Negli ultimi anni sono state varie le notizie che vedono i videogiochi a stretto contatto con la medicina. All’estero la FDA ha ad esempio riconosciuto alcuni dispositivi VR/AR come dispositivi medici, successivamente approvando ufficialmente l’uso di un videogioco a fini terapeutici (EndeavorRX, pensato per curare l’ADHD). E più vicino a noi, all’ospedale Mauriziano di Torino, un Dualshock 4 è stato usato alcuni mesi fa per telecomandare il robot Ily durante un’operazione di chirurgia endoscopica.

Notizie che purtroppo in Italia non troppo spesso fanno lo scalpore che vorrebbero. In terra nostrana si tende a concentrarsi sulla possibilità di effetti malevoli più che sui benefici, o si guarda con disdegno chi “a trent’anni ancora gioca alla PlayStation”. Se la diffusione mediatica che ne viene data è una tantum e quasi sotto banco, alla fine, non c’è da meravigliarsi.

Ma non c’è da meravigliarsi nemmeno che ci siano persone che stanno cercando proprio di abbattere quest’immagine errata, o ancor meglio di usare i videogiochi come strumento per ottenere un beneficio per le persone. Eppure esistono. Il dottor Marco Lazzeri e la dottoressa Eleonora Stingone, ad esempio, si sono posti come scopo proprio quello di utilizzare un headset per la realtà virtuale come supporto alla terapia psicologica.

Abbiamo avuto l’onore di parlare con i due specialisti per capire di cosa si occupa e a che punto è la ricerca della video game therapy italiana.

Il mondo virtuale per aiutarsi nel mondo reale.

Il progetto di Eleonora e Marco nasce dall’idea di portare in Italia gli sforzi dell’educatore americano J. J. Bouchard, attivo nell’ospedale pediatrico Mott in Michigan. L’ospedale ospita pazienti di ogni età, la cui permanenza è prolungata nel tempo se non addirittura terminale. Dalla necessità di esser chiusi in una stanza per così a lungo nascono una serie di problemi mentali, che ricadono anche nello spettro dei disturbi depressivi.

Da qui l’idea di Bouchard: utilizzare i videogiochi per alleviare la loro permanenza nell’ospedale. Si parla di giochi di più o meno qualsiasi natura, ma con uno specifico focus sulla tecnologia della realtà aumentata e virtuale. Dalle pagine social del Mott si vede ad esempio come si sia utilizzato nel pratico Pokémon GO per incentivare i pazienti a spostarsi piuttosto che restar fermi nella propria stanza.

“E se anche il visore PlayStation potesse essere utilizzato così?”

Video game therapy In un articolo della Children’s Hospital Association Bouchard racconta come è nata l’idea per la ricerca
Il dott. Lazzeri, già precedentemente conoscenza dello stesso Bouchard, e la dott.ssa Stingone, specializzata in neuroscienze cognitive, hanno dunque deciso di spingersi ancora un po’ più a fondo nella ricerca per la video game therapy in Italia. In questo e nella sua applicazione, che in casa nostra – nel caso della realtà virtuale – fa leva principalmente sul visore Quest 2 di Meta. Per Marco questo è un limite. Confida che anche il visore PlayStation abbia le stesse capacità, pur con dei limiti interni come la necessità di connettere il visore alla console.

“Ma se è più comodo perché non usare il Meta?” La risposta migliore a una domanda del genere è probabilmente un’altra domanda: perché, invece, non dimostrare che PlayStation ha lo stesso potenziale e aiutarla a utilizzarlo? Con questa proposta Marco ed Eleonora contattano PlayStation Italia, che interessata all’idea decide di dar loro appoggio. In questo modo i due specialisti ottengono il nuovo modello di PSVR, da utilizzare per la loro ricerca.

Una ricerca che li vede anzitutto analizzare un’idea: quella di affiancare al PSVR2 la video game therapy. Così è nota la terapia psicologica di cui Marco ed Eleonora tra gli altri si fanno portavoce, e che in Italia ha come capostipite il dott. Francesco Bocci.

Gli ostacoli

Ma se da un lato ci sono le basi, dall’altro la situazione in Italia – come sostiene il dottor Lazzeri – fa fatica a concretizzarsi. Ci sono, come sempre, ostacoli da superare.

Uno, forse il più grande ostacolo da superare, è lo stigma che i videogiochi si portano dietro dal loro arrivo al mondo. Abbiamo passato molto tempo a parlare con i due specialisti di come sia problematico il filtro che spesso i nostri compatrioti applicano a chi si appassiona di videogiochi. “Sono stupidi”, “Perdono tempo”, “Ai miei tempi giocavamo con la palla”.

Questo filtro purtroppo trova terreno fertile anche per colpa delle stesse istituzioni che di salute si occupano, e che forse un po’ troppo spesso peccano di girarsi semplicemente dall’altro lato. L’Organizzazione Mondiale della Sanità, ad esempio, le cui inizialmente carenti ricerche sono sempre state utilizzate come caposaldo del “i videogiochi causano dipendenza e rovinano il cervello”. Inizialmente, perché la stessa OMS si è trovata nella posizione di rivedere la propria ricerca dopo gli evidenti benefici che i videogiochi hanno portato alle persone durante il lockdown per il COVID-19.

Purtroppo, come per molte altre cose al mondo, manca sensibilizzazione del pubblico. Chi dei videogiochi si appassiona sa benissimo quali benefici apportino, al netto dell’incapacità di spiegarli con termini tecnici della psicologia. Chi è esterno deve (o dovrebbe) fare affidamento appunto sulle scienze per conoscere qualcosa di cui non sa nulla. E se la scienza non se ne occupa, purtroppo non si va da nessuna parte.

Un altro ostacolo/filtro è, più a misura di parere personale, che dall’altro lato i videogiochi sono percepiti più come una macchina macina soldi. Sappiamo bene tutti quanto ormai quella che era la passione di pochi smuova enormi volumi monetari – basta qualche attenta ricerca su internet. Temo però che proprio questa concezione agisca spesso da barriera, un po’ perché “se non fa soldi non ce lo vogliamo” e un po’ perché quelle rare buone idee pensate appositamente per far del bene vengano eclissate dal pubblico ormai disilluso come “lucrare sulle disgrazie altrui”.

Anche in quest’ottica quella del dottor Lazzeri e della dottoressa Stingone è una ricerca importante, che va ben oltre il semplice dimostrare che i videogiochi non sono il mostrone che dipinge il pubblico medio. Si tratta di uno studio che può portare a non trascurabili passi in avanti in campo di salute della persona. Si potrebbe arrivare al trattamento di serie condizioni mentali, ad alleviare le condizioni di chi vive in una stanza di ospedale – e tutto sta oltre il superficiale “sono solo videogiochi”.

Serve sensibilizzare perché il pubblico capisca.

Abbiamo trovato in Eleonora e Marco due specialisti che si sono messi in gioco per un’idea che può aiutare le persone. Abbiamo trovato due persone che si sono mosse perché quell’idea potesse concretizzarsi, e che lo stanno facendo tutt’ora perché possa andare avanti.

I ricercatori nostrani La dott.ssa Stingone e il dott. Lazzeri sono precedentemente stati intervistati anche da Techprincess.
Lascia un po’ interdetti dunque che un progetto come il loro possa essere ancora così poco noto. Dalla chiacchierata emerge che è anche la situazione di altre realtà come la loro – IDEGO, per citarne una con cui loro stessi sono in contatto: una giovane realtà sociale che ha per oggetto lo sviluppo e l’integrazione delle nuove tecnologie immersive nell’ambito della psicologia e della formazione. Tutto questo stupisce specie se si pensa che sul progetto ha deciso di investire anche la stessa Sony, fornendo quantomeno la materia prima.

Ma perché ciò avvenga, come detto, serve innanzitutto parlarne e sensibilizzare. La responsabilità è di tutti, quella di raccontarlo e di far sapere che esiste e che obiettivo si pone. È nostra come redazione, ma è anche dei gamer come categoria. È responsabilità di PlayStation, come anche di tutte le associazioni che si occupano di salute mentale dalla ricerca al trattamento.

E sì, è responsabilità anche di chi non passa abitualmente ore con un controller in mano (anche se probabilmente ha l’abitudine di “usare” Candy Crush). Come al solito, il sostegno di chi non sente di aver alcun coinvolgimento in una causa è importante tanto e più di chi invece ci sta dentro fino alle scarpe.

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