Recensione Burnout Paradise Remastered

“Into the flood again. Same old trip it was back then. So i made a big mistake, try to see it once my way”
Would? – Alice In Chains

Burnout Paradise, rimasterizzato o no, è pura anarchia motoristica. Un movimento per l’indipendenza delle automobili, lasciate libere di pascolare nel loro paradiso di cemento, acciaio e vetro senza che gli esseri umani si mettano di mezzo. Non le guidano neanche queste auto, gli umani, necessari solo quando si passa alle due ruote. Libertà di correre, derapare, saltare e soprattutto schiantarsi, accartocciandosi in rottami fumanti per poi risorgere in pochi secondi a nuova, scintillante e turbo-sovralimentata vita. Il parco giochi targato Criterion che nel 2008 era clamorosamente avanti sulla scala evolutiva del genere, mischiando motori e open world per la prima volta e raggiungendo fin da subito l’apice dell’adrenalina no-stop, privandolo della noia e dei tempi morti che si sarebbero aggiunti col tempo e il passare delle generazioni, quando si è deciso di misurare la grandezza del proprio gioco con i chilometri di superficie esplorabile. Anche una 911 GTS ha il motore più piccolo di una Mustang, ma insomma. Un open world compatto, sotto anfetamine, dove vinto un evento se ne affronta spasmodicamente un altro, in un moto perpetuo di infrazioni al codice della strada da incenerire la patente al solo sguardo e infiammare lo spirito di un videogiocatore annoiato, ora davanti al televisore con gli occhi spalancati, iniettati di sangue mentre salta tutti i semafori rossi a 300km/h con un ghigno indemoniato stampato in faccia, mentre i Soundgarden gli urlano Rusty Cage nelle orecchie. Una corsa infinita che chiede solo di essere vissuta, non contemplata. Accendiamo i motori e sfrecciamo sulle strade di questa recensione, dove cercherò di spiegare perché Burnout Paradise è ancora più attuale e necessario oggi rispetto a ieri.

Versione testate: PlayStation 4

Forza Horizon rende Burnout Paradise obsoleto? Ma va!
L’opera magna Criterion (sicuramente la più ambiziosa, benché la mia preferita resta il secondo, indimenticabile capitolo, Point of Impact), oggi come 10 anni fa è una ventata d’aria calda, quella che esce ancora dal motore una volta spento. È l’ossatura su cui si è poi poggiato l’intero genere, raggiungendo lo stato dell’arte con la serie Forza Horizon di Playground, eppure i due titoli non potrebbero essere più diversi e complementari. Horizon è un festival, è simulazione di spensieratezza motoristica e bella vita, sono paesaggi incantevoli popolati da un gruppo di fighetti che si diverte a gareggiare (e li adoro per questo). È patinato, mondano, qui siamo davanti a pura ignoranza da piede a martello sull’acceleratore. Frenare qui non è che fa proprio rallentare, fa anzi slittare il retro dell’auto in controsterzo. Folle e letale. Volante tra le mani (ovvero per il 100% del tempo) è l’arcade più arcade che si sia visto dai tempi di OutRun 2006, portato su una superficie di “tot” chilometri quadrati senza soste, menù, intermezzi. Le auto mordono l’asfalto, sono voraci, nervose, velocissime, non ci scivolano sopra impaurite come fossero hovercraft, come fanno in troppo sim-cade moderni.

Burnout Paradise è un movimento anarchico per l'indipendenza automobilistica, e il suo DNA arcade è un grido di protesta verso un mondo che si sta dimenticando di questo genere

Si guida sporco, pesante, facendo stridere le gomme, scoppiettare di goduria gli scarichi e improvvisando evoluzioni da stuntman tirando il freno a mano poco prima di un salto. Poi si arriva a un semaforo, che trascende la sua principale funzione per diventare punto di partenza degli eventi, siano esse gare, prove a tempo, stunt a punti, royal rumble a colpi di takedown (provando sempre un piacere sadico e depravato nel veder le auto splendidamente distrutte) o fughe a rotta di collo da chi ci vuole impedire di raggiungere il traguardo su tutte e quattro le ruote. Burnout oggi come allora vive contromano sull’autostrada di un mercato dei racing game che si sta prendendo sempre più sul serio fino ad arrivare al monoteismo simulativo, quasi non sembra vero di giocarci con un Dualshock 4 tra le mani. Una volta superati stupore e riflessioni ci si trova davanti a un titolo che fa del level design il suo punto di forza, assistito da un world design mai dispersivo, con l’intera Paradise City disseminata di scorciatoie, cartelloni da abbattere, salti assurdi da prendere col pollice destro premuto sul tasto del turbo e l’indice sinistro a eseguire il segno della croce, dopo 2 minuti di tutorial e un’intera città da scoprire in maniera squisitamente fai-da-te.

Sbloccare nuove auto (divise in 3 categorie, velocità, aggressività e stunt) è poi geniale, alcune verranno sbloccate in maniera tradizionale, completando gli eventi, le versioni evolute saranno disponibili dopo aver completato la prova a tempo relativa al modello e le altre? DJ Atomika, la voce più sexy di Paradise, ci informerà quando una nuova auto è in giro per la città e semplicemente la incontreremo, inseguiremo e distruggeremo per mandarla dallo sfasciacarrozze, che è un po’ la nostra concessionaria. La cosa più esaltante di questi duelli è il comportamento degli avversari, che cercheranno di cambiare strada all’ultimo secondo per seminarci, difendendosi con le unghie e con i denti. Comportamento che diventa decisamente meno cinico durante le gare, dove più volte mi è capitato di vincere con vantaggi abbastanza imbarazzanti, rispetto alle tiratissime battaglie hardcore dei capitoli lineari. Certo, la difficoltà cresce un po’ ad ogni patente guadagnata, che prevede il superamento di un numero variabile di prove, decideremo noi quali, volendo si possono anche evitare le gare, però rimane sempre user friendly.

Burnout oggi come allora vive contromano sull’autostrada di un mercato dei racing game che si sta prendendo sempre più sul serio fino ad arrivare al monoteismo simulativo.

Non mi sento di fargliene una colpa. Colpa che invece do al principale difetto delle gare, ovvero che i traguardi saranno sempre scelti tra 8 dei più riconoscibili punti di riferimento di Paradise City. Questo porta dopo qualche ora a rendersi conto che le gare si risolvono pressoché sempre lungo le stesse arterie stradali, portandoci a conoscerle a memoria e ad attenuare irrimediabilmente il fondamentale senso di pericolo. Anche perché, una volta scalato un rango della patente gli eventi saranno resettati e, in parole povere, saranno sempre gli stessi, 120 esclusi i DLC, non pochi, per carità, ma sarebbe stato certamente meglio una netta differenziazione e soprattutto abbandonare l’idea dei traguardi fissi, giusto per mantenere alto il gusto della scoperta e portando a provarli davvero tutti, cosa invece non necessaria. Peccati di gioventù dovuti ad un titolo sperimentale e ad un genere che era ancora tutto da scoprire e plasmare. E comunque ad attenuare i déjà vu ci pensano i DLC usciti all’epoca e qui presenti fin dal primo avvio. Lo scarno ma interessante pacchetto motociclistico, incentrato sulle prove a tempo e sulla devastante velocità, incredibilmente meno divertente di quanto poteva essere e Big Surf Island, una Paradise City in miniatura collegata ad essa da un lungo ponte, praticamente una versione incredibilmente concentrata e piccante del gioco base.

Cartoline da Paradise City
Tecnicamente gli sviluppatori hanno semplicemente tirato a lucido il versatile RederWare che fu, riverniciandolo e portando il tutto il full HD (4K su Pro e X) e 60 fotogrammi al secondo granitici (per quel che mi è parso). Tutto bello, funzionale, ombre migliorate e qualche dettaglio messo a posto, benché artisticamente sia ancora ben presente quella tendenza, sviluppata tra il 2005 e il 2010, a desaturare colori che avrebbero potuto esplodere in una palette da sala giochi, brillante e folgorante, rendendo la città dei motori un po’ più cupa del necessario. Raramente poi ci si fermerà a contemplare il paesaggio dalla zona collinare che sovrasta la metropoli, la si vedrà più che altro sfrecciare ai lati del campo visivo, mentre le orecchie saranno sempre ben tese e incredibilmente sollecitate. Tutto il sound design è fantastico, con i rumori delle lamiere, le grida dei motori, aggressivi come mai sentito in un gioco del genere, sempre su di giri come se fossero sul punto di esplodere. E poi c’è la colonna sonora, signori. Sarà si un po’ a corrente alterna, con le tracce strumentali dei precedenti capitoli a fare capolino tra Jane’s Addiction e ovviamente Guns n’ Roses, oltre a roba più pop-rock che 10 anni fa andava forte sulle radio americane, ma quando ci si ritrova immersi in alcune delle tracce più potenti e seminali del rock anni ’90, raggiungendo velocità folli lungo la litoranea tra il ruggito del motore e la voce graffiante di Laney Staley, niente ha più importanza fuori da questa bolla di piacere ludo-acustica capace di risvegliare emozioni sopite da troppo tempo.

Verdetto
8 / 10
Punti sulla patente ne abbiamo? No.
Commento
Burnout Paradise Remastered è ancora più unico oggi che dieci anni fa. La sua totale libertà, la sua guida poderosamente arcade e il suo spirito rivoluzionario torneranno a incrociare le console di quanti in questi anni si sono sentiti orfani di questa purezza ludo-mobilistica, che ripudia la simulazione per divertire senza freni, in tutti i sensi. Qualche peccato di gioventù è fisiologico e perdonabile e il raddoppiamento dei frame rende tutto ancora più fluido e implacabile come il flusso sanguigno tra le arterie di Paradise City. Passionale, sporco, grintoso, contromano e in controsterzo, l'ultimo Burnout che il mercato ricordi è un passaggio fondamentale per gli appassionati del genere, sperando che, un giorno, arriveranno nuovi capitoli di questo storico brand, o almeno i remake del primo, indimenticabile trittico. Takedown emotivo.
Pro e Contro
Automobilismo arcade no-stop
Level design brillante
Varietà e quantità
Il suono del rock anni '90

x Peccati di gioventù nella progressione
x Cromaticamente un po' spento
x Moto sottotono

#LiveTheRebellion