microsoft ha risposto con il suo Games with Gold), ma si tratta di una selezione decisamente limitata rispetto agli esempi citati per gli altri medium. Si è visto, a proposito di Microsoft, un passo convincente (e che ci auguriamo abbia tutto il supporto necessario per imporsi ed essere imitato) con Xbox Game Pass. Sul mercato PC invece un’iniziativa simile è quella di Utomik, che sempre dietro abbonamento mensile permette di “noleggiare” i giochi inclusi nel suo catalogo. Ma è una storia recente, laddove proposte del genere richiedono anni per riuscire a sdoganarsi definitivamente: siamo in buona sostanza ai primi vagiti di quello che potrebbe essere il futuro (ed un validissimo deterrente per la pirateria), ma la strada è ancora lunga.
Dove invece il medium è pesantemente in alto mare, tanto da aver lasciato colpevolmente spazio a zone grigie e a mercati paralleli ai limiti del legale di acquisire volumi importanti, è il passato. Il retrogaming fino a questo momento è stata una pratica scarsamente considerata dalle grandi case sul mercato, Valve a parte. Errore madornale, soprattutto da parte di Nintendo. Nintendo è infatti senza il minimo dubbio la casa che, dal punto di vista storiografico, ha il portfolio più pesante e ricco da offrire: anni e anni di titoli di qualità indiscutibile, veri e propri classici che (come dicevamo in apertura) sono da ritenersi in tutto e per tutto parte della nostra cultura. Ma non “nostra” come videogiocatori, “nostra” in quanto genere umano. Eppure in un mondo dove, viste le console d’origine, procurarsi ROM di questo ben di dio è tremendamente facile, e più facile ancora è fruirne sulla piattaforma che si preferisce, Nintendo testardamente ha mantenuto un atteggiamento quasi ostile al fenomeno. Non solo dal punto di vista dei prezzi, assolutamente fuori mercato e ai limiti dell’improponibile nella maggior parte dei casi, ma soprattutto sul fronte della fruizione. Se avete acquistato titoli Virtual Console su Wii, quando su Wii U lo stesso titolo si è ripresentato sul catalogo a Kyoto si sono limitati ad offrirvi uno sconto, invece che aggiungere il prodotto alla vostra libreria virtuale (non male, per quelli che erano ritenuti fino all’altro ieri i paladini della retrocompatibilità). E molto probabilmente adesso su Switch succederà la stessa cosa: toccherà aprire il portafogli per l’ennesima volta, piuttosto che adeguarsi a quello che in massima parte già sta facendo la concorrenza. Ed è un peccato, visto che non solo è valido il ragionamento qualitativo fatto sopra, ma Switch per via della sua natura ibrida sarebbe la macchina ideale per i retrogamer, se la pratica fosse economicamente sensata (e sostenibile). Lasciando perdere poi cosa potrebbe fare Nintendo qualora decidesse di rendere la sua Virtual Console davvero cross-platform, e/o aggiungere la possibilità di abbonarsi in perfetto stile Netflix per godere di tutto il catalogo. Soldi facilissimi e utenza in delirio, che però evidentemente a Kyoto non interessano.
Eppure siamo ad un passo
Per tutti questi motivi, ora come ora la pirateria ha il suo futuro nel passato, nel senso che l’unico ambiente dove effettivamente questa ha senso di esistere (e specifichiamo: non stiamo incentivando o liberalizzando la pratica in nessun modo, solo prendendo atto di come sia, ahinoi, più fruibile in modo illegale) è quando si parla di retrogaming. Il nostro auspicio è che si compia finalmente quel doveroso passo successivo per confinare definitivamente il fenomeno nel passato, cioè nei ricordi di chi ha fatto uso di software pirata: basterebbe veramente poco, e ne guadagnerebbe tutta l’industria.
Perché se davvero siamo convinti che il videogioco faccia parte della cultura, bisogna fare il possibile per renderlo davvero accessibile senza barriere artificiose.
Senza, come detto, andare a ledere il principio fondamentale del diritto d’autore: il rispetto ed il riconoscimento nei confronti di chi crea contenuti è letteralmente il minimo che l’utenza possa offrire ai suoi autori preferiti.
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