Stefano Calzati

Speciale It – Stranger… King

Brace d’inverno. I capelli tuoi. Dove il mio cuore brucia.

Su It, come su qualsiasi adattamento cinematografico tratto da un’opera di Stephen King, grava un peso gigantesco, quello di dover raccontare attraverso le immagini paure, emozioni e temi che sulla carta stampata zampillano fino a diventare un fiume d’inchiostro che ingoia il lettore, per trascinarlo allo stesso livello dei protagonisti, partoriti da una delle menti letterarie più influenti, eccelse e carismariche nella storia della letteratura. Alcuni vengono schiacciati da questo peso, come il recente “La Torre Nera“, mentre altri diventano cult, nonostante le limitazioni di minutaggio, i tagli e le differenze con le opere originali, come la miniserie TV classe 1990 di It e questa versione cinematografica. Perché ora possiamo scrollarci di dosso ogni timore e dare ad Andrés Muschietti (alla seconda regia dopo “La Madre”) i meriti di aver portato sul grande schermo uno dei migliori adattamenti kinghiani, con personalità e savoir-fair non comune, senza scadere nel commerciale ma strizzando l’occhio ai fan di un’altro fenomeno culto, quello Stanger Things di Netflix che si appresta a tornare con la seconda stagione a fine mese. Non abbiate paura e seguite quel palloncino rosso che vedete davanti a voi fino alla fine del nostro speciale. Cosa potrebbe succedere di male?

Coulrofobia
Benvenuti a Derry, Maine, tranquilla cittadina che ha la particolarità di avere un tasso di scomparse sei volte superiore alla media nazionale, ancora più alto per i bambini. Non il miglior posto dove vivere un’infanzia spensierata, offuscata da una minaccia senza nome, silente, che i nostri piccoli eroi impareranno a conoscere e temere, affiorando dagli abissi delle loro paure mentre galleggiano a pelo d’acqua come la barchetta di Georgie, fratellino di Bill Denbrough (Jaeden Lieberher), spensierato preludio bagnato dalla pioggia che darà inizio ad una nuova ondata di scomparse e omicidi, come ogni 27 anni, nel 1988. Un biglietto da visita che unisce grazia e spietatezza, in cui le emozioni si fondono per reinterpretare alla perfezione una scena ormai cult. Amore fraterno, gioia, fiducia e terrore scivolano in un tombino per non fare più ritorno. Solo l’anno dopo, nell’estate del 1989, il Club dei Perdenti, formato da sette ragazzini dai più vari background accomunati da un incredibile destino, aprirà gli occhi per vivere incubi tanto reali da essere mortali, incarnazione delle paure più intime e degli eventi più traumatizzanti da loro vissuti, quelli che un bimbo si porta dietro per sempre. Fobie che Muschietti ci mostra con una carrellata di virtuosismi registici tanto curati da sembrare piccoli cortometraggi a se stanti, croce e delizia di quella parte della proiezione, dove la sceneggiatura è costretta gioco forza in un corridoio di pellicola con l’obiettivo di mostrare tutto e subito per poi continuare a raccontarsi, alzando la tensione sopra i livelli di guardia e mantenendola viva con un ritmo praticamente perfetto.

Tra fedeltà all’opera originale e licenze poetiche questa nuova incarnazione di It spaventa, emoziona e affascina come un’incubo ad occhi aperti.

Una costante sensazione di minaccia e paura mai fine a se stessa ma parte di un quadro artistico più grande, cose che solo il buon horror sa trasmettere. 135′ di amicizia, siparietti da lacrime agli occhi (e la sala intera può confermare queste parole) e avventura, per poi tornare nel terrore, torbido e strisciante, tra violenze appena accennate e per questo ancora più insopportabili (la vicenda di Bev Marsh e suo padre sa essere più spietata di qualsiasi incubo) ed episodi decisamente più paranormali in cui Pennywise (Bill Skarsgård) è protagonista assoluto, grottesco, trasformista e sempre pronto a dispensare disturbanti sorrisi per poi nutrirsi delle paure (e delle carni) altrui. Un viso d’angelo sotto un dito di cerone bianco, fanciullesco e costantemente fuoriluogo, alieno ma terribilmente carismatico, contraddittorio come associare un palloncino al diavolo. Membro del cast ed elemento scenografico attorno a cui ruota la macchina da presa.

I cliché del cinema horror (come una sovrabbondanza di abominevoli primi piani e stridenti musiche di tensione), pur presenti, non riescono ad intaccare un montaggio sublime che esalta le scelte stilistiche del regista; l’incubo di Bev, annichilita nel suo bagno dipinto di sangue si trasforma nell’agitato sonno di Bill, nel suo letto, addormentato mentre disegnava il ritratto della ragazza dai capelli di brace; gocce di pioggia cadono dal soffitto, annacquando il tratto rosso della chioma, facendola sembrare sporca di sangue. Segni particolari sulla carta d’identità dell’opera, propri di una produzione che non vuole solo spaventare il grande pubblico ma anche deliziare i palati più esigenti.

Prova del palloncino
Il “cast dei perdenti” vince a mani basse il premio della critica di I Love Videogames, con un’interpretazione corale eccezionale oltre ogni misura
L’etilometro del talento scoppia grazie al soffio e alla bravura del giovanissimo cast, una delle migliori interpretazioni corali dai tempi di Harry Potter e primaria ragione per andare al cinema, nonché dolce preoccupazione per il Capitolo Due (2019), in cui gli adulti dovranno cercare di non sfigurare davanti a questi enfant terrible. Un’alchimia che solo sette veri amici possono avere; giochi di sguardi, gesti e parole che sono parte di un copione non scritto, un copione di cui la natura stessa ha dotato questi ragazzi, capaci di trasmettere emozioni come se la macchina da presa non esistesse, divertendosi come matti a fare quello per cui sono nati. Il dolore di Bill tra determinazione e sensi di colpa, la tragedia di Beverly Marsh (Sophia Lillis) mascherata con un carisma travolgente e un’attitudine da donna matura, l’umorismo sboccato e irresistibile di Richie Toziers (Finn Wolfhard aka Mike Wheeler di Stranger Things), l’ipocondria di Eddie Kaspbark (Jack Dylan Grazer), la vena poetica di Ben Hanscom (Jeremy Ray) per finire con i due ragazzi forse meno caratterizzati ma fondamentali protagonisti di alcune delle scene più metaforiche e cariche di significato, Stan (Wyatt Oleff) e Mike (Chosen Jacobs). La fragranza di Stranger Things aleggia nell’aria, ma si farebbe un errore ad etichettarlo come un film che vive sull’onda emotiva della serie Netflix, perché non bisogna dimenticare che la stessa opera dei Duffer Brothers si rifà in parte alle atmosfere della letteratura di Stephen King e tra scorribande in bicicletta e momenti dove “l’unione fa la forza”, il cerchio dei tributi si chiude e il pubblico vince, esulta e si gode lo spettacolo. Il già citato Bill Skarsgård nella sua trasformazione da angelo a demone (già visto quest’anno in Atomica Bionda, con una grande prestazione) e il trio di spietati bulli (per non dire delinquenti patentati) si mettono dall’altra parte della barricata per dare la caccia al nostro Club preferito, risultando odiosi e splendidamente credibili nelle loro abiette intenzioni.

La lotta non è finita
Tra 27 anni cinematografici, 2 reali, la resa dei conti con l’entità si paleserà nelle sale di tutto il mondo e se abbiamo già accennato ai timori per il cast (che a parte Skarsgård è ancora avvolto nel mistero), ci sono tante piccole cose che sarebbe bello trovare. Un approfondimento alla mitologia dell’intera opera, una spiegazione alle origini di It e del suo morboso rapporto con la ridente cittadina di Derry, elementi che non rappresenterebbero la soluzione del mistero, quanto un modo per esservi trascinati ancora più a fondo. Con un’atmosfera di questo calibro è difficile essere pessimisti comunque, visto che il primo passo verso la giustizia da rendere a uno dei più grandi classici moderni della letteratura è stato fatto. L’horror d’autore è tornato e vi vuole vedere galleggiare in tutti i cinema.

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