L’anno è il 1914, e l’Europa è una polveriera pronta ad esplodere. Una sola scintilla, di lì a poco, avrebbe lanciato il mondo in quella che sarebbe stata ricordata come una delle pagine più sanguinose della storia umana.
Ma tra il fango delle trincee, le esplosioni dell’artiglieria e le bombe al cloro, Ubisoft Montpellier narra una vicenda fatta di piccoli atti di coraggio, compiuti non da eroi inarrestabili, ma da uomini e donne di tutti i giorni, persone comuni unite, loro malgrado, dagli eventi della storia.
Un’avventura ad enigmi, che come i suoi personaggi non ha la pretesa di essere al centro di chissà quale epica impresa, ma si srotola davanti al giocatore come una commoventissima lettera dal fronte di una persona qualunque, sia essa un padre, un marito, un genero, una figlia… e perchè no, anche un cane.
E nella sua disarmante (e a tratti anche comica) semplicità, Valiant Hearts: The Great War è forse il miglior testamento videoludico a quell’orrore privo di una morale ben definita in buoni e cattivi che fu la Prima Guerra Mondiale. Come questo sia possibile? Beh…
Guerra e videogame sono un’accoppiata ormai collaudata. Molti titoli hanno cercato di mostrare le terrificanti situazioni dei campi di battaglia su scala internazionale, e chi più chi meno, molti hanno anche avuto la fortuna di riuscire a trasmettere il messaggio che si erano prefissati (generalmente “la guerra non è mai piacevole”). Ma quello che Valiant Hearts aggiunge, è l’immediatezza con cui questo messaggio salta all’occhio, prendendosi poi tutto il tempo necessario per sviscerarlo in svariati dettagli.
La prima cosa che spicca, nel titolo Ubisoft Montpellier, è lo stile grafico: look cartoonoso, pochi dialoghi, quasi sempre limitati a mugugni a malapena comprensibili in francese, tedesco o inglese, e baloon coi “disegnini a prova d’idiota” per sopperire. Troppo semplice per la Grande Guerra? Troppo Infantile?
No e ancora no. Sul punto della semplicità c’è poco da dire: quello che manca nel dialogo parlato, viene ampiamente recuperato nell’atmosfera, nell’espressività dei personaggi, in grado di generare un’empatia unica (il che, vista la scelta stilistica di disegnare la quasi totalità del cast, primario e secondario, con gli occhi celati da cappelli o chiome, è un risultato decisamente notevole!). Ciò che manca o non poteva essere trasmesso in questo modo, viene coperto dalla tematica attorno a cui gravita un po’ l’intero gioco: le lettere dal fronte. Anche nella realtà, infatti, il volume della corrispondenza tra soldati, familiari, prigionieri e via dicendo fu massiccio, ed è grazie a quegli stessi documenti (alcuni dei quali riportati fedelmente nel gioco) che è possibile ancora oggi scoprire storie e protagonisti della guerra che cambiò il mondo.
Riguardo al look del gioco, invece, ritenerlo infantile solo perchè realizzato in grafica cartoon, sarebbe semplicemente stupido, oltre che sbagliato. Valiant Hearts non nasconde affatto la natura cruenta degli eventi, e ne fa anzi un punto di forza per dare una caratterizzazione ancora maggiore (più evidente soprattutto nei capitoli finali) ai suoi personaggi, e alle reazioni degli stessi di fronte all’orrore della guerra.
La differenza, però, è che se un buon gioco di guerra rende i giocatori partecipi di questo orrore con proiettili, cadaveri e sangue, Valiant Hearts lo fa ad un livello più maturo. L’addestramento di Emile, cinquantenne contadino francese, e il primo incontro con “Lucky” Freddie, guastatore franco-americano reso vedovo durante i primi bombardamenti, hanno un’atmosfera leggera, con musica e balli, quasi comica per certi versi. Ma tempo mezzo capitolo e le cose cambiano radicalmente: una carica finita male e un plotone decimato dopo, troviamo Emile in catene, prigioniero in un campo prussiano, a pochi minuti da un bombardamento alleato. Da qui, la storia prosegue alternando momenti di genuina euforia (legati per la maggior parte ad Anna, la veterinaria belga divenuta infermiera da campo), a spezzoni toccanti (la riunione tra Emile e Karl, il genero nativo tedesco esiliato dal territorio francese all’inizio della guerra), il tutto senza nascondere minimamente i cumuli di cadaveri senza nome che costellano le no-man’s land tra le trincee. Nel mezzo, c’è spazio anche per riflessioni profonde sulla giustizia della guerra: nei panni di Emile, ad esempio, saremo costretti ad allearci ad un soldato tedesco in pericolo nei tunnel delle miniere di Vaquois, che a sua volta salverà il vecchio contadino dai suoi commilitoni. Purtroppo, l’amicizia non è destinata a durare (non per scelta, ma per semplice destino), e sebbene la morte del soldato e il rimorso di Emile siano mostrati soltanto con delle immagini statiche in grafica cartoon, sono in grado di convogliare emozioni forti con un impatto che raramente si nota in prodotti anche più realistici.
Ciliegina sulla torta della toccante narrativa di Valiant Hearts è il comparto audio, che, con musiche classiche e d’epoca, riesce a immergere il giocatore alla perfezione, tanto nelle trincee che nelle strade di Parigi, nei campi di prigionia o nell’epico scontro del crinale di Vimy.
Il rischio di avere molte situazioni simili, specie nei capitoli centrali, in cui saremo chiamati a spostarci da una trincea all’altra, avrebbe potuto facilmente tradursi in una serie di tracce audio piacevoli ma molto ripetitive, e alla lunga stucchevoli, lasciando al giocatore l’incessante e tedioso fioccare di proiettili o l’abbaiare di Walt come unica compagnia. Fortunatamente, anche in questo caso Ubisoft Montpellier si è rivelata oculata nelle scelte di sviluppo, e sebbene diverse tracce siano state riciclate nel corso del gioco, si è sempre scelto di abbinarle a momenti adeguati, guidati più dal “ritmo” della scena, che non dalla necessità di riempire i vuoti con qualcosa in sottofondo.
In Valiant Hearts, la musica ha un’importanza a sé stante, non solo come valore aggiunto. Vi sono situazioni in cui il doppiaggio, come già citato, è quasi inesistente, e sebbene, ad esempio, gli incoraggiamenti di Anna ai suoi pazienti durante i minigiochi di cura possano essere piacevoli da un punto di vista di caratterizzazione (Anna, originariamente, è una studentessa veterinaria, non un medico, e i gemiti leggermente impanicati lo dimostrano alla perfezione), la vera protagonista è la musica, che scandisce anche la pressione sul giocatore per non perdere il paziente. In particolar modo, questo si rivelerà essere vero verso il finale del gioco, dove saremo chiamati all’operazione più importante dell’intera carriera da “angelo delle trincee” della nostra infermiera belga.
Sempre restando su Anna, è impossibile non citare l’altro minigioco a lei dedicato, una serie di segmenti alla guida del taxi (rigorosamente “preso in prestito” a Parigi allo scoppio della guerra), che ci regalerà i momenti forse più euforici dell’intero titolo. Sia che si tratti di schivare il traffico per trasportare degli esaltati soldati verso il fronte, sia che la nostra strada ci porti verso una Reims bombardata col gas al cloro, dovremo schivare una serie di ostacoli, pena la distruzione del nostro mezzo di trasporto. La parte interessante a livello musicale è che gli ostacoli in questione (spesso bombe o intralci automobilistici vari) sono sincronizzati con un brano classico, quale il can-can di Offenbach o la Danza Ungherese di Brahms eseguita dalla filarmonica di Londra.
E scusate se è poco.
Entrambi i minigiochi citati sopra, tuttavia, non sono che una minima parte del gameplay di Valiant Hearts. A livello di giocabilità, il titolo è fedele al concept generale che aleggia attorno all’intera produzione: semplicità e immediatezza. Oltre al tutorial che introduce il giocatore ai comandi con una fluidità che si sposa alla perfezione con il contesto, senza snaturare l’illusione di immersione, il resto del gioco scorre abbastanza facilmente tra le mani, consentendo agli utenti di impostare un certo ritmo nel quale far sviluppare le vicende. Ovviamente, la semplicità nel gameplay è un’arma a doppio taglio, specie per un gioco che fa della trama il suo principale punto di forza.
Dimentichiamoci inventari complessi e combinazioni di oggetti come nella miglior tradizione delle avventure grafiche, in Valiant Hearts avremo un solo oggetto a disposizione per volta, visibile alla cintura del personaggio di turno, e, con l’eccezione di Anna con i suoi minigame e della pala/mestolo per scavare di Emile, i personaggi hanno tutti le stesse identiche abilità. Tutti possono girare manopole, tutti possono impugnare granate/candelotti/rami ecc ecc ecc. Ad ovviare a questa situazione di ripetitività viene parzialmente incontro la presenza di Walt, la cui possibilità di ricevere ordini per spostarsi, distrarre le guardie o recuperare oggetti in posti altrimenti inaccessibili, diventa essenziale sia per procedere che per variare le azioni disponibili.
E’ anche vero che molte delle azioni variano da contesto a contesto: alcuni segmenti del gioco ci vedranno alla guida dei primissimi prototipi di carri tank Mark-1 mai realizzati, o in possesso di una maschera antigas, o ancora a lanciare granate o far saltare ponti con la dinamite, ma resta pur sempre il fatto che sono abilità legate più allo scenario che al personaggio. Nonostante tutto, il level design è piuttosto ispirato, pur con l’ovvia limitazione delle tematiche (trincee, campi di prigionia, scontri campali, città assediate), e garantisce una buona alternanza di situazioni tale da poter mantenere viva l’attenzione del giocatore.
Buona è anche l’aggiunta di oggetti collezionabili sparsi in giro per i livelli, ai quali è associata una descrizione storica dell’oggetto in questione (le varie piastrine militari, rasoi a lame parallele, maschere antigas, lettere e corrispondenza), specie considerando che molti di essi vennero inventati espressamente durante i cinque anni della prima guerra mondiale per facilitare la vita dei soldati al fronte. Nonostante non siano in sé una spinta sufficiente a garantire la rigiocabilità di Valiant Hearts, inoltre, per alcuni possono essere una buona aggiunta alla longevità, che di suo non è purtroppo eccezionalmente alta.
A livello di longevità, tuttavia, va chiarito che sebbene bastino appena sei ore per finire il titolo con buona parte dei collezionabili e leggendo le varie note storiche associate ai capitoli, la trama del gioco (in quanto motore portante) difficilmente avrebbe permesso ulteriori aggiunte, e risulta estremamente efficace così com’è.
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