Uno scambio di colpi assurdo. Una lotta tesissima, segnata da un Dandel che costringe l’arbitro a cambiare le regole (a proprio sfavore, in teoria) e dalla benedizione di Eternatus per una seconda Gigamax tanto per il fan service. Ricordi, preoccupazioni, speranze, determinazione. Poi lo scoppio finale, il cliffhanger, uno schermo completamente buio e il punto di vista di Pikachu.
Difficile crederci ma io ero lì, sulle tribune di un cartone animato a guardare una lotta inscenata su uno schermo. Non lo credevo possibile, davvero. Io Pikachu proprio non lo sopporto. Una squadra da 6? Ma che importa, tanto si sa che il protagonista sarà sempre quel fottuto topo giallo.
È lì da 25 anni a ricordarcelo – che non importa quante centinaia di creature ci siano all’attivo, la più importante sarà sempre lui. L’asso di Ash, la mascotte del brand sarà sempre indiscutibilmente Pikachu. E questa cosa mi fa rivoltare le budella.
Ma questo non cambia i fatti. Ash ha vinto, e per quanto mi infastidisse non ero poi così dispiaciuto. Non ero così contrariato quando l’ultimo baluardo della speranza del Campione di Alola è stato, prevedibilmente, Pikachu.
È da un po’ che ho una domanda in testa. Mi tormenta, giuro, perché per qualche motivo non riesco proprio a farmene una ragione.
“Ma perché?”
Perché in un palcoscenico così vario la star è sempre e soltanto una sola?
Ho detto che ero lì, ma non ho detto dove: ero seduto accanto al team Rocket. Jesse, James, Meowth e l’immancabile Wobbufet assieme al nuovo compagno di viaggio Morpeko. Che in realtà della lotta ha visto poco perché non ha fatto altro che mangiare. Già dall’inizio sentivo che qualcosa era diverso. Sì, dicevano di essere lì a scoprire quali erano i Pokémon più forti da rubare e portare a Giovanni – ma qualcosa non quadrava. Né in loro, né in me.
Senza ammetterlo, stavamo tutti tifando per Ash e Pikachu.
Io e il team Rocket sapevamo bene che il regno di terrore di quel topo non sarebbe finito. Eppure lo nascondevamo a noi stessi, volevamo portar via per sempre il numero 25 dalla scena per regalarla a qualcun altro.
Destituire il tiranno, questo era il motto. Portarlo a Giovanni perché è forterrimo? E dai, non ci prendiamo in giro. “Denunceremo i mali della verità e dell’amore”, ecco! Questo è il vero motto. Pikachu deve sparire dal palcoscenico e lasciare il posto a qualcun altro; perciò va portato a Giovanni – perché il mondo sia al sicuro dal male che rappresenta. Il male del dio denaro, che cosparge di una patina d’oro tutto ciò con cui gli utenti interagiscono un secondo in più del resto.
Questo è lo scopo, vero? Noi non stiamo affatto tifando per il topo. Lo incoraggiamo a diventare più forte, per poi catturarlo all’apice della sua potenza e prendere noi il suo posto sulla scena. Destituiremo il tiranno a favore di qualcuno che piace a noi, perché sappiamo che piacerà a tutti.
Jesse si alza. “Forza, moccioso! Non ti azzardare a perdere.”
Ma che fai, Jesse? Noi siamo il Team Rocket. Non ti sarai calata un po’ tropo nel ruolo? Oppure non è che…
Non è che in realtà noi stiamo tifando per loro?
Ma sì, imbecille, è palese. Nessuno è là per rapire Pikachu e farlo sparire dalla circolazione. Siamo lì per vederlo lottare, per aiutarlo a vincere. Per assistere fino all’ultimo secondo dei suoi sforzi epocali. Fino a quello scontatissimo momento in cui un Fulmine abbatterà l’ultimo dei Pokémon di Dandel – il suo fidato partner Charizard.
Le mie certezze crollano. Eppure io quel Pikachu non lo sopporto: ruba davvero la scena. La sua sagoma è ovunque, perché ormai è praticamente il logo di un intero brand. E poi quella frase: “Ehi, Allenatore, lo hai catturato Pikachu?!”. Non in un gioco, nella realtà. Per strada. Ormai è impossibile giocare in pace a Pokémon GO. E anche indossare un cappello a visiera – avete provato? Non mi venite a dire che non vi hanno mai sfottuto così in vita vostra.
Che poi non ha nemmeno più senso, perché nel momento clue della lotta quel cappello lo indossa Pikachu.
Siamo agli sgoccioli. La tensione si taglia con un grissino. La scena si sposta sugli spettatori. Sulle tribune, sul laboratorio di Oak a Biancavilla, sul laboratorio di Birch a Hoenn. Su Alola, dove Kukui e i Pokémon di Ash attendono attoniti che uno dei due sfidanti cada a terra.
Sul mio divano. Dove io, pur sapendo come andrà a finire, fisso attonito la TV senza proferire parola. Nel silenzio di una tensione inspiegabile, finalmente capisco che sto facendo il tifo per Pikachu e Ash. Capisco perché lo sto facendo: perché dopo 25 anni forse, finalmente, Ash avrà realizzato il suo sogno diventando il miglior allenatore di Pokémon al mondo. Capisco tutto questo e ricordo perché mi sono appassionato a qualche mostriciattolo finto.
Da una umile casetta di campagna nella mia Biancavilla, penso a venticinque anni fa.
C'era una volta, a Biancavilla, un bambino di nemmeno dieci anni.
Era il giorno del mio compleanno. All’epoca non c’era granché, e nella mia ancor più umile casetta di una meravigliosa, quieta città attendevo con ansia. I ricordi sono davvero fumosi, ma tanto impattarono la mente di un bambino che ancora oggi non c’è l’intenzione di verificarli. In mano un GameBoy verde. E poi quella foto: io, mio fratello, una scatola di Pokémon Rosso. Il mio primo Pokémon: Squirtle.
Forse non mi interessa ricordare la realtà. Mi interessa ricordare la felicità, al punto da forzare in una scena di famiglia qualcuno che quasi sicuramente non c’era. Questo perché ha avuto inizio allora un lungo, lunghissimo viaggio, a conti fatti anche di più di quello di Ash Ketchum – in termini di tempo reale. Venticinque anni: sono tantissimi, cazzo. E ci ho tenuto talmente tanto a quel ricordo che quando il mio GameBoy verde si è perso io non l’ho proprio accettato, e ho dovuto ricomprarlo. Per il bene del mio ricordo.
Dovevo, perché era lui l’inizio della mia storia di videogiocatore. Volevo avere un pezzo di plastica e circuiti da guardare. Inavvertitamente se ne era staccata una scheggia, che di soppiatto mi si era conficcata nel cuore. Come potevo toglierla, senza nemmeno accorgermi che era lì?
Così la scheggia è cresciuta, quanto sono cresciute le console e i videogiochi. E allo stesso modo sono cresciuto io. Quando infine un’immagine dei Pokémon è apparsa sullo schermo del mio telefono, tecnologicamente forzata in un video live dell’ambiente circostante, dopo una pausa di anni le mie difese hanno ceduto: i Pokémon sono tornati.
La felicità non è mai mancata. A volte i tempi sono stati duri, certo, ma ricordi bui non possono coprire l’enorme luce che quel ricordo felice mi ha lasciato come guida. Una luce che si è evoluta e poi trasformata in un Totodile. Un Mudkip. Un Rowlet e infine un Cramorant. Eventi e persone lungo il percorso hanno trasformato me, aiutandomi a crescere tassello dopo tassello. A guardare nel buio, portando per mano una brillante luce dal passato.
Portando in mano una luce dal passato, più che altro, ad ogni metro della mia giornata. Qualcuno se lo è chiesto sicuramente come possa piacere ‘sta roba. Un gioco strano, a tratti malfunzionante, che sembra sempre la stessa minestra. Onestamente no, io non mi sono chiesto come mai mi piacesse. Solitamente è così che funziona – è difficile chiedersi il perché qualcosa ci piaccia, più di quanto lo sia volergli bene e basta.
Ma io, sotto sotto, ho sempre saputo il motivo come lo sanno probabilmente tutti gli altri. Per quanto siano finti e a tutti gli effetti solo su uno schermo, GO porta i Pokémon nel mondo reale. Basta la telecamera di un telefono, non serve nemmeno un top gamma, e poff! Un Pokémon del tuo box è di fronte a te. Si può scegliere un buddy (un Pokémon compagno) da far mangiare e lottare, percorrendo chilometri e chilometri insieme e scoprendo posti sempre nuovi.
Il mio perché, oltretutto, è anche e soprattutto questo: l’esplorazione. Tra i miei perché c’è il viaggiare per piacere personale, aprire per cinque minuti un gioco e catturare un Cosmog dal completamento di una missione. Ma non un Cosmog qualunque: uno catturato durante il mio viaggio solitario in Grecia. Un vanto personale, più con me stesso che con gli altri – in pratica un Cosmog di Luca. Un compagno di avventure, alla stregua di quanto Pikachu non sia per Ash Ketchum.
Pikachu e Ash: Pokémon GO crea in me un rapporto con un’immagine virtuale simile a quello che un ragazzino animato ha col suo compagno animato. Ed è lì che realizzo come mai, dopo tutti questi anni di mala sopportazione per un topo giallo, alla fine io abbia ceduto.
L’ho fatto perché anch’io ho il mio (i miei) Pikachu, che mi accompagna(no) mentalmente nei miei viaggi prestandosi a foto che sarebbero sensazionali, se io non fossi un inetto in materia. Io stesso ho guardato negli occhi verdi un Cramorant, dall’aspetto idiota e perso ma sempre perfettamente conscio di cosa ha attorno – un po’ come me. L’ho guardato e ho detto “questo Cramorant è il mio Cramorant. Lui è Pierino.”
Alla fine, quando contava, il moccioso ha vinto. Ce l’ha fatta, il suo sogno è realtà.
E adesso?
Ash sarà al capolinea, al culmine della gloria, ma io no. Per niente. Qualche giretto per la “regione” me lo sono fatto. Ho conosciuto persone e realtà, fino a tornare nella mia quieta Biancavilla e iniziare una vita qui.
Ma nonostante questo non sento affatto di aver iniziato una vita. Complice forse l’attualità – una pandemia che ha paralizzato il mondo, una guerra appena fuori porta che sotto sotto costituisce grande preoccupazione per tutti. Guardo indietro e mi rendo conto che forse ho dimenticato qualcosa nel mio passato, chissà dove. Chissa cosa.
E per ritrovarlo devo guardare avanti. Forse dovrò lasciare di nuovo Biancavilla e la mia Kanto – idealmente o fisicamente che sia. Come ha fatto Ash, che ha costantemente cercato la crescita in posti sempre nuovi. Ha conosciuto persone e Pokémon, lasciandole ogni volta dietro di sé ma senza mai staccare completamente la spina.
E l’ho fatto anch’io, accompagnato a volte da un gioco mobile per cui ancora mi sfottono ma che nonostante tutto porto sempre con me. È solo un gioco, sì, eppure ho dedicato il cuore a quella sensazione di gruppo, di esplorazione, di viaggio. Ho conosciuto angoli della mia città natale che non avevo mai visitato, e persone che ci vivevano da sempre anche se non le avevo mai viste. Più o meno come Ash.
Risibile: sto paragonando la mia vita a un cartone. Ma lo sappiamo tutti bene che anche un’animazione scema, se saputa ascoltare, può avere consigli da dispensare.
Grazie, Ash. E grazie, Pikachu. Chissà se ci vedremo ancora. Ma vi assicuro che vi porto nel cuore, e che anch’io resterò per sempre inguaribilmente attaccato a Biancavilla.
E lunga vita al dio Bidoof.
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