The Witcher 2 porta avanti il discorso iniziato dal primo capitolo
Dopo aver terminato il primo capitolo con uno splendido colpo di scena, non potevamo che lanciarci immediatamente nella seconda avventura confezionata dai CDPR nel 2011: The Witcher 2: Assassins Of Kings. Questa volta, l’esperienza maturata nel corso del primo capitolo ci sarà utile per affrontare il mondo di gioco con una nuova consapevolezza: nel passaggio dall’RPG punta-e-clicca all’Action RPG nudo e crudo, la saga ha infatti guadagnato diversi punti di difficoltà, e ogni scontro sarà decisamente più difficile che in passato (complice anche l’impossibilità di bere pozioni nel corso della battaglia, una libertà che invece si possedeva nella prima avventura). Sebbene meno vasto rispetto al primo capitolo (e indubbiamente molto meno vasto rispetto al terzo), il secondo episodio della saga presenta comunque i tratti distintivi di CDPR: una cura maniacale per l’aspetto narrativo, che questa volta si fa molto più “politico” e mette in campo complotti, assassinii di monarchi e oscure alleanze; una scrittura dei personaggi senza precedenti, persino più approfondita rispetto al primo capitolo; un bestiario vasto e ampliato, che ignora diverse delle creature del primo capitolo per aggiungerne di nuove; e, infine, ottime trovate narrative, che permetteranno al giocatore, come nel capitolo precedente, di scegliere la strada da imboccare per giungere al finale desiderato, permettendo a Geralt di ripulire il suo nome dopo un’ingiusta accusa di regicidio.
Sebbene indiscutibilmente valido sotto tanti aspetti (primo fra tutti, la rivoluzione del comparto gameplay per adattarlo al gaming su console), The Witcher 2: Assassins of Kings è di sicuro molto ridimensionato rispetto al predecessore, sia per durata che per numero di ambientazioni proposte. I tre atti sono facilmente completabili in “sole” trenta ore (contro le oltre 50-60 del primo capitolo; una bella differenza), alcune scelte di gameplay (come la gestione delle pozioni e dell’inventario) non sono esattamente azzeccate, ma nondimeno non sono in pochi a definire The Witcher 2 il migliore tra i primi due capitoli della serie, probabilmente per merito degli incredibili momenti di qualità presenti nel corso del gioco (non ultima, la battaglia finale contro una maestosa bestia ancestrale che non vi riveleremo). La seconda avventura di Geralt, per quanto di dimensioni molto più ridotte rispetto alle altre due, è un’ottima occasione per consolidare una volta per tutte le conoscenze da witcher del giocatore, ed è un ulteriore passo verso la “fusione” perfetta che avverrà con il capitolo successivo: le scelte di Geralt sono ormai quelle del giocatore stesso, ogni scontro viene già studiato a tavolino in funzione del bestiario, e l’utilizzo delle pozioni risulta essere ancora utilissimo per portare a termine l’avventura, sebbene non necessario. Non mancano alcune side-quest dalla raffinata bellezza, come l’avventura che porterà Geralt ad affrontare un temibile demone notturno su una spiaggia deserta; già da questi pochi elementi, è possibile individuare l’approccio alle secondarie che sarà ufficialmente adottato dagli sviluppatori nel terzo capitolo.
Il capitolo dedicato alla maledizione di Henselt, in The Witcher 2, è sicuramente tra i più spettacolari del gioco intero
La Via
In The Witcher 3, la fusione tra Geralt e il giocatore si attua al cento per cento
E poi, c’è lui: lo splendido The Witcher 3: Wild Hunt, rilasciato nel 2015 dopo soli quattro anni dall’uscita del secondo capitolo. Una volta recuperata la memoria alla fine del secondo capitolo, Geralt si lancia alla ricerca di Yennefer di Vengerberg, potente maga e sua amante, mentre tutto il Continente è in guerra per l’avanzata dell’Impero Nilfgaardiano sulle terre emerse. Nel frattempo, però, Geralt viene incaricato dall’imperatore in persona, Emhyr Var Emreis, di ritrovare sua figlia Cirilla, portatrice del Sangue Ancestrale (che la dota di un incredibile potere magico), protetta di Geralt stesso tanti anni prima a Kaer Morhen e attualmente in fuga dalla Caccia Selvaggia, che vuole catturarla per sfruttare il suo potere. Per trovare Ciri, Geralt si ritroverà a viaggiare in lungo e in largo per tutto il Continente, passando prima da Bianco Frutteto, poi dalla zona del Velen e dalla città libera di Novigrad, per poi passare alle Isole Skellige e ritornare infine a Kaer Morhen. Un viaggio lungo (veramente lungo: circa 90 ore per essere portato a termine per bene), il più vasto della saga intera, che impegnerà il giocatore all’interno di un universo incredibilmente coerente e dettagliato e che metterà alla prova come mai prima d’ora le sue doti acquisite di cacciatore di mostri. La “fusione” tra Geralt e il giocatore può dirsi completa: pur inserendo un gran numero di nuove creature da affrontare, The Witcher 3: Wild Hunt spinge il giocatore in un mondo che conosce già da circa 100 ore di gioco complessive, un mondo fatto delle stesse pozioni, degli stessi pregiudizi, delle stesse creature e degli stessi personaggi. Una volta giunto nello sconfinato universo di questo terzo capitolo, chi gioca saprà affrontare ogni situazione da vero cacciatore di mostri, ricordando le tattiche da utilizzare e le caratteristiche di molte delle creature che si ritroverà ad affrontare. Per quelle che mancano, si può sempre dare una piccola lettura al bestiario.
The Witcher 3: Wild Hunt porta a compimento la perfetta fusione tra Geralt e il giocatore: la memoria del witcher è ormai diventata anche quella di chi gioca, con cui condivide bestie, pozioni, tattiche di combattimento e vecchi amici o nemici
Il gioco può essere affrontato anche senza alchimia e tattiche elaborate (a difficoltà media); tuttavia, il giocatore “veterano” degli altri capitoli sceglierà la formula più complessa
La formula di gioco, nel frattempo, si è molto semplificata, e non è più necessario utilizzare l’alchimia per avere successo in tutti gli scontri. Tuttavia, un vero cacciatore di mostri esperto conosce a prescindere le potenzialità di pozioni e unguenti, e non esiterà a sfruttare entrambi per osare e affrontare avversari un po’ più tosti da abbattere, o anche solo per divertirsi un po’ di più durante le battaglie. Il giocatore giunto al terzo capitolo (specie se dopo una lunga maratona, come il sottoscritto) conoscerà alla perfezione le doti dei segni, imparerà a usare le nuove meccaniche e le adatterà al suo stile di gioco già maturato nei capitoli precedenti, plasmando l’esperienza a proprio piacimento piuttosto che lasciandosi plasmare. In questo senso, l’opera di CD Projekt RED assume una valenza artistica indiscutibile: il giocatore è immerso in un mondo animato, pulsante di vita, vivace e sorprendente, ma anche coerente e affascinante ad ogni ora che passa. Ogni secondaria è una piccola narrazione che prende forma, si sviluppa e si conclude con raffinata eleganza, mettendo in gioco conflitti familiari, problemi economici e dilemmi tipici di un mondo che abbiamo già imparato a conoscere. Non solo: come ogni buona opera d’arte contemporanea che si rispetti, The Witcher 3 presenta anche un’esagerata mole di citazionismo, con continui riferimenti alla cultura pop (e non solo) nascosti in giro per tutta l’esperienza ludica. Un esempio: le Isole Skellige sono un evidente omaggio alla cultura vichinga e germanica in generale, con tanto di dea Freyja adorata dal popolo e una quantità immensa di nomi dal gusto tipicamente nordico (Heimdallr, Bjørn e riferimenti vari al “Ragh Nar Roog”, il Ragnarøk della cultura nordica). Non è raro, inoltre, trovare delle piccole chicche come un Necronomicon nella bottega di un venditore di libri antichi, riferimenti vari al mondo dell’arte (la “Novigrad Stellata” di Van Rogh) e tanto altro ancora.
E, quando ti ritrovi ad affrontare una Viverna Reale sulla cima di una montagna, con un sole che tramonta all’orizzonte e una tempesta di fulmini sui cieli di Oxenfurt, ti rendi conto che difficilmente un’altra opera potrà regalarti esperienze ludiche di altrettanta bellezza. Esperienze che, se si decide di lanciarsi nei DLC Hearts Of Stonee nel meraviglioso Blood & Wine, non possono che essere ampliate piacevolmente da qualunque giocatore decida di dar loro una chance. E chiunque abbia giocato anche solo Hearts Of Stone, con le sue splendide soluzioni narrative legate ai ricordi di Iris, saprà benissimo di cosa stiamo parlando.
L’Ars Ludica di The Witcher: tra Immersione e Interazione
Che CD Projekt RED sia stata in grado di creare un mondo affascinante, accattivante e ben studiato – specie quando si guarda al terzo capitolo – crediamo ormai che sia fuor di ogni dubbio. Sono passati ben otto anni tra il primo e il terzo capitolo della serie, e la differenza in termini grafici lascia a bocca aperta: il character design di The Witcher 3 è impareggiabile, ogni mostro è caratterizzato fin nei minimi dettagli e ammirarli tutti, nel pieno della loro bellezza, è un’esperienza che qualunque amante del fantasy dovrebbe fare. Ma, come abbiamo ripetuto spesso negli ultimi mesi, sarebbe un errore limitare la dignità artistica di un videogioco alla sola componente visiva: The Witcher, dal primo al terzo capitolo e senza eccezioni, è molto più che un semplice dipinto ben confezionato.
Lo aiuta sicuramente l’essere un “figlio d’arte” – o, in altri termini, un adattamento da un’opera di letteratura, che di per sé è già una delle più grandi arti conosciute all’uomo. Ma non è solo questo: utilizzando le estetiche e i linguaggi espressivi tipici dei giochi di ruolo (non ultimi la struttura a “scelte multiple” per i dialoghi, gli alberi delle abilità e cose del genere), la saga intera di The Witcher mette sul campo un universo vastissimo fatto di mostri, personaggi splendidamente costruiti, uomini spregevoli e, soprattutto, tematiche mature come il razzismo e il fanatismo religioso, a dimostrazione del fatto che il videogioco (come sappiamo tutti, qui dentro) è ormai maturo abbastanza da saper giocare coi propri linguaggi per mandare un messaggio chiaro e preciso. Dopo un viaggio così lungo, è inevitabile che l’esperienza lasci qualcosa nel cuore del giocatore, che si affezionerà a Triss e a Yennefer quanto a Ciri, Zoltan e Dandelion, e che si lascerà coinvolgere volentieri in un turbine emotivo che, alla fine, lo lascerà pienamente soddisfatto del percorso appena intrapreso.
La saga di The Witcher è una splendida opera d’arte videoludica, che mischia immersione e interazione in un continuo dialogo con il giocatore
Giocare la saga intera è come addestrarsi a essere un cacciatore di mostri capitolo dopo capitolo, con una traumatica prova iniziale nel primo episodio, un assestamento nel secondo e un perfezionamento delle proprie abilità nel terzo; ed è in questa cura per l’esperienza, in questa capacità di saper costruire un mondo virtuale caratterizzato quasi quanto la realtà stessa, che si distingue una vera opera di Ars Ludica da una mera ombra d’arte proiettata sul muro.
Forse non sapremo mai se i ragazzi di CD Projekt RED avevano esattamente questo in mente, quando hanno rilasciato il primo capitolo sul mercato. È probabile che non lo immaginassero neanche loro, nell’ormai lontano 2007; e, tuttavia, forse inconsapevolmente e forse no, la saga di The Witcher sa come immergere pienamente il giocatore all’interno dei suoi mondi immaginari, spingendolo a diventare un witcher esso stesso e a maturare insieme a Geralt. Un “gioco di ruolo”, appunto, e uno dannatamente efficace; perché The Witcher, visto nel suo complesso, è una vera opera d’arte ludica sotto ogni singolo aspetto, che si parli di lati tecnici, ludici o estetici. Un’esperienza che, una volta portata a termine, non saremo mai in grado di dimenticare.
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