Pietro Iacullo

Speciale Clover Studio: monografia di un (in)successo

Clover Studio è il punto più alto e contemporaneamente il più basso di Capcom

Notifica di scioglimento di sussidiaria controllata.

Capcom Co., Ltd – 12 Ottobre 2006

Così Clover Studio abbandonava definitivamente gli scaffali dei negozi di videogiochi, in un anonimo 12 ottobre del 2006. Niente cerimonie, niente elogi funebri – per quelli ci sarebbe stato tutto il tempo negli anni successivi, con colpevole ritardo – niente di più di un anonimo comunicato stampa pieno di paroloni in buratichese. Ironico vero? Un manipolo di passacarte che decide, usando un linguaggio da passacarte, di staccare la spina ad un collettivo che aveva scelgo il quadrifoglio come logo perché “Clover” era la contrazione di “Creativity Lover“.

Clover Studio ha raggiunto l’obiettivo di sviluppare videogame creativi e unici, ma nell’ottica di una manovra atta a concentrare le risorse su business più focalizzati per aumentare l’efficienza del potere di sviluppo di tutto il gruppo Capcom, lo scoglimento di Clover Studio è stato chiesto ed approvato dal Consiglio di Amministrazione“. Lo smacco più grande arriva quando il cadavere dello studio è ancora caldo.

Peggio dell'indifferenza dei giocatori nei confronti del trittico di Clover Studio c’è solo la consapevolezza che un team così creativo sia stato ammazzato in modo così banale, senza nemmeno il riguardo di una boss-fight epica

Ma per capire l’origine del nostro sdegno, per capire perché qualche settimana fa avevamo definito l’ennesimo ritorno sulle scene di Okami alla stregua dell’accanimento terapeutico, da parte di una Capcom che è sempre più tentata dai pachinko che dal coraggio, bisogna per forza di cose tornare indietro. Se vorrete accompagnarci, le righe che seguono cercheranno di raccontare la sfrontatezza e la mancanza di rispetto nei confronti dello status quo che è stata il più grande biglietto da visita di Clover Studio.

Clover Studio prima di Clover Studio

Gli Enfants Terribles e allo stesso tempo Prodige di casa Capcom

A ragionarci adesso, sapendo com’è andata a finire e tenendo presenti alcune delle scelte fatte nell’ultimo quinquennio di Capcom, è quasi paradossale, ma così è (se vi pare). Clover Studio nasce fondamentalmente con lo scopo di dare il giusto spazio agli elementi più vicini alla figura dell’artista che all’epoca gravitavano attorno alla casa di Osaka, quegli uomini che in un grande progetto – e chi vi scrive, nel suo piccolo, ha sperimentato la cosa in prima persona – fanno la differenza, ma vanno incanalati verso condizioni che gli permettono di farlo. Pensiamo ai precedenti di Hideki Kamiya: Capcom lo mette dietro un progetto come Resident Evil 4, lui ci pensa e dopo un po’ e la fa fuori dal vaso con il primo Devil May Cry, un prodotto dannatamente rivoluzionario (ha inventato un genere, c*zzo!) ma che ha veramente poco in comune con la serie survival horror. Ma anche il “vero” Resident Evil 4, quello che alla fine quando è finalmente uscito ha destabilizzato l’approccio dell’intera industria alla visuale in terza persona – addio, comandi in stile carro armato tanto cari a Lara Croft – ha alle spalle una storia fatta di frizioni, polemiche e tutti gli altri ingredienti che portano alla ricetta di uno sviluppo travagliato. Shinji Mikami si ritrova invischiato in questa storia anche per questo: il suo ruolo di producer negli otto anni precedenti gli ha impedito di fare quello che voleva fare in Capcom – cioè creare nuovi progetti – e quando finalmente c’è l’opportunità di tornare dietro la tastiera il progetto è il quarto capitolo dell’IP che lo ha lanciato… Ed il dubbio di non stare andando da nessuna parte, professionalmente parlando, si affaccia forte. Ma anche i precedenti dell’altro figuro di spicco di quella che sarà Clover Studio, Atsushi Inaba – che vestirà i panni del CEO della nuova società – non sono decisamente progetti con i piedi per terra, nemmeno se si sta parlando di Steel Battalion (un titolo per la prima Xbox in cui si pilotava un mecha bipede).

clover studio inaba steel battalion
Sì, Inaba è quel pazzo che ha provato a vendere un controller da 200$ su Xbox. Perché PS2 era troppo mainstream
L’occasione è ghiotta per tutte le parti in causa: più libertà e indipendenza per gli sviluppatori – Clover Studio, formalmente, è appunto una controllata di Capcom, non un semplice team interno – e una valvola di sfogo per i talenti della casa di Osaka, da cui la zaibatsu spera di raccogliere nuovi e succulenti blockbuster con cui assicurarsi le simpatie – ma soprattutto i soldi – dei giocatori. È il 2004 e, poco dopo aver partorito il sequel dell’acclamato Viewtiful Joe, è il momento di spingere su queste fantomatiche nuove Proprietà Intellettuali.

È il momento di Okami e di God Hand, in altre parole…

Dalla carta di credito alla carta di riso
Dopo aver ricordato al mondo videoludico che forma avessero i beat ‘em up a scorrimento orizzontale (quando ancora questi artisti erano parte del Capcom Production Studio 4), dimenticati in un mondo allora poco nostalgico, e averli reinventati, rivoluzionati, e reinterpretati con ben 3 capitoli e uno spin-off (sparsi per GameCube, PlayStation 2, Nintendo DS e PSP), il capobranco Hideki Kamiya vuole allontanarsi dallo stylish inteso come tamarro/sopra le righe per ricongiungersi anima e corpo ad una delle sue più grandi passioni: The Legend of Zelda: A Link to the Past. Proprio nell’ispirarsi ad uno dei suoi giochi preferiti Kamiya trovò le fondamenta per dipingere uno dei migliori giochi di sempre. La struttura zeldiana ne è solo lo scheletro, cui intorno cominciò a prendere vita un organismo fatto per lo più di cultura sintetizzata in codice, il Giappone feudale ricreato in punta di acquerello su carta di riso, dopo le prime e anonime tech demo poligonali, o se vogliamo bozzetti preparatori. Arte figurativa, musicale, mitologia e religione diventarono un tutt’uno attorno alla dea Amaterasu dalle fattezze di lupo, un lavoro svolto senza pensare ai soldi, senza possibilità di fama e successo all’infuori degli hardcore gamer, quei giocatori che hanno in se il culto del bel gioco, e per questo divenuto immortale. Carta (di riso) bianca da parte della casa madre, cui attorno gravitava ancora un satellite di sognatori. Due realtà che però, dopo gli scarsissimi risultati finanziari del progetto e dissidi interni, cominciarono ad entrare in conflitto, in una crisi ben lontana dal settimo anno, rimasta ancorata al secondo. Il retaggio di Okami però è una vera maledizione per Capcom, quelle maledizioni da yokai, tipicamente giapponesi e melodrammatiche. Il “Game of the Year meno venduto di sempre” si ripresentò a più riprese per deliziare pochi, rimanere invisibile a molti e infastidire le stanze del tesoro di Osaka, cui nemmeno il seguito, Okamiden per DS (sviluppato internamente), riuscì a portare Yen. Prima su PS3 e oggi su PS4 (ignorando una Switch sulla cresta dell’onda e perfetta per una produzionde del genere), ultima spiaggia di un’opera culturale più che cult, pergamena che racchiude il segreto per avvicinare al medium anche i più scettici, indimenticabile momento introspettivo di un team di rockstar “maledette”. O forse maledettamente geniali.

Un dito medio “divino”

God Hand: genio e sregolatezza, in un incompreso e non compreso epitaffio

Lo stesso anno del Signore, 2006, venne suonato il requiem di Clover, giunto in Europa quando la storia del quadrifoglio era già Storia. Una melodia disarmonica, folle, diretta di proprio pugno da uno Shinji Mikami mai così fuori dalle grazie di Dio. Si, perché God Hand è una sindrome di Tourette videoludica in cui il papà di Resident Evil e mentore di Kamiya insulta senza filtri l’industria e i giocatori, un divertissement senza capo ne coda ambientato in un far west nipponico, popolato da freak che sembrano usciti da Viewtiful Joe, se non dal peggiore dei circhi est europei. Un combat system sofisticato, totalmente a mani nude, tecnico oltre ogni logica, legnoso, frustrante e a tratti grottesco, condito da siparietti e gag dallo humour tipicamente anime. Non è un capolavoro, non sfiora neanche per sbaglio questo status, eppure il suo trash ha tutto quel che serve per diventare cult, quasi leggendario nei circoli degli intellettuali videoludici. Il suo ricordo è legato a doppio filo alla sua nobile discendenza, laddove Clover e Mikami rendono speciale un prodotto pieno di falle, talvolta anche “rotto”, grazie ai soli nomi presenti in titoli di testa e coda. Ludicamente però ci ha lasciato un Mikami nuovamente sperimentatore, sicuramente ispirato dai lavori dei suoi colleghi negli anni di Clover, lasciando via libera al copione scritto da Hiroki Kato e a un personaggio, Gene, che è la vera attrattiva del progetto, tanto nelle risse quando nei deliranti intermezzi. Un’esperienza fondamentale nella futura direzione “platinata” di Vanquish, dove il beat ‘em up fu sostituito dallo shoot ‘em up ma che presenta molti, raffinati e quasi irriconoscibili punti in comune con la sua opera più “divina”, tra cui la spiccata spettacolarità ed esagerazione unita ad un protagonista tanto tamarro quanto indimenticabile. Inutile menzionare le vendite di un’opera nata più per infastidire che per creare utili, fatto sta che Capcom, da questo momento non sarà più quella di un tempo, salvo rari casi. Paura di osare che ha portato i suoi talent ad allontanarsi irrimediabilmente, rinnegando la filosofia che aveva portato alla creazione del mitico studio.

Gli anni di Platino
Ma la storia non finisce con il comunicato stampa con cui abbiamo aperto. Una volta assaggiata la libertà – e di nuovo, chi vi sta scrivendo nel suo piccolo si è trovato a vivere qualcosa di molto similenon si torna più indietro, e in ogni caso la forza di volontà di alcune persone è più forte di tutto, anche del buon senso. Alla morte di Clover Studio la trinità che ha reso così compianto il team – la trinità di uomini dietro alle Proprietà Intellettuali, visto che purtroppo quelle sono rimaste ad Osaka – ricomincia a seminare. E ricomincia a farlo fondando Seed Inc., da cui poi nascerà quella software house che nell’ultima decade abbiamo conosciuto, amato e in qualche caso anche bacchettato come PlatinumGames. Anni di platino che ci hanno regalato qualcosa davvero capace di andare oltre l’oro, e poco importa se dei fantomatici Platinum Three (MadWorld, Infinite Space e Bayonetta) solo l’ultimo dei citati è stato davvero rivoluzionario, e anche in questo caso abbiamo dovuto soffrire per meritarci un capitolo 2 e quasi non si sperava più in un terzo. Anni che ci hanno regalato l’ennesimo titolone che abbiamo colpevolmente snobbato, salvo poi rivalutarlo all’uscita su Steam, impersonato questa volta dall’adrenalina tutta rumore e furore di Vanquish. Ma anche prodotti su licenza che spaziano dal riuscito Metal Gear Rising ad un maledettamente controverso Star Fox Zero, mentre Wii U ospitava oltre al già citato Bayonetta 2 anche una scheggia impazzita e caricaturale come The Wonderful 101, un altro titolo che si incolonna sotto la pila di quelli che non sono stati capiti dal grande pubblico.

Anni al cardiopalma, che hanno dispensato nella stessa misura gioie e dolori, che hanno visto la software house cambiare casacca più volte (da Sega a Nintendo, da Nintendo a Microsoft, da Microsoft di nuovo a Nintendo) in un valzer scandito dalle imprecazioni di Kamiya tramite Twitter. Anni che insomma, anche se il logo non è più un quadrifoglio e i capelli sulla testa – per chi ne ha ancora – tendono sempre più al grigio, non hanno dimenticato il significato di Clover Studio.

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