O almeno questo è ciò che vogliono farci credere gli autori di Thimbleweed park, mostri sacri del calibro di Ron Gilbert e Gary Winnick. che con il team di Terrible Toybox e l’aiuto prezioso della community Kickstarter, porta sugli schermi PC, mobile e console un’avventura grafica dall’anima retrò e il fascino di un’era d’oro che ha fatto la storia del genere videoludico.
La premessa è sempliice: cinque protagonisti, un omicidio in una cittadina di periferia che ha visto tempi migliori, e un’interfaccia a comandi con annesso inventario per risolvere il caso. Da qui in poi, le cose possono solo diventare fuori di testa, nel tipico stile della (fu) gloriosa Lucas Arts.
Versione testata: PC
Ritorno al passato
Ambientato nell’anno 1987, Thimbleweed Park prende il nome dall’omonima città che fa da sfondo alle vicende. Forte di un passato all’avanguardia tecnologica, grazie alla tecnologia Pillowtron 3000TM inventata dal genio e magnate locale Chuck Edmund, la cittadina vive ormai in un tranquillo ma costante declino, a seguito dell’incendio della fabbrica della famiglia Edmund. A scuotere un po’ le vite dei locali ci pensa un omicidio fuori programma: un misterioso cadavere, rinvenuto lungo le rive del fiume, da il via all’investigazione degli agenti federali Ray e Reyes. Tra i possibili sospetti ci sono il clown maledetto Ransome (un ex “insultatore professionista” caduto in miseria, i cui dialoghi abbondano di *beep* di censura), la sviluppatrice di videogame Delores Edmund, nipote dell’ormai defunto Chuck, e il padre di Delores, Franklin.
c’è ben più di un mistero da risolvere per le strade di Thimbleweed Park
Già dalle prime battute, però, Thimbleweed Park lascia intendere che c’è ben più di un mistero da risolvere, a partire dagli stessi agenti che indagano sul caso. Al giocatore, procedendo nella storia e incontrando il resto del coloritissimo cast, spetta il compito di far luce su questi retroscena. Per farlo, dovremo di volta in volta calarci nei panni di uno dei cinque protagonisti (i già citati Rey, Reyes, Ransome, Delores e Franklin), dotati ciascuno delle proprie abilità e della possibilità di scambiarsi oggetti. Questo, a parte una fastidiosa tendenza al backtracking, consente ai giocatori di mantenere una presenza simultanea in più locazioni. Una meccanica che, abbinata ad un level design molto creativo, da modo di generare un vasto numero di enigmi e narrare una storia fatta di vari misteri e intrighi in un’area relativamente ristretta.
E questo è solo il primo dei tanti tocchi di classe che Gilbert e Winnick mettono in gioco in quella che è una vera e propria macchina del tempo videoludica…
Oltre la quarta parete
Sin dalle sue premesse (l’ambientazione anni ’80, l’interfaccia retrò e la grafica degna dell’era Commodore), Thimbleweed Park fa del suo meglio per ignorare volutamente i trent’anni di evoluzione videoludica. Questo conferisce al gioco un aspetto che i nostalgici apprezzeranno senza dubbio, e gli oltre 15000 backers su Kickstarter lo dimostrano. Tuttavia questo “ritorno al passato” non gioca solo sulla nostalgia: la trama narrata integra queste scelte, e le trasforma da semplici occasioni per rompere la quarta parete a vera e propria necessità di gameplay.
La giocabilità stessa è ciò che più guadagna da questo “downgrade” volontario: tornando indietro di trent’anni, Thimbleweed Park dimostra che c’è spazio ancora oggi per un sistema che, pur nella sua semplicità, dava modo di mettere in campo puzzle tanto complessi quanto intriganti. Così come molti dei suoi predecessori illustri (ai quali la nuova opera di Gilbert & Co. strizza l’occhio a più riprese) del calibro di Monkey Island e Maniac Mansion, anche Thimbleweed Park è un apoteosi del “pensare fuori dagli schemi”.
L’inventario di gioco è vasto, e non sempre gli oggetti recuperabili sono necessari, o hanno un uso immediato. Le locazioni offrono più punti d’interazione, che variano talvolta a seconda del personaggio che controlliamo al momento. In altri casi è richiesto di agire “a catena” attivando prima un’azione con un personaggio in un luogo, e passare ad un altro in una zona differente per completare la sequenza. Purtroppo, il rovescio della medaglia è che non sempre la logica che c’è dietro un enigma è chiara, anzi: a volte dovremo fare dei veri e propri viaggi mentali nell’assurdo per capire quali conseguenze può avere un’azione… Fortunatamente, come nei vecchi classici LucasArts, non ci troveremo mai ad affrontare situazioni irrisolvibili, e spesso basterà fare (molta) attenzione a ciò che ci circonda per avere indizi su come procedere.
Il meglio dei due mondi
Avrete notato che in questa recensione abbiamo citato a più riprese la defunta LucasArts. Certo, ormai il “dream team” che ci aveva regalato classici come Monkey Island, composto da Tim Schafer e Ron Gilbert, si è sciolto, ma l’atmosfera evocata da Thimbleweed Park è esattamente quella. Si va dall’amichevole rivalità che c’era all’epoca con le avventure Sierra (citata direttamente nel gioco), a tutta una serie di riferimenti culturali di fine anni ’80, passando per uno sfacciato autoreferenzialismo ad altri prodotti all’epoca sotto l’egida della LucasFilms, come Star Wars e Indiana Jones.
Nonostante tutto, Thimbleweed Park è chiaramente un gioco moderno
Ora, è vero che con trent’anni sulle spalle, molte di queste citazioni rischiano di perdersi per strada, ma si tratta di un rischio che valeva la pena correre. In primis perché non si tratta mai di riferimenti troppo forzati a solo scopo nostalgico: tutto si incastra in maniera scorrevole nella storia, senza mai farla passare in secondo piano a vantaggio di una battuta. Poi, e qui parliamo principalmente per chi quell’epoca l’ha vissuta in prima persona o ne ha sentito comunque l’influenza, perché distoglie l’attenzione da tutte quelle migliorie che rendono Thimbleweed Park palesemente un gioco del 21esimo secolo. L’illusione anni ’80, infatti, regge finché non si notano quei dettagli che, per motivi tecnici, non potevamo avere trent’anni fa (ed è la storia stessa a portarci a farlo): un clamoroso doppiaggio di alta qualità, che unito alla splendida caratterizzazione dei personaggi, dona a Thimbleweed Park il meglio delle due ere.
Sarebbe fin troppo facile liquidare i protagonisti come macchiette comiche (cosa che comunque sono), o categorizzare certi comprimari come stereotipati. Col procedere della storia, però, emerge una profondità che difficilmente avevano dei personaggi “bidimensionali” come Guybrush Threepwood o i protagonisti di Maniac Mansion (di cui Thimbleweed Park è una sorta di sequel alternativo). Specie nelle battute finali, lo sforzo tanto degli sceneggiatori che dei doppiatori è palese, in particolar modo nel personaggio di Ransome, espressivo e credibile pur con tutti i suoi *beep* e i suoi mugugni.
Verdetto
9 / 10
Salutate i *beep* di anni '80, *beep* di *beep*
Commento
Se siete cresciuti a pane e avventure grafiche, questa recensione non fa per voi: sapete già che Thimbleweed Park è un gioco di altissima qualità. Per tutti gli altri resta comunque un titolo che sarebbe criminale farsi sfuggire, tuttavia ci sono alcune cose da mettere in chiaro: in primo luogo, molte delle battute devono essere contestualizzate, è impossibile pensare di capire tutte le rotture della quarta parete, i riferimenti e gli easter egg nascosti nel gioco senza un minimo di esperienza nelle avventure grafiche, e soprattutto nella storia della LucasArts. Punto secondo: le fasi finali. La storia stessa di Thimbleweed Park è il più grande antagonista del senso di soddisfazione tipico del finale di un gioco. La trama è costruita in modo tale da essere in costante crescendo fino al colpo di scena finale, e pur prendendosi il giusto spazio per dare una chiusura a tutto, lascia comunque desiderosi di sapere di più. Non poteva andare altrimenti, certo, e non è nemmeno un male (quanti giochi possono dire, al giorno d'oggi, di riuscire a intrigare i propri giocatori dall'inizio alla fine?). Resta il fatto che nessun finale sarebbe potuto essere all'altezza di tutte le ipotesi e aspettative che ci saremmo potuti fare nel gioco.
x Backtracking frequente x Alcuni enigmi poco chiari
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