Ah, le festività natalizie… Periodo di buoni propositi, regali, rimpatriate di famiglia…
…e
saldi videoludici. Non so voi, ma per chi come il sottoscritto è cresciuto negli anni ’90, natale e videogame assieme hanno sempre significato un’atmosfera particolare: la scelta, l’attesa, la trepidazione nel trovare sotto l’albero proprio quel gioco tanto desiderato, per poi scoprire magari che non era tutto ‘sto capolavoro, ma lo giocavi lo stesso per: A)
mancanza di alternative e B) troppo orgoglio per ammettere di aver speso male una discreta sommetta.
“Il mio…TESSSSSORO…”
Provate a farlo ora, un ragionamento simile. Sfido chiunque abbia mai attivato un account Steam (
o GOG, o Play Store, ecc…) a dire, specie sotto saldi, “oh, non ho niente con cui giocare”. Anzi, forse quella che è
la più grossa piaga dei giocatori del nuovo millennio è proprio il “backlog”. La lista di titoli nell’inventario, acquistati con l’intenzione di metterci mano, prima o poi, ma che inevitabilmente finiscono per prendere metaforicamente polvere abbandonati nelle profondità del server. Io stesso, per scrivere quest’articolo, sono andato a controllare nel mio profilo, (ri)scoprendo con sorpresa almeno sei-sette titoli di cui avevo completamente dimenticato l’esistenza. E mi posso ritenere fortunato.
Con cataloghi come quello di Steam che conta oltre 11.000 titoli, purtroppo, è inevitabile che
pagine e pagine di giochi finiscano per accumularsi, complice il costo relativamente più contenuto rispetto alle tanto desiderate cartucce anni ’90.
A piedi.
A parte questo inconveniente, però, verrebbe da pensare che il paragone con vent’anni fa sia tutto
a vantaggio esclusivo della distribuzione digitale, no? Pensiamoci un attimo: ampia varietà di cataloghi, tutto disponibile a portata di click (a volte anche prima, cortesia degli early access):
l’economia digitale è stata la manna dal cielo per i giocatori e il mercato, giusto?
…beh, forse è meglio fare un passo indietro, riguardo alla vastità di titoli disponibili. Prenderemo come esempio principale Steam, ma è
un discorso che vale per qualsiasi altro store digitale. Dal 2007, anno in cui è stato inaugurata, la piattaforma ha visto una crescita esponenziale costante nelle aggiunte al catalogo, culminata quest’anno con un 38% di novità sul totale (la bellezza di 4000 titoli solo nel 2016). Se di suo questo non è necessariamente un male, ed è anzi una naturale conseguenza della diffusione dell’economia digitale, lo diventa quando andiamo a prendere in considerazione anche il tipo di titoli e la qualità degli stessi.
Nove anni di crescita esponenziale
Basta fare un rapido giro di ricerca direttamente dalla pagina principale di Steam,
filtrando solo per videogame (escluse quindi demo giocabili e software non ludici), per accorgersi che di oltre 400 pagine,
più di 300 sono riservate ai titoli indie, e di questi, solo un terzo ha un punteggio di recensioni pienamente sufficiente. Il resto (e dispiace dirlo) è perlopiù una massa di titoli che non riesce ad emergere, o peggio ancora, cloni con poca anima e ancora meno originalità.
Ovvio, si tratta pur sempre di recensioni utenti e quindi da prendere con le molle visto che
nessuno obbliga ad essere imparziali nei voti. C’è però da dire che alla base delle recensioni negative ci sono quasi sempre concetti simili: mancanza di originalità, bug, gameplay ripetitivo e così via.
…QUASI sempre…
I motivi possono essere diversi: vuoi una base d’utenza sempre più variegata, vuoi il dover subire la concorrenza del mobile (o addirittura doversi adattare a certe architetture più limitate, nel caso di multipiattaforma), vuoi una facilità di sviluppo maggiore rispetto a vent’anni fa, che
permette a quasi chiunque con un po’ di competenze e un’idea di mettersi al lavoro, e in contemporanea il rallentamento del mercato dei tripla A, con i giganti del settore che ci vanno sempre più coi piedi di piombo.
Un’idra dalle molte teste, insomma, tutte collegate fra di loro, e che richiama alla mente le stesse premesse che portarono ad una cosuccia da niente nella storia videoludica:
il grande tracollo dell’83. Per chi avesse poca familiarità con l’evento, si tratta del crollo del dominio di Atari nell’era delle prime console, dovuto ad un’inflazione di titoli disponibili. Questi,
distribuiti a pioggia su una miriade di piattaforme, ognuna con il proprio catalogo, causò un
sovraccarico del mercato, con un’offerta fin troppo superiore alla domanda. Nel frattempo, la
feroce concorrenza tra team di sviluppo per accaparrarsi una nicchia di vendita, si risolse a spese della qualità dei titoli: tempi di sviluppo troppo brevi, poca originalità e svariati problemi, causarono il rapido allontanamento dei giocatori, cercando altre piattaforme a cui dedicarsi.
Ora, fortunatamente, la situazione non è così tragica come trent’anni fa. Da una parte
manca una valida alternativa come lo fu l’avvento dei PC all’epoca, e una migrazione completa dei giocatori su mobile è impensabile, in quanto
il problema di Steam permane su tutti gli store (con buona pace dei proseliti della fine delle console dedicate, come
Michael Pachter). Dall’altra c’è una presa di coscienza maggiore di quello che è il mondo videoludico e di tutto il mercato che ci ruota attorno, mentre nell’83 era visto solo come un passatempo da ragazzini. Inoltre, l’avvento di internet facilita notevolmente la
possibilità di scremare il buono dal mediocre, evitando le complicazioni di trovarsi con un prodotto scadente ed il portafogli vuoto.
Tuttavia puntare alla quantità sulla qualità rischia di essere un problema per l’immediato futuro, abbassando sia le aspettative dei giocatori che l’asticella della mediocrità. Neanche i sistemi di controllo anticipato come
Steam Greenlight possono granchè contro questa tendenza, in quanto in
un’era fatta perlopiù di pubblicità, non è difficile esaltare qualcosa oltre i suoi limiti reali (ci riuscivano perfettamente anche Nintendo e SEGA già negli anni ’90, con gli spot comparativi tra SNES e MegaDrive). E comunque,
neanche questo garantisce il successo automatico.
Già nel 2014, in un’intervista a
Gamasutra, Tom Ohle di Evolve PR descriveva lo stesso scenario di crisi qualitativa e competizione estrema, in cui
per attirare l’attenzione serviva per forza di appartenere a tre categorie: grandi publisher con nomi importanti e soldi da spendere in marketing; titoli realizzati da team indie di alto profilo; meccaniche talmente innovative che spesso risultavano folli (ex: Goat Simulator). A parte questo, il destino era un oblio dato da un’altra decina di titoli disponibili nello stesso giorno, in grado di affossare anche la migliore delle idee.
Col tempo, purtroppo, questa situazione è solo peggiorata, e molti titoli, anche validi, finiscono a non ricevere l’esposizione che meriterebbero,
sommersi da una valanga di proposte. Chiamatemi pessimista, ma temo il giorno in cui potremmo trovarci a scegliere tra una marea di banalità in saldo, magari con una grafica pompata per coprire le carenze nelle meccaniche,
il cui unico “valore aggiunto” saranno limited e trailer.
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