Ricostruire il mondo, sé stessi, la società.
Non si parla spesso di videogiochi come trampolino di lancio per ricostruire qualcosa. Certo che a prendere in mano gli esempi sbagliati difficilmente c’è del potenziale in quel senso, ma ovviamente non sempre è così. Il fatto è che questa è una storia molto recente, iniziata da un drammatico evento di non troppi mesi fa.
Notre Dame brucia. Tutti ne parlano, le fiamme divampano per giorni e non si sa come spegnerle senza peggiorare il danno. Che c’entrano i videogiochi con il ricostruire qualcosa di così importante? Additato più volte per un presunto incitamento alla violenza,
Assassin’s Creed poneva già da anni le basi per questo e molto altro a venire.
Mentre tutti guardavano solo alla copertina, Ubisoft studiava.
Un produttore videoludico che ha saputo radunare menti. Non solo menti da sviluppatore:
cervelli di culture diverse, ognuno con il proprio background. Non un semplice videogioco con la trama invecchiata male, ma una vera e propria
enciclopedia virtuale il più fedele possibile alla realtà. Prima Roma, poi Parigi, passando per la Turchia e le isole caraibiche fino ad arrivare all’antica Grecia. Proprio con questa (e il precedente Egitto) lo studio raggiunge forse
l’apice, con una
modalità ad-hoc per mettere sui libri – virtuali – i giocatori. Oltre i difetti, questo è
Assassin’s Creed.
L'idea non scritta alla base è che i videogiochi possono ricostruire.
E non solo una cattedrale. Le fedeli e strabilianti ricostruzioni di ambientazioni ben note fanno appena da contorno.
Il
riscatto di un ormai corrotto Altaïr fino a salvare il mondo. La
crescita personale di Ezio, che si confronta col proprio antenato e capisce – come Connor dopo di lui – di essere solo un tassello per un mosaico più grande. Passando per Edward, un pirata trovatosi involontariamente coinvolto in una lotta tra fazioni che gli costa la vita (no, il gioco non lo racconta questo), Arno incarna di nuovo gli ideali della
rivoluzione – una delle più iconiche di sempre. Il mondo è poi cambiato ancora, e Jacob ed Evie ne sono testimoni. Personaggi non reali, certo (
leciti sempre), ma inseriti in contesti e storie esistite. Personaggi che incarnano
valori, quelli che cerchiamo da anni ormai senza trovarli aspettandoli un po’ come Godot.
I videogiochi servono a ricostruire la società e le persone.
Dalla rivisitazione di tempi andati, in cui la società lotta per i propri ideali, oggi siamo arrivati letteralmente
alla deriva con
Death Stranding – l’ultimo pupillo di Hideo Kojima. Cosa vuole mostrarci la sua ambiziosa e un po’ contorta creatura è che come il continente unico che formava il nostro pianeta, anche la società va pian piano disperdendosi. Ci mostra
un mondo buio, che ha perso le sue connessioni al punto da risultare vuoto. Chi lo abita sa che
i rischi del tentare una riconnessione sono così elevati che nessuno osa provarci, perché dietro ogni angolo dell’insidioso viaggio si celano pericolose entità e terroristi. Il protagonista non sembra essere da meno, ma tutto sommato in cuor suo sa di cosa c’è bisogno – e così
parte, alla ricerca di una persona che gli è fisicamente lontana ma costantemente vicina. Alla ricerca di una strada per riconnettersi a lei, e per riconnettere sé stesso.
Perché tutto sommato
Death Stranding vuole mostrarci anche questo – che per ricostruire una società c’è bisogno prima di
ricostruire sé stessi, e i videogiochi possono
aiutare. Ce lo raccontava già Altaïr. quando, spogliato di ogni merito per la sua arroganza, viene costretto a tornare sui suoi passi in una ripetitiva caccia al templare e alla
saggezza. La stessa trovata da Ezio, un ragazzo irrequieto di buona famiglia catapultato dentro qualcosa di enorme, o da Edward, che alla fine del suo egoistico viaggio pirata deve fare i conti con la vita che si era lasciato dietro all’inizio. Un lungo viaggio lo abbiamo di fronte anche noi, d’altronde. Non sarà avventuroso quanto un’avventura per mare, ma spesso anche una storia di fantasia ha
veri insegnamenti da dispensare.
#LiveTheRebellion