Con la passione e la creatività si possono sviluppare titoli eccelsi, ma non è scontato che siano altrettanto redditizi. Produrre un videogioco al giorno d’oggi, mantenendo tutti gli standard qualitativi ai quali siamo ormai abituati, è davvero costoso e le case produttrici (Ubisoft, EA Games… Amazon?) cercano in tutti i modi di rientrare delle spese, le quali sono diventate davvero davvero folli. Scrittori, sceneggiatori, game designer, level designer, concept artist, 3D artist, programmatori, sound designer, attori mocap, project manager, commerciali e così via verso l’infinito e oltre, sono solo alcune delle figure implicate durante lo sviluppo e tutte, chi più e chi meno, devono poter mangiare.
Con l’aumento del personale e quindi della qualità, abbiamo ultimamente assistito anche all’aumento di quella parte del videogioco che potremmo definire commerciale. Se per i titoli free-to-play non possiamo assolutamente lamentarci (in qualche modo devono pur ripagare il loro lavoro) ciò non vale per i titoli tripla A. DLC concepiti come parte integrante della trama principale e non come un’espansione di essa, loot box che aiutano a concludere missioni appositamente create stressanti e luccicanti attrezzature dal costo virtuale improponibile, ma tranquillamente acquistabili con denaro reale, fanno giustamente storcere il naso ai videogiocatori che vedono castrato il proprio gioco pagato a prezzo pieno. Emblematica è stata la vicenda di Monolith e della sua gestione dell’ultima fase di gioco in La Terra di Mezzo: l’Ombra della Guerra. Per accedere al vero finale, erano necessarie tediose attività end game che potevano essere tranquillamente bypassate attraverso l’acquisto delle odiate loot box. Monolith fu aspramente criticata per questa scelta e per salvare le apparenze dovette fare un passo indietro. Non si tratta più di acquistare oggetti di abbellimento da sfoggiare online con i propri amici, ma di contenuti quasi obbligatori per poter godere appieno del titolo tanto desiderato. E dato il costo iniziale, un piccolo investimento in contenuti aggiuntivi per migliorare l’esperienza di gioco potrebbe ai nostri occhi risultare vantaggioso. Cosa che assolutamente non è. La vicenda di Monolith è solamente una delle tante scelte di marketing aggressivo che negli ultimi anni hanno favorito l’entrata del pay-to-win nei giochi tripla A, ma come sempre ciò che vediamo, ciò che emerge ai nostri occhi di utente medio, è solo la punta dell’iceberg. I videogiochi sono uno dei pochi mercati mondiali che non hanno conosciuto crisi e alcune grosse compagnie, che nulla hanno a che fare con il mondo videoludico, hanno già da qualche tempo adocchiato questa gallina dalle uova d’oro. Di recente abbiamo visto Google annunciare la sua nuova piattaforma di streaming Stadia e molti hanno urlato alla rivoluzione. E se vi dicessi che i più sconvolgenti cambiamenti potrebbero arrivare da un’altra grossa azienda, il cui unico rapporto con i videogiochi fino a qualche tempo fa era venderli ad un prezzo ridotto? Ovviamente stiamo parlando di Amazon. Forse non tutti sanno che la vera forza di Big A non sta tanto nei migliaia di magazzini e lavoratori podisti che possiede in tutto mondo, ma quanto nella babilonica infrastruttura digitale che la sorregge. Ecco che se prestata al mondo dei videogiochi, quell’immensa struttura scoperchia un Vaso di Pandora che fino ad ora non aveva ancora adombrato il nostro idilliaco mondo. Ora sta a voi: pillola rossa o pillola blu? Ovviamente pillola rossa.Le scelte che facciamo, in qualsiasi luogo virtuale online, hanno un peso sulla creazione di nuovi contenuti, sia digitali che non.
AlphaGo Un bellissmo docu-film che illustra le incredibili potenzialità del Machine Learning e dei traguardi raggiunti fino ad ora è AlphaGo, disponibile su Netflix.
Avete mai sentito parlare di Machine Learning? In parole semplici, il Machine Learning è una branca dell’Intelligenza Artificiale che sviluppa e studia l’apprendimento automatico delle macchine. Si avete sentito bene: apprendimento automatico e autonomo. I programmatori non scrivono più l’intero codice decisionale di una AI, ma solamente una serie di metodi di apprendimento che la macchina utilizza per analizzare enormi quantità di input e di output. Essa, dopo numerosi cicli di analisi, “capisce” che ad un certo tipo di dato in ingresso corrisponde un particolare dato in uscita e riuscirà così a rispondere in autonomia, senza che la sua decisione sia stata scriptata. Per caso avevamo parlato di metodi di raccolta dati prima? Siamo di fronte ad una vera svolta, il punto di non ritorno che cambierà forse per sempre il concetto di videogioco. Amazon attraverso il ML offre una previsione in tempo reale di quando i giocatori lasceranno il gioco, quanto spenderanno e quali oggetti acquisteranno in seguito. Essi volenti o nolenti, generano set di dati comportamentali estremamente ricchi che costituiscono un terreno di gioco ideale per comprendere il comportamento umano. Con questa fonte di informazioni, il Machine Learning può esplorare le dinamiche sociali e di consumo e prevedere i comportamenti degli utenti, in modo da potersi adattare in tempo reale per mantenere i giocatori in game, senza alcun intervento da parte dell’uomo. Il videogioco non più come un’opera d’arte scolpita interamente dal team di sviluppo, ma come un figlio che dopo averlo accompagnato nei suoi primi passi, inizia ad avere un “pensiero autonomo” e a “scegliere” ciò che è meglio per lui. Il progresso tecnologico ha portato fino ad ora moltissime positività nel mondo del videogioco, ha aiutato non poco gli autori ad esprimere al meglio il proprio game design e il proprio messaggio. Ma con le ultime scoperte in ambito di Intelligenza Artificiale, nascono nuove domande alle quali fatichiamo a dare delle risposte. Se la macchina ad un certo punto del suo ciclo vitale prende decisioni in totale autonomia, di chi sarà la responsabilità delle sue azioni? E’ necessario meditare su questo, prima di dare vita a entità che non sappiamo ancora gestire.
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