Un giocatore, uno schermo e un sistema di gioco. Quando si parla di videogame, questo è ciò che pensano in molti, che non ci sia nulla di più complicato di questo. Ore di divertimento e qualche occasionale momento di isteria comica da condividere su Youtube o Twitch.

Lo abbiamo detto tantissime volte: il medium è cambiato. Fatevene una ragione
Già. Beh, se anche voi la pensate in questo modo, benvenuti nel 2017, dove la realtà non è proprio la fantasia disneyana che immaginate. Già nelle scorse settimane ne abbiamo parlato, ma l’industria videoludica e tutto l’universo che ci gravita attorno sono estremamente più complesse della semplice equazione “giocatore + gioco + controller = videogame”. C’è chi, come noi, la tocca a livello giornalistico, parlandone e approfondendo. Chi invece ci mette il cervello e le idee, chino su una tastiera a programmare. Chi invece si occupa del marketing e delle vendite, e come in tutti i casi di “industria”, capita che non sempre sia il massimo della trasparenza… Ecco, tutto questo lungo preambolo per arrivare sin qua, al nocciolo della questione: se negli scorsi speciali abbiamo parlato di informazione, disinformazione e nuove tendenze nello sviluppo, stavolta vogliamo parlare di uno di quegli argomenti che, di tanto in tanto, risaltano fuori e su cui tutti, bene o male, si improvvisano esperti.

 

Stiamo parlando dei giochi usati. Ma ha davvero senso parlarne nel 2017?

 

 

Il cerchio della vita
Circle of Life: “istigazione a delinquere” verso i commessi?
La scintilla, stavolta, l’ha fornita Kotaku: i nostri colleghi d’oltreoceano, infatti, hanno dato il via a quello che è ormai noto come il Caso Gamestop, una situazione che, a due settimane dal suo scoppio, non sembra essersi ancora placata. Da molti anni, la catena ha tra le sue politiche attive la cosiddetta Circle of Life, ossia la restituzione di un gioco per ottenere uno sconto sull’acquisto di un nuovo titolo, incentivando così sia il mercato dell’usato sia quello del nuovo. Sulla carta una buona politica, persino a vantaggio del cliente, ma i commenti dei dipendenti fanno supporre tutt’altro. Una delle maggiori fonti di guadagno per Gamestop, infatti, è proprio il mercato dell’usato, dove il margine di ricavato (ossia la differenza tra quanto pagato dall’azienda e quanto ottenuto dalla vendita del prodotto) raggiunge percentuali molto sopra il 50%. In quest’ottica, è facile capire come l’azienda imponga ai propri negozi degli obiettivi di vendita che spingano molto sul convicere il cliente ad acquistare usato, o perlomeno a restituire qualcosa di rivendibile con l’acquisto di un prodotto nuovo. Negli ultimi mesi, tuttavia, questa politica si è fatta estremamente aggressiva, al punto di mettere degli obiettivi che una maggioranza di dipendenti reputa impossibile da raggiungere lavorando onestamente, e in molti hanno pubblicamente ammesso di mentire ai clienti stessi per spingerli verso i titoli usati, pena la minaccia del licenziamento in tronco. Lo stesso Jason Schreier di Kotaku ha raccolto oltre un centinaio di testimonianze, che confermano come questa non sia solo una minoranza vocale (tesi sostenuta invece dalle alte sfere di Gamestop in un comunicato di risposta), e la cosa sembra essere (come segnalato dai colleghi di Multiplayer.it) in atto anche in Italia!

 

“…è una giostra che va…”

 

Se non puoi batterli
Verità o meno delle pratiche scorrette, una cosa di fondo è certa: la politica di Gamestop sembra basarsi su una realtà che non è più la stessa in cui stiamo vivendo quest’oggi. Chi ci seguiva ai tempi delle rubriche “Viewpoint” su Tom’s Hardware, probabilmente ricorda che qualche anno fa il sottoscritto aveva seguito da vicino la questione Microsoft e giochi usati su Xbox One. Anche un anno prima del lancio dell’attuale ammiraglia casalinga di Redmond, infatti, si parlava di mercato dell’usato, anche se con toni ben più allarmistici. I dati portati da Microsoft, infatti, sembravano indicare nei titoli usati un nemico da debellare, che impediva alle compagnie di trarre profitto dalla vendita dei propri giochi nuovi. L’idea di combatterli con un codice monouso per legarlo permanentemente ad una sola console, venne accolta con il disprezzo più assoluto dalla community, tant’è che durante l’E3 2013 Sony fece il botto di consensi limitandosi a prendere in giro l’assurda politica di scambio e compravendita dell’usato di Microsoft.

Altre compagnie si sono macchiate di tale “crimine”, prima fra tutte EA e gli assurdi tentativi di imporre DRM e un numero limitato di attivazioni per copia dei propri titoli. Giochi come SimCity hanno provato a nascondersi dietro lo scudo del combattere la pirateria, inutile dire che la cosa non ha funzionato granché.

 

Ora, dopo quattro anni, il caso Gamestop sembra invece dare il segnale che il mercato dell’usato è passato da spauracchio innominabile a realtà ampiamente accettata, visto che i tentativi di combatterlo hanno causato più danni che guadagni. Ma allora perché così tanti problemi per una politica che si basa proprio su questo mercato? Semplice, perché Gamestop, così come Microsoft prima ed EA dopo (e tanti altri nel mezzo), non sembrano aver afferrato che il mercato dell’usato non è poi il gigante che si immaginano.

 

“…e nemmeno questo genere di gigante…”

 

… Aspetta, si che puoi!
Premessa necessaria e doverosa: chi vi scrive non è né laureato in marketing né tantomeno un analista di mercato, ma ha semplicemente lavorato per anni nel settore retail, a contatto tutti i giorni con videogame, console e PC. Nella mia modesta esperienza, posso azzardare un’ipotesi: chi entra in un negozio specializzato con l’idea di comprare un gioco, spesso e volentieri, rifiuta a prescindere l’usato, complice anche la bassa qualità dei titoli spesso riportati sullo scaffale.

Questo era vero ai tempi di Blockbuster, ed è vero tutt’ora: molti dei titoli con il bollino “usato” sono spesso giochi sportivi annuali, rimpiazzati dalle versioni più aggiornate, o titoli che prima dell’avvento del digital delivery venivano giocati giusto il tempo di accorgersi della loro bruttezza, per poi essere confinati a prendere polvere permanentemente. I tripla A usati finiscono rapidamente, e in genere ormai si tende a distribuirli più su servizi come Steam, Origin e Uplay (ricordate? Si parla di quasi un raddoppio annuale), che in formato fisico. Persino gli sviluppatori indipendenti e i piccoli studios, in teoria i più danneggiati dal commercio dell’usato, si sono gettati di prepotenza sulla distribuzione online come mezzo per restare competitivi.

 

 

Un mercato che somiglia ad un morto che cammina
In questo sta l’errore di Gamestop: basare le proprie percentuali su un mercato dell’usato che forse esisteva una decina di anni fa, ma che con l’avvento del digitale è andato progressivamente ad assottigliarsi. Se dei cento titoli che ipoteticamente escono in un anno, circa la metà è in distribuzione digitale esclusiva, e l’altra metà viene smerciata nei negozi con collector’s esclusive e codici per il download digitale di contenuti extra, qual è il senso di rivenderli? Questo, ovviamente, senza parlare della nuova mania delle collector’s edition senza gioco incluso, una pratica (tra l’altro applicata dalla stessa Gamestop) che personalmente trovo assurda, ma che almeno contribuisce a dare quel “valore aggiunto” ad un prodotto che ne limita il desiderio di rivenderlo.

Se poi a questo aggiungiamo il fatto che sempre più compagnie preferiscono inserire contenuti DLC a pochi spiccioli, ma distribuiti a pioggia (Valve e i cappelli di Team Fortress vi suonano familiari?), seguendo il modello dei titoli pay-to-unlock a cui persino Ubisoft si è convertita in Assassin’s Creed Syndicate… Già nel 2013 il mercato dei DLC riusciva ad essere competitivo con quello dell’usato, a maggior ragione il 2017 dovrebbe essere un anno di “presa di coscienza” di certi dati.

Ed è inutile, allora, che le catene impongano una quota del 60-70% delle vendite fatta solo di usati, quando quella su cui si basa è una visione che ormai non esiste più da qualche anno. Tutto ciò che si ottiene è solo un cliente inferocito e una pessima pubblicità.

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