I videogiochi che hanno espresso la volontà di raccontare la “perdita” sono tantissimi. Un nome può valere per tutti, ed è quello di Shadow of the Colossus, classico intramontabile che proprio dal senso di rivalsa su una perdita costruiva una storia ancora oggi emozionante. È legittimo pensare, dunque, che dopo un certo lasso di tempo questa complessa tematica risulti ridondante, come una minestra riscaldata; è ciò che pensiamo dopo decine di film Marvel sui supereroi, per capirci.
Ma è davvero così? Davvero un tema come quello della perdita può diventare “di troppo” per il variegato pubblico dei giocatori? Tutto sta, a modesto parere di chi scrive, nell’abilità di creare un mondo, e soprattutto dei personaggi, nei cui confronti potersi porre in maniera empatica. Un altro titolo che si affaccia sulla questione è Hellblade: Senua’s Sacrifice, e lo fa in una maniera che, per l’appunto, consente a chi gioca di restare invischiato in una storia intima e impegnativa come solo le vicende così intime riescono ad essere.
Chi sceglie un titolo simile per il tema che tratta, infatti, non deve avere la sola pretesa di essere “accolto” dal videogioco, ma deve anche porsi l’obbiettivo di accoglierlo a sua volta.
Come si affronta una perdita?
Premesse interessanti…Tales of Kenzera: Zau è forse solo l’ultimo dei titoli che si cimentano con questa tematica così importante. Opera prima degli Surgent Studios (con la direzione di Abubakar Salim, l’Alyn di House of the Dragon!) e pubblicato da EA in questo 2024, Zau attinge a piene mani dalle tradizioni Bantu africane, per raccontare una storia che si sviluppa su due piani narrativi ben distinti tra loro.
Si parla di Zuberi, giovane abitante di una megalopoli meravigliosamente afro-futurista (ma che purtroppo vedremo solo da lontano). Da poco orfano del padre (o baba, come verrà chiamato durante l’avventura), Zuberi si cimenta, su consiglio della madre (o mama), nella lettura di un racconto scritto proprio dal defunto genitore. È attraverso questo racconto, in un certo senso, che si anima l’altro, quello di Zau, giovane sciamano anch’egli orfano del proprio padre. Sua è la decisione di stringere un patto con il dio della morteKalunga: in cambio degli spiriti di tre creature mostruose che infestano un mondo fantasy del tutto inedito nelle sue ispirazioni, Kalunga promette all’affranto sciamano che suo padre tornerà in vita.
…Ma non ben realizzate
Via il dente, via il dolore. L’avventura si svolge, a livello di gameplay, come un classicometroidvania. In realtà, il mondo di gioco appare decisamente meno complesso rispetto ad altri titoli realizzati sulle stesse basi pubblicati in anni recenti, come Axiom Verge, Blasphemous, o ancora, Hollow Knight. Il territorio da esplorare è diviso in variemacroaree, con al termine ovviamente un boss da sconfiggere, uno dei mostri citati prima. Un albero delle abilità, ripartito in due consente al giocatore di approfondire i poteri delle due maschere di cui viene dotato (un espediente per distinguere quelli ravvicinati da quelli a distanza).
È proprio il gameplay ad azzoppare Zau, lodevole sotto l’aspetto estetico e per alcune scelte particolarmente interessanti (tra cui quella di lasciare a chi gioca la scelta di ascoltare le voci dei vari personaggi in swahili: l’immersività ringrazia). I nemici che si incontrano lungo il cammino non brillano per varietà, e anche gli scontri con i boss sono macchinosi e, alla lunga, poco divertenti. Il parkour in 2D è, invece, in linea con la media, senza deludere né stupire.
Oltre il puro giocato
Un risultato che non soddisfa del tutto, quindi, frutto di uno sforzo dagli obbiettivi forse troppo ambiziosi. Come tanti altri giochi, Zau “ci prova” a raccontare una storia toccante, e in effetti lo fa; ma, privo, di un’adeguata impalcatura, crolla sotto il suo stesso peso. Per i motivi appena elencati, si tratta di un gioco da buttare? Assolutamente no.
Nonostante tutti i suoi limiti, infatti, Zau si salva dal disastro perché mostra la sua forza, il suo cuore, in una storia così semplice da far sì che chiunque vi si possa riconoscere. Anche chi non ha perso il proprio padre, o un’altra persona cara. Zau, Zuberi, e lo stesso Abubakar Salim sono in questo caso i portavoce di un dolore che non sempre è possibile spiegare con le parole. E se, come dicevo, sono tanti i titoli che si sono confrontati con questa tematica, questo è perché il videogioco offre gli strumenti di un medium diverso, a volte più delicato e intimo. Zau assume un carico indubbiamente pesante, e nonostante i toni altalenanti di un gameplay che poteva essere raffinato, finisce per commuovere il giocatore, trasportandolo emotivamente verso l’idea che la perdita, per quanto dolorosa, è un fatto da accettare. I ricordi sono dolorosi, a volte così tanto da farsi insostenibili, ma non è giusto lasciare che occupino tutti gli spazi della vita di un individuo, incatenandolo al proprio dolore fino a trasformarlo in qualcosa di diverso, che non conserva nulla né della propria persona, né dell’affetto e del ricordo lasciati da chi scompare. Il gioco questo ce lo mostra in due modi: attraverso i boss, e attraverso il rapporto tra Zau e Kalunga.
I mostruosi boss, infatti, non sono altro che creature rese mostruose da varie forme di dolore, che hanno perso il senno e rotto il proprio legame mistico con il mondo di gioco. Per quanto riguarda il rapporto tra il protagonista e il suo personale Virgilio, invece, è bene notare una cosa: più volte, lungo l’avventura, il dio della morte ammonirà Zau per i suoi comportamenti avventati, per non dire irrispettosi, nei confronti del mondo, della vita, o di altri personaggi presenti nel gioco. Comportamenti che trovano una motivazione nel dolore che Zau prova, e che tuttavia non possono essere giustificati, a causa dell’impatto che hanno sulle vite di altre persone. Proprio sulla scorta di queste “lezioni di vita” Zau, giovane disposto a tutto pur di riportare in vita suo padre, capirà infine di dover compiere un percorso di maturazione, e di inevitabile accettazione del dolore: qualcosa in cui nessuno di noi si trova a suo agio.
La forza comunicativa di questo Zau sta proprio nel riuscire ad imbastire una storia e una narrazione che pongono in stretto rapporto i due protagonisti dell’opera, l’autore, e il giocatore. E se è vero che ci sono diverse magagne sotto il punto di vista del gameplay (Ma si è detto che siamo di fronte ad un’opera prima!), questo gioco brilla invece per ciò che offre a chi gioca da una prospettiva più “narrativa”. Posto, ovviamente, che chi vuole soltanto una discretaavventura fantasy dai toni diversi dal solito, sarà accontentato.
Imparare qualcosa nel posto inaspettato
Una lezione inaspettata
È questa la lezione di Tales of Kenzera: Zau. Un titolo che dimostra che, qualche volta, ciò che un gioco trasmette emozionalmente parlando riesce a rompere le barriere (anche linguistiche, vedasi il cenno alla lingua swahili di poco fa) e a imporsi sugli altri aspetti, che pure hanno una loro innegabile importanza. Un esempio eccellente in questo ragionamento ce lo offre proprio il già citato Shadow of the Colossus: non era forse ripetitivo vagare per uno – spoglio – mondo di gioco, alla ricerca di – pochi – colossi da abbattere? Certo che lo era. E se una fetta dei giocatori lo ha giocato, e amato, perché cimentarsi nelle sfide contro questi boss è divertente e piacevole da giocare, molti altri ne avranno amato l’atmosfera emozionante, e una storia in cui alcuni, tanti, possono ritrovarsi.
L’idea che il dolore, in qualche modo, possa deformare chi lo prova era presente anche in SotC: anche sulla base di questo “paragone eccellente”, sembra doveroso risparmiare i pareri ingenerosi che una parte della critica ha riservato a questo Zau. Non di sole combo ed enigmi ambientali può vivere un metroidvania (e in generale un videogioco), ma anche di emozioni.
Non si tratta di una recensione, o di un invito a comprare o incensare Zau: queste poche parole sono rivolte a chi desidera lasciarsi coinvolgere da una storia che non potrà non toccare le corde del cuore del giocatore. È una via, come altre, per affrontare il dolore.
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