Edoardo Andrini

ILoveRetro Retrocensione: Psychonauts

Brodo di cervello

 

Lasciate che vi parli di un gioco chiamato Psychonauts. Una rapida consultazione a Metacritic ve lo presenterebbe sinteticamente come “un buon platform 3D”; io credo invece che porti con sè un grande valore simbolico. Per esempio, come quando si parla di sparatutto frenetici si finisce inevitabilmente per citare DOOM e Quake; Psychonauts è la mia definizione di cult classic. Ciò significa che, per quanto sia meraviglioso, quasi nessuno lo ha effettivamente giocato quando è uscito nel 2005. A partire da qualche anno fa la situazione sta cambiando, il titolo è sempre più presente fra le labbra degli appassionati; una release su Steam e i piani per un secondo capitolo contribuiscono ad alimentarne la fama.

Ciononostante, la sua storia comincia negli anni ’90, negli uffici della mitica Lucasarts. Con Day of The Tentacle già nel curriculum, gli sviluppatori si misero all’opera sull’avventura grafica Full Throttle. In questo gioco, fra le varie sequenze, il protagonista Ben avrebbe dovuto affrontare un viaggio psichedelico all’interno della sua stessa mente. Al papà di Guerre Stellari e agli altri ufficiali dell’azienda non andò molto giù l’idea e la sequenza venne rimossa, forse per i possibili rimandi alle sostanze allucinogene in un decennio in cui imperversava la War on Drugs.

Membro del team che si ritrovò censurato era Tim Schafer, una vera e propria leggenda videoludica le cui gesta riecheggiano un po’ ovunque, tanto che sarà il padrino del Milan Games Week 2017. Dimostrandosi all’altezza della sua reputazione non abbandonò un’idea così folle e diversi anni dopo fondò Double Fine, il cui primo progetto fu Psychonauts: un platformer 3D gusto Banjo Kazooie, in salsa punta-e-clicca, su un un letto di black humor burtoniano e con abbondante contorno di originalità.

 

 

From the mind of Tim Schafer
Vi presento Razputin, un ragazzino dall’infanzia difficile, fuggito dall’impresa circense di famiglia per inseguire un sogno: diventare un Maestro della mente, uno Psychonaut. Lo ritroviamo dunque nel Whispering Rock Psychic Summer Camp, dove prende lezioni insieme ad altri ragazzi per sviluppare le proprie capacità mentali. Poteri come la telecinesi, la pirocinesi e la levitazione saranno sbloccabili nel corso del suo allenamento e fungeranno da meccaniche platform. Ma la vera rivoluzione è celata all’interno di un piccolo gadget a forma di porticina: esso permetterà a Raz di entrare nella mente altrui (ecco come Schafer ha vendicato il “mutilato” Full Throttle). Lo strumento accompagnerà l’aspirante mentalista anche al di fuori della scuola, quando quest’ultima sarà vittima di una minaccia: dovrà affrontare un viaggio imprevisto fra vittime di traumi, soggetti paranoici, e veri e propri matti da legare.

Così, mentre il nostro protagonista imparerà a conoscere i suoi poteri, noi giocatori impareremo a conoscere i personaggi che (letteralmente) esploreremo, e cominceremo a capire la vera forza di questa avventura peculiare.

 

 

“Un’odissea psichica nelle menti di disadattati, mostri e pazzi scoppiati”

Così si legge sul retro della confezione del gioco, in una delle didascalie più azzeccate della storia dei videogames. Psychonauts compie la sua decisione vincente nello scegliere una trama buona ma semplice: un protagonista dal passato difficile vuole inseguire un sogno ma un’entità malvagia minaccia la sua vita e quella dei suoi amici. La vera odissea di cui parliamo si svolge all’interno del subconscio, e si racconta attraverso un sistema narrativo fenomenale che fonde i metodi classici con ottime cutscene e, per finire, con il level design stesso. Sono i livelli stessi a parlarci delle persone che incontreremo.

Ad esempio, la mente scoppiettante e variopinta di una donna (apparentemente) spensierata è un’enorme discoteca anni ’70, completa di luci lampeggianti e disco-ball. Ma scendendo sempre più in profondità, nascosti fra le luci stroboscopiche e le fantasie sgargianti, si cominceranno e trovare incubi e sensi di colpa rinchiusi in gabbia: le loro grida lancinanti si perdono nel fragore della musica funky. Ecco la psiche di una persona forte, che è riuscita a lasciarsi alle spalle un passato terrificante. Il giocatore può scegliere quanto spingersi in profondità sfruttando l’elemento “collect-a-thon” del gioco: fra i numerosissimi collezionabili nascosti (forse anche troppi?) spiccano le casseforti, che contengono i ricordi più spaventosi del soggetto ospitante: una volta aperte si presenteranno come diapositive e faranno luce sul suo passato. Si tratta di esperienze spesso commoventi e memorabili. Ecco come Psychonauts premia i migliori esploratori in modo originale e speciale, senza limitarsi ad un contatore di “oggetti trovati/oggetti totali”.

 


Per approfondire:
Full Throttle Remastered
 

L’ambientazione appena descritta è una delle prime in cui ci avventureremo: con il progredire del gioco gli ospiti diventeranno sempre più imprevedibili e assurdi. Prendiamo Black Velvetopia, il subconscio del tormentato pittore messicano Edgar Teegle che ha perso il suo precedente lavoro e, con esso, la donna della sua vita. Per non abbattersi e non cedere all’ira (raffigurata come un enorme toro cremisi, El Odio, che imperversa per le sue vie neurali), Edgar ha riempito il proprio cervello di affreschi e dipinti: il nostro protagonista si farà strada per Velvetopia proprio utilizzando l’arte.

Un altro esempio è “The Milkman Conspiracy”, forse il capitolo più riuscito del gioco intero. Senza entrare nei dettagli, che vi lascerò scoprire da soli, si tratta della mente di un complottista paranoico e si presenta come una cittadina contorta in cui ogni oggetto nasconde una telecamera di sorveglianza. In questo livello bisognerà fare i conti con una gravità che cambia continuamente (anticipando Super Mario Galaxy di ben due anni!) e con un plotone di agenti segreti, che dovremo ingannare tramite vari camuffamenti.

 

 

Ognuno di questi personaggi, dal più stoico al più schizofrenico, è una lasagna con numerosi strati di segreti ed emozioni represse. Ma badate bene, Psychonauts non mira a commuovervi: il gioco è ancora oggi un piacere da guardare, ed in ogni suo poligono è infusa una stravaganza che riporta alla mente il Tim Burton dei tempi d’oro. Questo sia dal punto di vista grafico, con i suoi personaggi dalla cute olivastra e dalle fattezze caricaturali, sia dal punto di vista delle tematiche e dei dialoghi. Il gusto per l’humor nero, mai esagerato o fuori luogo, è lo stesso di Beetlejuice o La Sposa Cadavere: molti hanno provato, ma pochi hanno saputo essere così pungenti e acidi senza risultare offensivi e stucchevoli. Finiremo inevitabilmente per simpatizzare con tutti i matti e guarderemo con astio le patologie che li fanno soffrire. Il tutto è accompagnato da un’ottima colonna sonora che a tratti sembra frutto del genio di Danny Elfman. Peccato solo per un sistema di controllo un po’ complicato: sguazzare fra le sinapsi altrui può rivelarsi frustrante, ma ciò capita di rado; anche l’interfaccia utente non è sempre “decifrabile” con facilità (tratto genetico forse dovuto allo stretto grado di parentela con le avventure grafiche che Schafer e compari sviluppavano in Lucasarts).

 

Then send in the Psychonauts!
Ragazzi, la faccenda è questa: di questo gioco ce ne è da parlare per tanto tempo. Ho dovuto scegliere meticolosamente cosa riportare in questa retro-recensione e cosa no, ma questo perché credo che con ulteriori spoiler rovinerei la strambezza sorprendente di questa piccola opera d’arte, di fatto unica nel mondo dei videogame. La recente release su PlayStation Network a cui si affianca la versione Steam dovrebbero renderlo accessibile alla maggior parte di voi: per un prezzo che non supera mai i dieci euro, è un acquisto che vi consiglio caldamente.

E chissà, magari vi unirete anche voi al branco di matti che smaniosamente attendono il ritorno di Raz, per farsi accompagnare ancora una volta nella mente di Tim Schafer: questo, se va tutto bene, avverrà nel 2018.

 

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