Calpesto finalmente il ponte levatoio del Forte Prenestino, dopo un viaggio di un’ora e poco più che la ricerca di un parcheggio ha fatto sembrare un’eternità. A Roma piove – ovviamente, come quasi ogni singolo pomeriggio dell’ultimo mese, e altrettanto ovviamente io non ho un ombrello. Salto una grande pozzanghera fangosa verso un tunnel dall’aspetto underground, in cui si raduna in fila una serie di tavoli con su varie di “piattaforme di intrattenimento” che definirò a breve.
Sono ancora da solo. Mi appoggio a un muro in attesa, contemplando la pioggia che intanto si è fatta un po’ più gentile. Mi sto ancora abituando a questa cosa del viaggiatore in solitaria, e per quanto riguarda il socializzare con chi non conosco ho sempre avuto difficoltà. Tante – fin troppe. Mettici anche la meteopatia, e si è fatta viva la solita vocina. “Che cosa sono venuto a fare qui?”
Non nel senso di “era meglio se me ne stavo a casa” – proprio come quesito esistenziale. Quello da millenial ancora lontano dall’autorealizzazione, che si spaventa di ogni singolo passo che compie perché basta il battito d’ali di una farfalla a creare il caos (mentale e non).
Dunque, arreso al fatto che probabilmente passerò il pomeriggio da solo prendo coraggio e mi addentro nel lungo tunnel graffitato in cui già si raduna un piccolo gruppetto di persone. Guardo i computer e gli altri dispositivi sistemati sui tavoli, cerco di capire e nel frattempo esploro il forte. C’è in corso un workshop interessantissimo, il cui obiettivo è animare un cielo stellato aggiungendo l’illusione della profondità e l’effetto Pacman. Mi perdo a seguire da lontano la lezione e il risultato è fantastico: sembra davvero di guardare milioni di stelle avvicendarsi nella volta notturna.
Nel tunnel del Forte qualcosa mi parlava...
Da quel punto tutto scorre più velocemente, accompagnato da un gradevole schiarirsi del cielo. Arriva Damiano, poi appare Maurizio, e mentre siamo seduti a scambiar due chiacchiere si susseguono gruppi di persone amici di uno o dell’altro. È lì che inizio a prenderne coscienza: questa è Zona Warpa. Si parla di videogiochi, di chi li racconta e delle proprie esperienze; si scambiano idee, nomi familiari, si parla del settore e delle difficoltà che affrontano altre persone comuni come noi nella vita aziendale.
Zona Warpa vuole parlare di piccole, sconosciute realtà che non hanno nulla da invidiare a quelle grandi. Vuole dare voce a quelle gemme nascoste del settore, che per un motivo o l’altro faticano a farsi scoprire. E vuole essere un punto di partenza, un collegamento tra voci che nessuno ascolta e il pubblico che vorrebbero raggiungere – un modo per farsi conoscere, appunto.
Dopo vari scambi di idee io e il gruppetto andiamo a scoprire queste realtà.
C’è Naku, un argentino sgargiante negli abiti e apparentemente pacato nei toni che se ne sta dietro un Sega Mega Drive e alcune cartucce, oltre a qualche spilla-meme (tipo il Pikachu sbalordito). Mi fanno notare che non c’è uno schermo attaccato alla console, ma solo un controller e un paio di cuffie: quelle cartucce contengono musica, mi anticipa Damiano. Parlo con Naku, che mi spiega che è lui a comporre le canzoni e metterle nelle cartucce. Mi invita a prendere le cuffie – quel che sento dentro è uno spettacolo, e mentre ascolto mi complimento di continuo.
Dopo un po’ passo avanti, e vedo uno a fianco all’altro una coppia di piccoli laptop. Due ragazzi stanno giocando a Quake, ma la particolarità – mi spiegano – è che i PC su cui è installato il videogioco erano stati in origine riprogrammati per funzionare per non più di due anni. Questo è quanto concesso agli studenti argentini, eppure un gruppo di hacktivisti non ci stava a lasciarli morire da scarto industriale. Così si è arrivati a oggi: a una coppia di computer che possono vivere il ciclo vitale che spetta loro, e mostrarsi vivi e funzionanti a chi gli siede di fronte per giocare Quake (in questa sede).
E si continua con un Apple su cui gira un gioco ancor più particolare, dove si affronta una boss fight formulando un esorcismo lettera dopo lettera fino a completarlo e vincere. Nemmeno a dirlo, qualcosa che ha fatto sbiancare il mio collega traduttore Maurizio al solo pensiero di “e questo come lo traduci?” – e me, di conseguenza.
I tavoli continuano con dei tabletop, con un tablet con su un umile gioco in cui bisogna scorrere il dito sullo schermo velocemente e senza staccarlo per vincere – e poi i due che hanno preso l’occhio di bue della serata. Uno è un semplice lungo tubo pieno di luci attaccato ad un joystick: il giocatore deve arrivare al traguardo (l’estremità opposta del tubo) scuotendo il joystick per distruggere le lucine rosse – un qualcosa di così ipnotico che ci avrei passato ore a guardarlo.
E infine Dobotone, il protagonista di Zona Warpa pensato apposta per l’evento. Ogni giocatore tiene in mano due joystick cilindrici muniti di pulsante, in un tutti contro tutti per quattro persone che si sfidano in un Wario Ware Inc. indipendente. Ma ciò che ha reso Dobotone un’esperienza unica nel suo genere è la console a cui sono attaccati i joystick. Una quinta persona (o uno dei quattro giocatori) può premere svariati tasti per cambiare minigioco, modificarne lo zoom, la gravità, la velocità o addirittura spegnere letteralmente un altro giocatore per farlo ripartire da capo. Per fatalità, Dobotone e il tubo di luci sono uno di fianco all’altro e la folla si raduna di fronte a loro due.
Sarà stata la calca, o le luci, o la musica diffusa, ma in quel piccolo tunnel ad arco pieno di graffiti e alto più di tre metri c’era un’atmosfera positivamente particolare (a dir poco). Sembrava di essere in un angolino felice. Mi sembrava di essere nell’angolino felice del me adolescente, che dopo nemmeno mezz’ora di studio aveva inspiegabilmente finito di studiare e si piazzava di corsa di fronte alla TV a giocare – prima che qualcuno tornasse, per poi spegnere altrettanto di corsa al primo rumore e fingere di aver appena finito i compiti. Un angolino che in qualche modo è sempre sembrato una buia nicchia in cui nascondersi.
E invece non lo era: era luminosa, colorata e felice, proprio come era paradossalmente quel corridoio del Forte.
La distorsione della Zona Warpa mi ha mostrato me stesso.
C’è stata una transizione simbolica nella mia vita, un punto in cui finalmente sono uscito spudoratamente allo scoperto a giocare ai videogiochi senza paura del giudizio altrui. Quella sensazione l’ho provata di nuovo il 15 giugno del 2023.
A buio sceso sul Forte Prenestino un ragazzo prende a dipingere in realtà virtuale con una base synthwave (di nuovo qualcosa di ipnotico), e subito dopo gli organizzatori dell’evento spostano Dobotone di fronte a un palcoscenico collegandolo a un maxischermo. Ora si fa sul serio, e radunate quattro squadre di giocatori inizia la partita. Suoni da arcade, musica, risate, tifo e standing ovation.
Sembra la fine di una serata? No, per niente. Appare Naku, che sulle note della sua musica cattura la platea sulle note della Cumbia Imperial (sì, la Marcia Imperiale di Star Wars). E se con mio dispiacere non ho potuto assistere per via dell’orario, è stata poi anche la volta di Fabio “Kenobit” Bortolotti, organizzatore dell’evento che ha suonato di fronte al pubblico usando un GameBoy.
Il videogioco è nato nelle modeste mani di studenti comuni, si è evoluto e ha guadagnato così tanta attenzione da finire spesso inevitabilmente soggiogato dai bisogni della macchina economica mondiale. Eppure c’è ancora una vita, una volontà di base dietro quel “prodotto” che persone come me tanto adorano.
Il tempo si ferma ancora mentre sto in piedi a guardare quattro squadre sfidarsi a Dobotone sul maxischermo, esultare urlando per ogni punto messo a segno, ballare musica chiptune tutta bollata come “cumbia” da Naku. Durante quella distorsione spazio-temporale ho sentito esattamente quella volontà battere ancora, aleggiare delicata tra la calca di persone. Era finalmente riuscita a parlare alle persone, e voleva che quella transizione da un tunnel illuminato a un grande palco non fosse limitata al Forte Prenestino. Ci chiedeva di dire al mondo che i videogiochi non sono solo una macchina macina soldi, ma anche un potente mezzo. Un amico per chi vuole la libertà per le persone, un avversario per chi vuole toglierla.
Mentre guardavo il grande gruppo di persone attorno a me ho capito qualcosa. Ho capito che ero lì perché, in qualche modo, i videogiochi mi ci hanno portato. Perché scrivere queste quattro righe è il modo in cui sto cercando di tenerne viva la volontà, anche se ha la copertina con su stampati solo centoni. Se di righe ne ho scritte un po’ più di quattro fino ad oggi è perché ci credo in quello che propone Zona Warpa, e ancora di più in quello che può essere un videogioco.
Perché durante il giorno sono un programmatore lunatico, sociopatico e meteopatico. Ma mi basta ascoltare per un attimo quella volontà per vedere me stesso apparirmi di fronte come un fantasma della Forza e dirmi “giovane D’Angelo, mancato tu mi sei”.
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